Il diacono dell’ospedale sa essere efficace come il barbiere. Viene una volta la settimana con la sua Bibbia in mano. Parlare di Dio in un reparto psichiatrico ha i suoi vantaggi: il diacono non viene mai aggredito o preso a parolacce, come può succedere al resto del personale.
Tutti gli altri vengono chiamati «stronzi» o con nomi di animali, tipo il dottor «Orso», la dottoressa «Serpe», l’assistente «Sbrano», salvo scoprire che i loro cognomi fanno già presagire la loro funzione di sorveglianti. Nomen omen: siamo così perché dentro di noi portiamo il fuoco del nostro nome. Eccezion fatta per il Professore. Uomo di bella presenza, con occhi di ghiaccio, di quel colore così azzurro che rende inespressivo lo sguardo, una maschera. Per noi era impossibile scherzare sul suo nome: il Prof veniva chiamato col suo cognome.
Arrivava con i suoi assistenti, un codazzo di camici bianchi svolazzanti in quell’aria densa che sa di ospedale, un’aria che non solo ha un odore, ma ti entra in bocca con un sapore di plastica, siringhe sterili e disinfettanti. Bisognava aspettarlo nella propria camerata senza girovagare per il corridoio. Spendeva poche parole con ognuno di noi e non ammetteva domande sulla durata del ricovero. In questo caso avrebbe decretato il nostro destino rivolgendosi a uno degli assistenti.
Lo faceva come se noi non esistessimo, come se non potessimo sentire. Poteva dire qualsiasi cosa: «Tienilo altri dieci giorni», «Aumenta la terapia a 0,50». Poi si rivolgeva a noi, chiedeva se ci sentivamo stanchi, euforici, se dormivamo bene o meno del solito, iniziando dal mio vicino di letto.
Col vicino avevo rotto il ghiaccio qualche sera prima, mi aveva confessato il suo mistero: era Giovanni il Battista. Lo guardavo con compassione, con il rispetto di chi si riconosce nel dolore altrui. Questa estasi gli arrivava tra capo e collo in qualsiasi momento.
Una notte si era alzato, e non potendo accendere la luce, come da regolamento, mi aveva svegliato per chiedermi l’accendino. In clinica, qualsiasi emergenza tra pazienti viene risolta immediatamente. Glielo avevo dato, mi ero girato verso di lui e mi ero messo a osservarlo nel dormiveglia. Il chiarore bluastro che arrivava dal corridoio, simile a quelle luci che uccidono le zanzare, rompeva il buio assoluto.
Lui si era acquattato ai piedi del letto, come un cane. Mormorava le parole sottovoce e il suo corpo tremava nel tenere il Vangelo. In quei giorni non potevo stare solo e mi lasciai coccolare dalle preghiere, ripiombando in quel sonno - non sonno provocato dagli psicofarmaci.
Poi il Prof arrivava a me. Una delle sue assistenti portava tacchi a spillo. Io stavo dritto come un palo, tentando di guardarlo negli occhi come si guarda uno dei propri familiari, non perché cercassi affetto, ma perché volevo fargli capire che volevo uscire, che tutto si sarebbe risolto. Il Prof mi chiedeva se dormivo, mangiavo, eccetera. Rispondevo di sì, che dormivo e non ero su di giri. Lui si rivolgeva a Tacchi a spillo e confermava la mia terapia.
Con i suoi mille denti ci salutava con una battuta, un «caro», e quel maledetto sorriso finale che ci faceva sentire ancor di più delle merde incapaci di stare al mondo.
Giovedì, finalmente, arrivava il barbiere. Si formava una lunga fila di uomini di fronte ai bagni comuni, molto puliti, che sanno di disinfettante e di umidità, quella che si forma quando i tubi dei cessi si rompono sotto le mattonelle anni Settanta, creando delle strisce color ruggine.
Il barbiere al timone di questa barca di folli aveva sempre la battuta pronta per minimizzare il contesto ospedaliero. Tutti i pazienti vengono prelevati, in un giorno qualsiasi della loro vita, nell’attimo in cui danno in escandescenze. Questo significa che si entra al TSOa senza niente, né mutande, né spazzolino, al massimo un pigiama che qualche parente può consegnare attraverso la porta. Insomma, il look di barba e capelli è l’istantanea del loro ultimo momento da liberi.
Io ero in fila, con in testa il mio solito cappellino da baseball. Aspettando, si ascoltavano le battute del barbiere e si chiacchierava con una certa noncuranza dei propri disturbi.
C’era un signore sui settant’anni che, nell’attesa, fumava alla finestra sul giardino. Con il mozzicone di una sigaretta se ne accendeva un’altra. Lo raggiunsi e gliene chiesi una. Il fumo colorava e rendeva visibile l’umidità autunnale. Mi disse che avrebbe fatto l’elettroshock il giovedì successivo, perché non stava bene. Cambiai discorso, per discrezione, e gli chiesi della sua famiglia, se vivevano vicini. Mi guardò, con le dita gialle fece uno di quei tiri che arrivano al filtro e in quell’odore chimico mortale cominciò a piangere. Aveva perso il fratello, non ce la faceva, senza di lui si sentiva morire, e ora era all’ultima spiaggia del Prof, l’elettroshock.
Dopo quel giorno mi feci furbo, non intendevo ritrovarmi più in quel pianto che ti bagna, tanto da sentirne il sapore di sale: se lo volevi vedere sorridente, dovevi evitare l’argomento famiglia. Ma, ovviamente, anche parlando di lasagne il vecchio riusciva a mettere in moto tutte le sue rughe e a piangere a dirotto.
Tornai in fila. Avevo aspettato per una settimana il barbiere, appena avevo cominciato a capire dove mi trovavo, e ci avevo messo un po’. In fila saltava sempre fuori il discorso del caffè, vietato: ci era concesso solo un merdoso orzo. Secondo la teoria del Prof, accettata anche dai suoi autorevoli colleghi, il caffè doveva essere considerato il primo step della dipendenza, qualcosa di terribile per i nervi e per il cuore. Perciò, solo gli infermieri potevano andare alla macchinetta del piano inferiore, e portarci su un cappuccino o un espresso. E noi bombardavamo di richieste l’infermiere di turno, promettendo che saremmo stati buoni, che non avremmo dato di matto perché il pranzo faceva schifo, che avremmo preso le pillole senza far finta di ingoiarle e che avremmo tirato fuori la lingua dopo aver bevuto dal bicchierino di plastica, così il povero infermiere avrebbe potuto controllare.
Se fra noi reclusi regna il sospetto, non è perché siamo paranoici. È il sistema che ti fa diventare così. Nessuno ti spiega quali e quante medicine prendi, cosa provocano, i loro effetti collaterali. Io ero pronto a percorrere il mio cammino di salvezza in quell’apocalisse, ma la pillola magica, spacciata come panacea universale, non mi convinceva. Eravamo anche certi che gli infermieri che convincevamo a portarci il caffè ci mettessero dentro delle gocce di un potente neurolettico, per sedarci ancora di più.
La fila, la nostra fila, è unica. Non è come la fila delle poste, della banca, o quelle per riscuotere le pensioni, dove le anziane si disperano. Noi eravamo lì per un miracolo, per un’assoluzione laica per le nostre follie e i nostri amori, tranne qualche imboscato dal carcere, finto lunatico, ozioso sul suo letto, che aveva come unico scopo di evitare la pena. Noi eravamo lì per non dover più piangere per i nostri cari, per non suicidarci, per riprendere a mangiare, ma senza che ci venisse data alcuna indicazione chiara che riaffermasse foss’anche una falsa verità per la risoluzione dei nostri problemi.
Un ragazzo si girò verso di me e, dopo la solita battuta sul cappello che non mi toglievo mai, si avvicinò e mi disse che c’era fica al reparto femminile, che lui le aveva viste dalla finestra quando erano in giardino. Lo guardai bene e lo riconobbi: era al TSO insieme a me.
Ci fecero uscire a prendere un po’ d’aria, scesi per le scale di fianco a un infermiere, felicissimo di potersi sgranchire le gambe. Non avevo sigarette, mi accasciai sotto l’unico albero e in una confusione irreale, come quando ci si sveglia da un sogno, vidi il ragazzo cercare di avvicinarsi alla rete metallica che ci divideva dal reparto femminile. Ma l’infermiere lo cacciò a male parole: nessuno doveva avvicinarsi alla rete.
Dall’altra parte c’era una ragazza, che lui aveva intravisto e sedotto nei giorni in cui si soffermava alla finestra. Le fece cenno con la mano di aspettare, lei rispose di sì con la testa. Molto probabilmente di là le infermiere erano distratte, perché la vidi aggrapparsi alle maglie della rete. Nel codice di quei due, tutto era diventato colmo di significato. La cosa mi sembrò durare un tempo infinito e aspettavo solo il rimbrotto finale di qualche sorvegliante che li avrebbe rispediti al chiuso.
Il nostro infermiere si accese una sigaretta e si girò, dando loro le spalle, mentre rilasciava un respiro di fumo. A questo punto il ragazzo tornò verso la rete. Dalla mia posizione sotto l’albero potevo vedere quelle dita che si cercavano attraverso il metallo freddo. Quando tutte le loro dita si unirono, i due cominciarono a cercarsi con le labbra. Poi la rete, scossa da un’infermiera del reparto femminile, frustò i loro visi, che erano vicini a sfiorarsi la bocca. Io non capivo come tutto ciò potesse succedere in così poco tempo e all’interno di una struttura che proibiva ogni contatto fisico.
Mentre tornavamo in fila, il ragazzo, ossessionato da quella «caccia», mi disse che alla successiva uscita avrebbe finalmente avuto il suo numero di telefono, lei glielo avrebbe scritto su un biglietto e lanciato accartocciato al di là della rete. Sapevamo bene che avremmo potuto usare il telefono solo fuori dal «semichiuso»,b ma per lui quello era il primo tassello di una vita completamente da ricostruire.
Lontano dalla fila stavano un giovane più o meno della mia età, seduto in un angolo, e un signore sulla sessantina, che a ogni accenno di saluto caloroso rispondeva con un lapidario: «No, non sto bene, grazie», e via, a camminare nel corridoio. Conoscevo la sua storia perché qualche giorno prima, dopo la sveglia con il tazzone bianco di orzo e le pasticche del mattino, avevo avuto occasione di parlarci, o meglio di ascoltare il suo monologo.
Stavamo guardando l’alba da una delle finestre del corridoio, mentre il puzzo di disinfettante ci assaliva dalle camerate che venivano riassettate. Mi disse: «Io ho fatto tutto quello che potevo fare, ho una famiglia, è preziosa per me, ho smesso di lavorare, sono finalmente in pensione, i miei figli sono a posto, tutto è perfetto, ma il mio compito è concluso. Volevo suicidarmi, per questo sono qui».
Pensavo alla sua famiglia che lo aveva portato lì, rifiutandosi di lasciarlo andare: non sei solo, gli avranno ripetuto mille volte, devi vivere. Tutto quello che avrei voluto dirgli io. Ma la sua frase – «Il mio compito è concluso» – era plausibile, niente da dire. C’era una sola via di fuga per lui, non poteva accettare altre strade. Era un male a senso unico.
Una signora in camice verde col colletto rosso, e un’etichetta sul petto con il nome della società che si occupava dei pasti, mi chiamò per fissare il menu della settimana. Avevo rimandato questa operazione, il giorno precedente, perché la scelta del cibo era l’ultimo dei miei pensieri.
Mi staccai dalla fila e tornai con lei nella mia camerata. Giovanni Battista – non è strano per noi chiamarci con dei soprannomi – era sdraiato sul letto. Tendeva a ingrassare, ma in quel modo strano provocato dai farmaci, e forse soffriva anche di un disordine alimentare, ingozzato com’era di cibo dai genitori nel tentativo di soddisfare il suo bisogno d’amore.
La signora si sedette di fronte a me su una delle due sedie malandate, scricchiolanti e consumate dai sederi dei tanti che ci avevano passato ore contemplando una via di fuga. Mi espose il menu: riso, pesce, pollo, pasta. Ma il problema, mi disse, era che stavo assumendo farmaci che probabilmente mi avrebbero fatto ingrassare. Guardai il mio vicino di letto, la sua pancia, un certo gonfiore generalizzato, e mi spaventai. Sono sempre stato magro, non volevo ingrassare. Concordammo una dieta a bassissimo contenuto di calorie, che poi mi accompagnò anche fuori dall’ospedale. Non sublimai questo regime in anoressia, ma con il cibo nacque un rapporto di noncuranza, che non favoriva certo una guarigione precoce. Se sai che ingrassi e ti gonfi, o non prendi le medicine o non mangi.
Tornai nella fila di fronte al bagno, dove il barbiere usava per tutti lo stesso asciugamano. Ero pronto anch’io a ripulirmi un po’ dall’immagine del mio episodio clinico. Entrai in bagno, oltrepassando tre vecchi lavatoi dagli angoli smussati, ideali per sedersi, e pensai che, magari, qualcuno piccolo ci si sarebbe potuto lavare.
Il barbiere sdrammatizzava qualsiasi discussione con la consumata facilità di chi da tempo frequenta l’ospedale. Osservavo la lama fare il suo dovere con quello sfrigolio tipico della barba tagliata a mano, quando vidi che il ragazzo che non partecipava alla fila finalmente era in piedi.
L’avevo conosciuto una notte. Dopo che si erano spente le luci, camminavo nel corridoio avvolto dalla luce bluastra di servizio, senza farmi sentire dall’infermiere e con gli occhi fissi sul pavimento di linoleum verdognolo a grandi riquadri, anche perché non c’era nient’altro da guardare. Alla fine del corridoio entrai nella stanza del reparto dove c’era il televisore, e nessun infermiere di guardia.
Un ragazzo era seduto in un angolo. Gli rivolsi un sonoro ciao, decisamente fuori luogo in una clinica psichiatrica, dove per di più stavano tutti dormendo. Mi rispose con un soffio, guardando a terra nella maniera febbrile tipica di chi l’ha fatta grossa. Disse che aveva collegato un tubo di gomma allo scappamento e poi l’aveva infilato all’interno della sua macchina, in un campo, di notte, a più di mezz’ora dalla tangenziale, ed era stato salvato per caso da due contadini ubriachi. Sembrava che non riuscisse a dire di più.
Poi, dopo un sospiro, aggiunse: «Mi ha lasciato, l’ho fatto per questo».
Ero di fronte a un mancato suicida, appena arrivato, che sentiva la necessità di raccontarmi la sua storia. Mi sembrava totalmente assurdo che fosse stato abbandonato lì da solo. Anche se, certo, non poteva riprovarci, blindato com’era.
Lo guardai con gli occhi umidi, non era congiuntivite ma condivisione. Non piansi, sarebbe stato inappropriato, ma cercai di spiegargli la necessità che lui fosse lì in quel momento. Gli dissi che lui era essenziale per me, anche se poteva sembrargli strano; era fisicamente importante perché era lì, di fronte a me. Io ero molto fragile allora e cercavo aiuto dappertutto, non solo da ricevere, ma anche da dare. Siamo qui, io sono salvo e tu l’hai sfangata, guardami, tu sei unico. Capisci, senza di te, se tu fossi morto, io non sarei esistito qui, non sarei mai entrato in questa stanza.
Tutto questo disc...