Testimonianza di Bill Smith
Il mio telefono squillò la mattina del 10 dicembre, giusto un attimo prima dell’una.
Potrei chiudere qui e limitarmi a dire che il mio telefono squillava, ma ciò non basterebbe a comunicare l’importanza dell’avvenimento.
Una volta mi era capitato di spendere settecento dollari per una sveglia. Quando l’avevo comperata però non era ancora una sveglia e quando avevo finito di trafficarci sopra era molto di più. Il cuore dell’apparecchio era una sirena dell’allarme antiaereo, surplus della Seconda guerra mondiale. Avevo aggiunto una cosina qua e una là e alla fine del mio lavoro non si sa bene chi tra lei e il terremoto di San Francisco sarebbe riuscito a tirare giù più gente dal letto.
Più tardi a questa macchina infernale avevo collegato il mio secondo telefono.
Mi ero procurato il secondo apparecchio quando mi ero accorto che ogni volta che suonava il primo facevo un balzo fino al soffitto. Solo sei persone dell’ufficio conoscevano il numero del nuovo telefono e così avevo brillantemente risolto due problemi. Avevo smesso di sussultare a ogni squillo dell’apparecchio e non venivo più svegliato da qualcuno che veniva a dirmi che c’era stato l’allarme, che mi avevano chiamato, che io non avevo risposto e che quindi, qualcun altro aveva preso il mio posto nella squadra d’emergenza.
Vedete, io sono uno di quelli che dormono come un sasso. Lo sono sempre stato; per mandarmi a scuola mia madre doveva letteralmente buttarmi giù dal letto. Perfino in marina, mentre tutti quelli attorno a me perdevano il sonno pensando al ponte di volo che li attendeva al mattino, io ronfavo tranquillo tutta notte e ci voleva il vocione del comandante per svegliarmi all’ora stabilita.
E poi, bevo anche un po’.
Sapete com’è. Da principio si comincia a bere solo ai party. Poi seguono un paio di bicchierini al termine della giornata. Dopo il divorzio avevo cominciato a bere da solo, perché per la prima volta in vita mia avevo difficoltà a prendere sonno. So benissimo che quello è appunto uno dei segnali premonitori, ma siamo ancora mille miglia lontani dall’alcolismo vero e proprio.
Avevo però cominciato a prendere l’abitudine di arrivare in ritardo in ufficio e avevo deciso che era meglio prendere qualche provvedimento prima che ci pensasse qualcuno più in alto di me. Tom Stanley mi aveva consigliato di rivolgermi a uno psicologo, ma io ritengo che la mia sveglia speciale funzioni altrettanto bene. C’è sempre modo di risolvere i propri problemi, basta esaminarli e prendere gli opportuni provvedimenti.
Per esempio, quando mi ero accorto che per tre settimane di fila avevo bloccato la sveglia e mi ero rimesso a dormire, avevo spostato l’interruttore in cucina e lo avevo collegato alla macchina del caffè, perché quando si è già in piedi e il caffè comincia a gorgogliare, è ormai troppo tardi per tornare a dormire.
In ufficio ridevano tutti di questa faccenda, la trovavano molto divertente. D’accordo, anche i topolini che corrono all’impazzata in un labirinto sono divertenti. E magari siete degli individui perfettamente equilibrati, senza un solo ingranaggio che stride o una molla troppo carica, ma se è così non voglio sentirne parlare. Andate a raccontarlo al vostro psichiatra.
Così, dicevo, il mio telefono squillò.
Mi rizzai a sedere, guardandomi attorno, e mi resi conto che era ancora buio e capii che quello non era l’inizio di un’altra normale giornata in ufficio. Poi afferrai il ricevitore prima che il telefono facesse saltare via anche il secondo strato di vernice dai muri.
Immagino che ci misi un po’ per portarmelo all’orecchio. Avevo bevuto qualche bicchierino non troppe ore prima e non ero certo nella mia forma migliore soprattutto se svegliato in quel modo, sia pure per una chiamata d’urgenza. Sentii un silenzio sibilante, poi una voce incerta.
— Il signor Smith? — Era una centralinista notturna della Commissione, una donna che non avevo mai conosciuto di persona.
— Sì, sono io.
— Attenda, prego, le passo il signor Petcher.
Poi anche il sibilo scomparve e prima che potessi protestare mi ritrovai in quella che è la versione del Ventesimo secolo del purgatorio, la posizione di “attesa” al telefono.
In realtà non mi dispiacque affatto perché mi diede la possibilità di svegliarmi del tutto. Sbadigliai, mi grattai, mi misi gli occhiali e sbirciai verso l’organigramma attaccato al muro con le puntine, proprio sopra il comodino. Eccolo lì: C. Gordon Petcher, appena sotto al presidente e alla scritta che diceva: MEMBRI DELLA SQUADRA D’EMERGENZA - AVVERTIRE I NOMINATIVI SEGUENTI PER TUTTI GLI INCIDENTI DI TIPO CATASTROFICO. L’organigramma veniva cambiato ogni giovedì al termine della giornata di lavoro. Il presidente, Roger Ryan, è l’unico il cui nome compare sempre. Qualunque cosa succeda, a qualsiasi ora del giorno o della notte, Ryan è sempre il primo a esserne informato.
Il mio nome si trovava poco più in basso sull’elenco, nello spazio contrassegnato dalla scritta “Funzionario di turno dell’aviazione IIC”, seguita dal mio numero di cercapersone e dal numero del secondo telefono di casa. Fra parentesi, “IIC” non significa “Due-C”, ma sta per “Investigatore Incaricato”.
C. Gordon Petcher era uno dei cinque membri della NTSB, la Commissione nazionale per la sicurezza dei trasporti, e in quanto tale era naturalmente un po’ sospetto. Quelli come me, assunti solo per la propria specializzazione si fanno sempre strane domande sui nuovi membri della Commissione che ricevono un incarico quinquennale. Così ognuno di loro è sottoposto a un certo periodo di prova prima di decidere se è uno di cui ci si possa fidare o, semplicemente, da sopportare e basta.
— Scusa se ti ho fatto aspettare, Bill.
— Non fa nulla, Gordy. — Gordy, così voleva che lo chiamassimo.
— Stavo giusto parlando con Roger. Abbiamo appena avuto un brutto incidente in California. E poiché è tardi e l’incidente è di rilevanti proporzioni abbiamo deciso di non aspettare che sia disponibile un mezzo di linea. Il nostro JetStar aspetta solo che la squadra d’emergenza sia pronta. Spero che si possa decollare nel giro di un’ora. Se tu...
— Quanto rilevanti, Gordy? Chicago? Everglades? San Diego?
La sua voce tradì un tono di scusa. A volte succede. Quando si comunicano notizie davvero brutte, ci si sente in qualche modo responsabili.
— Potrebbe essere di proporzioni più vaste di un Canarie — rispose.
Una parte di me era seccata per il modo in cui questo nuovo venuto parlava col gergo specialistico, mentre l’altra parte cercava di accettare l’eventualità di un disastro più grande di un Tenerife.
Gli estranei potrebbero pensare che quando parliamo di Chicago, Parigi, Everglades e così via, ci riferiamo a località, ma in realtà non è così. Chicago significa un DC-10 che perde un motore al decollo, provocando la morte di tutti coloro che sono a bordo. Everglades è stato un L-1011 che si è schiantato pancia a terra in una palude, con superstiti, mentre l’equipaggio cercava di riparare una luce della ruota di prua. San Diego invece è stato un grosso e prepotente PSA 727 che si è impigliato con un Cessna nella Zona Indiana, mentre a bassa quota era tutto un brulicare di Navajo, Cherokee e Piper Cubs. E Canarie...
Nel 1978, all’aeroporto di Tenerife, sulle isole Canarie, era successo qualcosa di impensabile. Un Boeing 747, a pieno carico e con i serbatoi pieni di carburante, aveva iniziato la fase di decollo mentre più avanti, sulla stessa pista, c’era un altro 747, invisibile nella fitta nebbia. I due aerei si erano scontrati ed erano bruciati a terra, come se fossero due goffi autobus cittadini imprigionati nel traffico dell’ora di punta, invece di due agili e sofisticate macchine volanti.
Era stato il peggiore disastro nella storia dell’aviazione, o almeno lo era stato fino al momento in cui avevo ricevuto quella telefonata.
— In che punto della California, Gordy?
— Oakland. A est della città, sulle colline.
— Che aereo è rimasto coinvolto?
— Due aerei: un Pan Am 747 e uno United DC-10.
— In volo?
— Sì. Tutte e due gli aerei erano a pieno carico. Non dispongono ancora delle cifre precise...
— Non preoccuparti. Credo di avere tutti gli elementi che mi servono. Ci vediamo all’aeroporto fra circa...
— Io prenderò un volo mattutino in partenza dal Dulles — disse. — Il signor Ryan mi ha consigliato di rimanere qui ancora per qualche ora per coordinare l’aspetto pubblico della faccenda mentre...
— Certo, certo. Va bene, ci vediamo sul posto.
Uscii di casa non più di venti minuti dopo aver riappeso il telefono. In quei venti minuti mi ero rasato, mi ero vestito, avevo preparato il bagaglio e avevo bevuto una tazza di caffè facendo colazione con una confezione pronta Swanson di uova strapazzate e salsiccia. Fu per me fonte di orgoglio constatare che non mi ero mai sbrigato più in fretta neanche prima del divorzio.
Il segreto sta tutto nella preparazione, nello stabilire delle abitudini e nel non variarle mai. Basta studiare le mosse, preparando tutto in anticipo e quando la telefonata arriva, si è già pronti.
Feci la doccia nel bagno al pianterreno invece che in quello vicino alla camera da letto, così potei passare in cucina e premere il pulsante pre-programmato del forno a microonde e accendere il Mister Coffee; sobrio o ubriaco che fossi, li avevo già caricati fin dalla sera precedente. Una volta uscito dalla doccia, riuscii a mangiare un boccone mentre mi radevo, poi riportai il rasoio di sopra e lo buttai in valigia che era già piena di mutande, canottiere, camicie, pantaloni e oggetti da toeletta. Fu solo a quel punto che dovetti prendere le mie decisioni della giornata, in base alla zona che dovevo raggiungere. Mi è già capitato di essere spedito con il minimo preavviso nel deserto di Mojave o sul monte Erebus nell’Antartide, e ogni volta l’abbigliamento è diverso. Il grande poncho giallo era già in valigia; ci si prepara sempre ad avere la pioggia sul luogo di un incidente. Le colline di Oakland non presentavano però particolari difficoltà in dicembre.
Chiudere le valigie, girare la chiave, prendere la pila di documenti sulla scrivania e ficcarli nella valigia più piccola che contiene le cose da tenere sempre pronte per le chiamate d’emergenza: macchina fotografica, vari rullini, taccuino, lente di ingrandimento, torcia elettrica e batterie nuove, registratore, cassette, calcolatrice, bussola. Poi di nuovo giù dalle scale, versare una seconda tazza di caffè e portare tutto fuori dalla porta che dà sul garage, lasciato aperto la sera prima; premere il pulsante d’apertura della porta del garage col gomito, chiudere la porta con una pedata e girare la chiave, buttare la valigia e valigetta nel baule aperto dell’auto, saltare in macchina, uscire a marcia indietro, premere il pulsante del telecomando di chiusura della porta del garage e assicurarsi che si chiuda completamente.
A parte il fatto di raccogliere qualche indumento, tutto il resto avvenne in modo automatico e non dovetti rimettermi a pensare fino al momento in cui mi trovai sulla Connecticut Avenue diretto verso sud. La casa era tutta barricata ermeticamente perché la tenevo sempre a quel modo. Grazie al cielo non avevo un cane. In ogni caso il mio vicino Sam Harowitz avrebbe tenuto d’occhio la casa durante la mia assenza non appena avesse letto la notizia del disastro sul “Post” dell’indomani.
Tutto sommato, avevo l’impressione di essermi abituato piuttosto bene alla vita da scapolo.
Io abito fuori Kensington, nel Maryland. La casa è fin troppo grande per me, adesso che ho divorziato, e riscaldarla costa un patrimonio, ma non riesco proprio a lasciarla. Avrei potuto trasferirmi in città, ma odio vivere in un appartamento.
Imboccai la Beltway in direzione del Nazionale. A quell’ora di notte la Connecticut Avenue è quasi deserta, ma i semafori rallentano la marcia. Qualcuno potrebbe pensare che l’Investigatore Incaricato di una squadra d’emergenza della Commissione nazionale per la sicurezza dei trasporti diretto sulla scena del più grande disastro nella storia dell’aviazione disponga di un faretto rosso da montare sul tetto dell’auto per sfrecciare via agli incroci, ma è triste riconoscere che la polizia del Distretto di Columbia non lo vedrebbe di buon occhio.
La maggior parte dei membri della squadra abitavano in Virginia e qualunque strada avessi preso mi avrebbero comunque preceduto. Ma in ogni caso l’aereo non sarebbe partito senza di me.
Personalmente odio l’Aeroporto nazionale che è un affronto a tutto ciò per cui si batte l’NTSB. Qualche anno fa, non appena arrivò la notizia che un aereo dell’Air Florida era andato a sbattere contro il ponte della 14a Street, un paio di noi pensarono (ma non ad alta voce) che quella sarebbe stata finalmente la volta buona per poterlo chiudere. Non andò affatto così, ma comunque io continuo a sperare.
Il fatto è che il Nazionale è troppo comodo. Per la maggior parte degli abitanti di Washington, il Dulles International è come se si trovasse nel Dakota. E in quanto a Baltimora...
Del resto perfino la Commissione tiene i suoi aerei al Nazionale. Ne abbiamo a disposizione qualcuno, di cui il più grosso è il Lockheed JetStar, che può portarci in qualsiasi punto degli Stati Uniti senza rifornimento. Di regola ci serviamo dei voli commerciali, ma non sempre è possibile. Questa volta per esempio era ancora troppo presto per trovare dei posti su un aereo di linea diretto a ovest. C’era inoltre la possibilità che, se la catastrofe era davvero delle dimensioni pronosticate da Gordy, una seconda squadra ci seguisse allo spuntare del sole. Insomma, questo disastro poteva valere per due.
Quando salii a bordo del JetStar c’erano già tutti, eccetto George Sheppard. Tom Stanley aveva parlato con Gordy Petcher. Mentre riponevo la mia attrezzatura, Tom mi ragguagliò su tutti i particolari che Petcher non sapeva ancora o che non si era sentito di rivelare durante il nostro colloquio.
Non c’erano superstiti. Non avevamo a...