«Pronto?» dissi. «Eh?… Ah, sì, sono io… No, chi Lea?… No, non mi ricordo…»
Sopra al telefono il muro era coperto di nomi e numeri, in colonna accanto al filo. Che certi però non stavano in colonna, ma anzi stavano messi qua e là, per storto.
«Pronto!» disse quella al telefono.
«Eh? Ah, pronto, sì… Scusa, no. Chi Lea?… Ah, quella che stavi qui l’altr’anno?… Sì, mi ricordo. Come stai?… Io bene, grazie.»
In certi posti, la carta era venuta via. In un altro posto, che sotto c’era un segno, faceva come un’addizione:
Pietrangeli 480.597 |
gas 683.332 |
Sette e due, nove. Nove e tre, dodici: segno due col riporto di uno.
«Ma che dici?» disse.
«Come? No, scusa,» dissi, «non dicevo a te. Come dicevi?»
Misi una mano sopra i numeri e stavo attento al telefono, dove allora pareva che questa Lea mi doveva assolutamente vedere la mattina appresso a San Giovanni, alle undici, e io rispondevo che andava bene.
«Va bene,» dissi. «Ciao.»
Veramente non mi pareva che andava bene, ma avevo allargato le dita e sotto si rivedevano i numeri:
Tre. Otto e otto, sedici.
«Professore,» disse, «mi raccomando. Non ti scordare.»
«Va bene, ciao,» dissi.
«No! aspetta!» strillai. «Ma io, alle undici, non posso venire. La mattina ho da fare!… Come? E devo fare la spesa, no?… E no, poi devo fare le camere. Poi, adesso, faccio pure qualche servizio per quest’altra pensione qui sopra… Come?… Ma no, non è questione di… è che… Aspetta un momento.»
«Signora!» chiamai.
S’aprì la porta in fondo al corridoio, uscì quella di Torino.
«Professore,» disse venendo vicino, «non strillate! La signora non è ancora tornata. In camera sua ci stanno due.»
«Ah. Allora senti,» dissi al telefono, «adesso la signora non c’è. Glielo dico domattina… Va bene, se posso venire vengo. Adesso vado a letto. Ciao.»
«Chi era?» disse quella di Torino. «Volevano la signora?»
«Chi? No, era una che stava qui l’altr’anno. Voleva me. Ciao, io vado a letto.»
«Ih,» disse, «professore! Che, ci avete l’amica?»
«Eh? Ma che vuoi? Ma lèvati,» dissi.
Venne con me in cucina e si mise a scaldare l’acqua, mentre io mi facevo la branda.
«Perché?» disse. «Adesso non si può domandare a un giovanotto se ci ha l’amica?»
Restò lì a guardare che mi levavo le scarpe, ripiegavo i calzoni.
«Senti,» dissi, «ci hai mica da fumare?»
«Adesso guardo.»
La sentii che andava in bagno e si versava l’acqua per i lavaggi. Poi uscirono quelli che stavano in camera e vennero a bussare in cucina che rivolevano i documenti.
«Hanno già pagato?»
«Ho pagato alla signora.»
«I documenti stanno lì sul tavolinetto all’ingresso.»
Richiusero la porta di casa, e poi non c’erano altri rumori. Pure Gina doveva essere uscita. Quella di Torino, aspettai un po’ se mi portava da fumare, ma non si fece più vedere. Spensi la luce.
Più tardi aprivano la porta di casa e poi quella della stanza sull’ingresso. Strillai:
«Gina!»
«Ma che vuoi?» disse piano, entrando in cucina.
«Che, ci hai da fumare?»
«E sto con uno!» disse incazzata.
«Uh, scusa,» dissi.
Andò via e richiudeva la porta. Poi richiudeva la porta della camera sua. Io volevo aspettare se tornava la signora, per dirgli di questa che aveva telefonato, ma quella chi lo sa quando tornava. Questa che aveva telefonato, poi, chi lo sa che voleva? Dopo dormivo.
La mattina presto, quando tornavo su col latte, in cucina era ancora scuro, dovevo tenere la luce accesa. Mettevo il latte a bollire, facevo i piatti. Dopo, quando era mattina più tardi, spegnevo la luce e il pavimento diventava grigio, si vedeva che era ancora sporco. Sotto al tavolino c’era rimasto qualche pezzo di maccherone attaccato per terra, un vago d’uva1 pestato. Dalla finestra della loggetta cominciavano i rumori del cortile.
Feci la branda e poi stavo seduto, guardavo i mattoni per terra che erano quadrati. Che però, se uno guardava da lontano, poteva pure parere che non erano tante file di questi mattoni, ma un pavimento fatto come un mattone solo, come tante volte li fanno pure. Invece a guardare bene, si vedevano le righe e uno li poteva contare, i mattoni oppure le righe, a parte che uno poi si sbagliava sempre di qualche riga. Anzi, non era che si sbagliava, ma non si ricordava più che riga stava contando. Restavo con l’occhio fermo sopra una riga qualunque. Finché poi non suonavano alla porta e mi dovevo alzare. Portavo fuori il secchio della spazzatura.
Quando rientrai, la signora s’era alzata pure lei e stava in cucina.
«Chi era?» disse.
«La mondezza.»
«Il latte l’hai preso?»
«Sì,» dissi. «È già bollito, sta nella piletta.»
«Digli alla Wanda che si alzi, che deve venire con me per l’analisi.»
La Wanda era quella di Torino, che adesso, però, pare che la signora la voleva mandare via, perché il riscaldo non gli passava. Poi lei diceva che se l’era preso da noi, che non era nemmeno due settimane che ci stava, mentre la signora diceva che ce lo doveva avere da prima.
Andai in fondo al corridoio e aprii la porta, la chiamai.
«Senti,» dissi, «dice la signora che ti alzi.»
«Eh… ecco…» disse. «Che?»
«Dice la signora che ti alzi.»
«Ma che or’è?» disse. «Che vuole?»
«E àlzati!» strillò la signora dalla cucina. «Devi venire per l’analisi!»
«E àlzati,» dissi, «no?»
Tornai in cucina, mentre quella si alzava.
«Si sta alzando,» dissi. «L’ho fatta alzare.»
La signora versò il caffè nella piletta e aprì la credenza, prendeva lo zucchero.
«Metti le tazze,» disse.
Quella di Torino arrivò che noi avevamo già finito e si metteva a sedere tutta ingrugnata, appoggiava il tubetto dell’elmitòlo vicino alla tazza. Poi stava sempre più ingrugnata e mescolava continuamente col cucchiaino, senza bere.
«Ohé,» disse la signora, «sbrigati, neh?»
Smise di mescolare, ma non rispose.
«Lo senti,» dissi, «che dice la signora? Sbrigati.»
«Ih!» urlò. «Tu poi impicciati per te, eh? Deficiente, morto di fame, scemo!»
Seguitò a urlare per un pezzo, e dopo cercava di rimettersi buona la signora, diceva che era tutta colpa mia. Lei non ci aveva niente in contrario, di fare l’analisi. Anzi. Ma era questo scemo che l’aveva fatta arrabbiare.
«Ma perché,» disse, «vi tenete dentro casa questo scemo?»
La signora stava a sciacquare le tazze e nemmeno la sentiva.
«Signora,» dissi, «lasci stare, le tazze le sciacquo io.»
«Eh, sì,» disse, «è meglio! Così ne rompi pure qualcun’altra!»
«Come?… Ah, no. No, no!»
«Nonnò un cazzo!» strillò. «Che, ne hai rotte poche, finadesso?»
«Poi,» disse, «senti un po’: ieri che m’hai portato? Che, io t’avevo detto di prendere il provolone?»
Io stavo sempre con l’idea che quella un giorno o l’altro mi mandava via, potevo appena parlare per la paura.
«No?» dissi. «Lo stracchino?»
«Lo stracchino!» urlò. «Lo stracchino! Ma io non t’avevo detto di prendere nessun formaggio! Io t’avevo detto il pane, la pasta, le melanzane, le ova, e nient’altro! Nessun formaggio! Se ti vuoi comprare il formaggio te lo compri coi soldi tuoi, hai capito? E a me il resto me lo devi portare giusto! Giusti me li devi portare i soldi di resto, hai capito?… Giusti!… Me...