Il Califfo e l'Ayatollah
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Il Califfo e l'Ayatollah

Assedio al nostro mondo

  1. 144 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Califfo e l'Ayatollah

Assedio al nostro mondo

Informazioni su questo libro

L'Isis del califfo Al-Baghdadi che minaccia «crociati ed ebrei» è davvero pericoloso per l'Europa? Perché sunniti e sciiti si combattono ferocemente se sono entrambi musulmani? Quanto è affidabile l'Iran dell'ayatollah Khamenei, che vuole a tutti i costi la bomba atomica? E ancora: l'Occidente è consapevole della pericolosa tenaglia in cui si trova, stretto tra il violento fanatismo del Califfo e l'espansionismo dissimulato dell'Ayatollah, e, soprattutto, saprà difendersi?

Questi interrogativi non dovrebbero interessare solo i politici in Europa e negli Stati Uniti, visto che non passa giorno senza che giornali e televisione non annuncino l'ennesimo attentato jihadista o l'ulteriore voltafaccia dell'Iran sul nucleare.

Le immagini delle stragi certamente ci sconvolgono. Quasi sempre, però, noi occidentali percepiamo le esplosioni di violenza dell'Isis o l'aggressiva politica di potenza iraniana come eventi dalle motivazioni oscure e irrazionali. E altrettanto irrazionale ci appare la scelta dei foreign fighters che, irretiti da una propaganda che sfrutta appieno la penetrazione capillare consentita dai social network, lasciano gli agi di una società affluente, ma «vuota e corrotta», per la nera bandiera e l'ideale di «purezza» dello Stato Islamico.

Fiamma Nirenstein, che da anni segue le vicende dell'area mediorientale, offre ne Il Califfo e l'Ayatollah una panoramica chiarificatrice delle forze in gioco, partendo dalla ricostruzione storica dei motivi del conflitto intramusulmano e dalle radici, non solo coraniche ma anche contingenti, della furia antioccidentale e dell'odio antisemita che animano sia l'Isis che l'Iran. Una furia di fronte alla quale l'Occidente, assuefatto a una pace dolorosamente conquistata e che perdura da quasi settant'anni, fatica a reagire in modo adeguato: invoca il multiculturalismo, teme l'accusa di islamofobia e commette un errore dopo l'altro sulla scena internazionale. Il rifiuto ideologico dell'uso della forza e la ricerca di un accordo a tutti i costi in politica estera, oltre che una solida rete di garantismo a protezione dei diritti umani, sacrosanto in condizioni «normali», si traducono infatti in debolezza quando si tratta di fermare infiltrati e fanatici.

Uno scenario fosco, dunque, sullo sfondo del quale si intravede però un barlume. Perché oggi i paesi arabi stanno in gran parte scoprendo di avere un interesse condiviso, in comune tra loro e persino con l'Occidente: lo sradicamento del terrore, sia sciita che sunnita. «Paradossalmente» conclude l'autrice «la storia del Medio Oriente e dei rapporti tra mondo occidentale e Islam non si è mai dimostrata così aperta a una svolta come ora.»

Domande frequenti

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VI

Se non amore, almeno reciproco rispetto

Una settantina di anni fa il mondo si trovò di fronte un nemico che rappresentava il male allo stato puro: in nome del suo credo uccideva, torturava, rendeva schiavi uomini e donne, bambini e vecchi. Sconfiggerlo era possibile solo distruggendolo alla radice, così la guerra fu terribile e spietata, ma alla fine il nazismo tedesco e l’imperialismo giapponese dovettero arrendersi. Anche contro il comunismo, che aveva molti tratti in comune con l’altra ideologia, fu ingaggiata in seguito una dura battaglia in nome della libertà. Ma fu molto più complesso e lungo batterlo, perché la sua forza egemonica, la sua capacità di convinzione in Occidente e il suo enorme attivismo nel creare quinte colonne (i partiti comunisti, le organizzazioni collaterali di donne, giovani, professioni, gruppi sportivi, intellettuali delle cui attività conserviamo a tutt’oggi potenti tracce) richiesero un lungo lavorio sui rapporti di forza militare, diplomatica, culturale.
Oggi, visto tutto quello che abbiamo detto fin qui, sembra davvero difficile che l’Occidente riesca a impegnarsi vittoriosamente nella guerra contro l’odierna rappresentazione del male, lo jihadismo, sia quello sciita che quello sunnita, che ci stringono come in una morsa; due forme, una non meno pericolosa dell’altra, e per altro in conflitto fra loro.
Per il momento la tendenza prevalente delle democrazie, rappresentata da Obama e dall’Unione europea, è quella della ricerca disperata di una scappatoia pacifica, una qualche forma di appeasement, a differenza della Russia che preferisce un’altra strada. Guardandoci intorno, non c’è in vista nessun leader degno di questo nome che possa decidere di affrontare di petto l’attacco che stiamo subendo, di salvare il nostro mondo, di dire con coesione e credibilità che dobbiamo batterci perché l’islamismo ci minaccia ormai da vicino. Dov’è la figura tanto anticonformista e coraggiosa – e così carismatica da non avere paura di essere tacciata di islamofobia – da spiegare in che cosa consiste il pericolo? Chi al giorno d’oggi ha la levatura necessaria a dar vita e coordinare una difesa programmata contro l’Islam radicale tutto intero, dalla shia dell’Iran che controlla Siria, Iraq, Yemen e Libano, alla sunna della Fratellanza Musulmana di Erdogan e del Qatar, fino all’Isis?
Se si trattasse di guerra armata, nessuno, qui da noi, intendo negli Stati Uniti e in Europa, avrebbe il coraggio di imbracciare le armi in territori vasti e incerti, per vincere una guerra contro l’Isis. Ormai si sentono continuamente notizie di battaglie perdute o di scontri per questa o quella città che si rinnovano con sorti alterne, laddove basterebbe la divisione corazzata di un esercito moderno per far scappare gli uomini del Califfo.
La scelta americana, che è quella che più conta al momento, è un rigoroso rifiuto dei famosi boots on the ground, cioè l’invio di truppe sul terreno, mentre si acconsente a fornire una sporadica copertura coi droni delle operazioni dei bravissimi peshmerga curdi; o si decide, spesso in extremis, di difendere luoghi che stanno per cadere nelle mani degli islamisti oppure di riconquistarli: gli scontri intorno alla città di Ramadi, per esempio, durano da mesi e anche questa, proprio come quella di Kobane, è una battaglia decisiva per schiacciare l’Isis. Eppure si è esitato a impegnarsi per vincerla. E figuriamoci se non si sarebbe potuto! Ora gli americani hanno inviato 450 consiglieri militari che saranno di stanza nella base di Al-Taqqadum: non si impegneranno nei combattimenti, ma forniranno supporto strategico ai soldati iracheni.
L’Isis non è invincibile. Lo hanno dimostrato i peshmerga curdi che hanno combattuto prima contro Saddam, che li voleva sterminare negli anni Ottanta, e ora si battono contro l’Isis. Vogliono ritagliarsi uno Stato indipendente e lottano per difendere il loro popolo, perseguitato dagli arabi, dagli iraniani e dai turchi. Negli anni Novanta hanno aperto il loro esercito anche alle donne, che gettano nel panico i tagliagole dell’Isis, perché morire per mano femminile preclude l’ascesa al paradiso. Hanno un rapporto speciale con Israele: la stampa curda parla dello Stato ebraico in termini positivi, fa conoscere la cultura e la società israeliane e si identifica con gli sforzi di Israele nella lotta al terrorismo.
Oltretutto le forze dello Stato Islamico sono molto sparse sul terreno e così si è costretti a disperdere l’intervento in mille bombardamenti, stando anche attenti a non colpire la popolazione inerme, per scongiurare l’inevitabile biasimo mondiale che deriva dalla guerra asimmetrica, in cui, quando si colpisce il nemico, si rischia sempre di fare del male a qualche innocente dato che i terroristi e i combattenti si nascondono stabilmente fra i civili.
Gli israeliani, che per fermare i missili di Hamas puntati sulla loro gente hanno dovuto colpire quartieri abitati, moschee, scuole (vuote) di Gaza perché là erano nascoste le armi con cui si bombardava persino Tel Aviv, e che in Libano hanno distrutto abitazioni trasformate in caserme dagli hezbollah, sono stati criticati da tutta la stampa mondiale e ora li si vuole processare per crimini di guerra. Naturalmente, anche i droni di Obama sono oggetto di analogo biasimo.
No, sarà molto difficile che la nostra società scelga di difendersi con le armi.
Lo si deduce anche dal fatto, oltremodo pericoloso, che perfino quando i terroristi sono a casa nostra, mille cautele ci impediscono di fermarli: per arrestarli e processarli devono essere colti «con l’arma fumante in mano» perché, anche se magari i servizi segreti li hanno individuati mentre organizzavano una spedizione in Siria, si troverà sempre un giudice che li rispedisce a casa, dato che è proibito usare prove ricavate da indagini di sicurezza.

Le illusioni e le possibilità

Dunque, la guerra guerreggiata non sappiamo reggerla per motivi soprattutto psicologici. Non sarebbe impossibile affrontare e sconfiggere gli eserciti barbuti dell’Isis, come non sarebbe impossibile impedire all’Iran le sue mosse imperialistiche. Ma a forza di non volerlo fare, ne siamo diventati incapaci. Lo si è visto nelle battaglie più importanti, come quella di Ramadi, dove il grande schieramento di Obama ha perduto e ha dovuto lasciare campo libero all’Isis a pochi chilometri da Baghdad. E ciò è accaduto dopo mesi di scontri e di intense riunioni strategiche: eppure non si è riusciti a inventare niente di meglio di un esiguo numero di attacchi con i droni (3800 in otto mesi contro i 47.000 lanciati nel primo mese dell’operazione Iraqi Freedom, nel 2003) a sostegno di un esercito iracheno incapace di combattere per l’erosione settaria e la paura dell’Isis; nonché l’incerta prospettiva dello sguinzagliamento dell’Iran sul terreno, a combattere al posto dell’esercito iracheno ormai paralizzato. Bella prospettiva se le città ora in mano all’Isis diventassero, in caso di vittoria, iraniane.
No, la soluzione militare non funziona, o almeno non funzionerà finché la presenza di Assad paralizzerà ogni intervento. Infatti, sconfiggere l’Isis equivarrebbe ad aiutare quel selvaggio dittatore, responsabile della morte di oltre 200.000 persone, facendo una cortesia troppo evidente all’Iran. D’altra parte, aiutare Assad contro l’Isis sarebbe per Obama un rovesciamento eccessivo di tutte le sue posizioni iniziali.
Tuttavia, è leggendo le cronache degli ultimi tre anni che possiamo cominciare a tratteggiare un’ipotesi di contenimento (ed è già qualcosa, anche se non si parla di «pacificazione») molto difficile da perseguire, ma promettente, sempre che rinunciamo alle nostre illusioni e ai nostri pregiudizi, che in genere si possono riassumere in tre punti.
Il primo punto per importanza è la convinzione che l’instabilità mediorientale derivi dal conflitto israelo-palestinese. Niente è più stupido e più evidentemente falso (se ci fosse uno Stato Palestinese, diminuirebbero forse le decapitazioni dell’Isis? O cambierebbe qualcosa nella guerra saudita contro gli houthi filoiraniani in Yemen?). Forse più stupida è soltanto l’idea che l’antagonismo e l’odio dei palestinesi siano nati nel 1967, quando la guerra dei Sei Giorni portò Israele a occupare il territorio giordano della West Bank. Basta invece considerare la lista degli attacchi terroristici palestinesi contro le comunità ebraiche nella Palestina mandataria e il diario dell’odio nazionalista di Haj Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme alleato di Hitler, e anche lo scatenamento della guerra contro la partizione del 1948, per capire che si tratta di una panzana. Prima del ’67 la macchina antiebraica era già pienamente in movimento, tant’è vero che nel 1948 gli Stati arabi rifiutarono la divisione fra Israele e Palestina e attaccarono Israele per ributtarlo in mare. Come probabilmente farebbero di nuovo oggi se fosse raggiunto un accordo... ma questa è un’altra storia.
Il secondo punto è l’illusione che con le forze estremiste islamiche sia possibile la trattativa e quindi il compromesso: per l’Islam niente è più proibito della pace col nemico; essa non è prevista dal codice di comportamento coranico. Prova ne sia l’insistenza di Khamenei sull’odio obbligatorio contro gli Stati Uniti, ribadito durante le trattative sul nucleare. Il compromesso non si può praticare, mentre si può praticare la hudna, un accordo temporaneo di cessate il fuoco che però, attenzione, non significa pace o tregua, ma serve di solito per riarmarsi e riprendere la guerra. Così, per noi è possibile credere di aver fatto un accordo e trovarsi invece tragicamente ingannati.
In arabo ci sono diverse parole che traducono i nostri concetti di «tregua», «pace», «armistizio». C’è lo ’ahd, una tregua che sottintende un’intesa col nemico, e la riconciliazione; il sulh, con cui si traduce in arabo anche il nostro concetto di «trattato di pace». Ebbene, la stampa araba usa per la maggior parte la parola hudna anche quando parla delle linee armistiziali del 1949, che ora sono diventate i confini del 1967. Anche Bin Laden, nel 2006, aveva offerto a Bush una hudna, prerogativa solo di un governante musulmano.
La hudna è entrata nel repertorio concettuale islamico dall’episodio coranico della finta tregua che Muhammad aveva concordato nel 628 con la tribù dei quraysh, che controllava la Mecca: dopo due anni di riorganizzazione e riarmo, i quraysh dispiacquero a Muhammad e tanto bastò al Profeta per distruggerli. E così è la hudna: un piccolo pretesto, uno sgarro in un patto instabile che non prelude a nessun vero accordo basta per far riprendere la jihad!
L’altra stranezza concettuale, messa in pratica da Obama, è che si possa utilizzare un estremismo, nel suo caso quello sciita dell’Iran, contro un altro, cioè quello sunnita dell’Isis. È evidente che se ne ricava solo un’espansione della forza imperialistica iraniana, come sta già succedendo in Siria, Iraq, Yemen, Libano, mentre l’Isis continua a prosperare. Non esiste scontro per interposta persona, non ci sarà un gendarme iranian-obamiano. Obama vuole lasciare l’eredità di un Iran portatore di equilibri nuovi. Lascerà invece un Iran portatore di nuovo disordine, perché inviso e fonte di ribellione dei sunniti di tutta l’area.
Infine, terzo punto, bisogna capire che non esiste, nascosta dentro qualche moschea, una massa di musulmani moderati pronti a correre in nostro soccorso, o comunque a condannare e infine bloccare i «cattivi». Certo, anche una parte del mondo musulmano desidera il quieto vivere. D’altronde, e con tutto il rispetto, un musulmano appartiene al suo mondo, non è una nostra brutta copia. E l’Isis e l’Iran, nelle rispettive aeree cui si riferiscono, sunnite o sciite, non sono visti come mondi di estremisti da condannare, ma solo come fonti di un bruciante dilemma. L’Isis, infatti, realizza alla lettera tutte le regole della sharia, ma anche l’Iran ha dato vita a una Repubblica Islamica con regole ben radicate nella legge islamica e la sharia è ciò che nelle scuole, nelle università oltre che a casa, in famiglia, si insegna a ogni musulmano, è inscritta nella sua cultura e nel suo cuore. Ci è difficile capirlo, ma le strette regole alimentari e di abbigliamento, la sottomissione della donna e persino la lapidazione, la crocifissione, il taglio della testa, l’uccisione dei pagani come gli yazidi o la riduzione in schiavitù delle loro donne sono tutte regole scritte nel Corano, e un buon musulmano, anche se è un individuo che aborrisce il sangue, si domanda se non si dovrebbe vivere secondo la Scrittura.
Racconta l’ambasciatore Zvi Mazel, israeliano, che nell’ottobre 2014 una distinta professoressa di giurisprudenza ed economia islamica, Eman Mustafa, si è dimessa dall’università di Dammam, in Arabia Saudita, per unirsi all’esercito islamico nel Nord della Siria: «Nel momento in cui ho capito» ha scritto sul suo blog «la tragedia del popolo musulmano, sono diventata un membro dello Stato Islamico, ancora prima della creazione dell’Isis... La jihad è la strada, l’unica vera strada. I leader non possono abbandonare questo sentiero, e se Al-Baghdadi lo facesse, lo rimpiazzeremmo: la vera strada, la jihad, illumina la via del credente che ha deciso di abbandonare le cattive azioni così da realizzare il proprio dovere fino alla morte».
Semplice. E confermato da moltissimi scritti e prese di posizione, nonostante l’incessante tentativo di ribadire che la jihad, quella delle armi, e la sharia, quella dell’obbedienza alle norme scritte che impongono anche di uccidere e decapitare, non è il vero Islam. È sbagliato sperare nell’Islam moderato, invocarlo, pregarlo di battere un colpo.
E dunque, se eliminiamo la strada della guerra guerreggiata perché non siamo più in grado di combatterla e perché non corrisponde più alle aspirazioni, all’antropologia del mondo contemporaneo come lo vediamo noi, dobbiamo anche evitare di farci un idolo della speranza che molti coraggiosi, o dissidenti convinti, siano disposti a farsi considerare apostati dai loro correligionari. Pochissimi imam o guide spirituali, e nessun politico musulmano andranno oltre la condanna immediata di un attentato particolarmente efferato. Subito aggiungeranno che l’Islam è tutt’altro e saranno mosche bianche quelli che, invece, sosterranno giustamente che ha bisogno di una riforma.

Imparare a conoscere l’Islam

Se dunque siamo determinati a cercare una strada realistica, dovremo scegliere di guardare le cose come le guarderebbe un islamico, ovvero dal punto di vista dell’interesse della sua parte e di quanto questo interesse può essere minacciato. Ricordiamoci cosa ha detto il professor Bernard Lewis per giustificare la mossa, all’apparenza incomprensibile, di Anwar al-Sadat quando decise di fare la pace con Israele (mossa che gli è costata la vita): egli spiega che la decisione fu presa quando l’Egitto, a causa del declino sovietico, si sentì improvvisamente abbandonato dal suo migliore alleato e risolse quindi di proteggersi dal pericolo maggiore, ovvero un Israele forte, alleato degli Stati Uniti e suo nemico come ai tempi della sconfitta bruciante nella guerra dei Sei Giorni. Così, con un gesto impensabile, firmò gli accordi di Camp David.
Oggi la situazione, agli occhi di un blocco di Stati arabi che, fossimo meno smaliziati, definiremmo moderati, è un po’ la stessa: per decenni sono stati contractors, gli alleati della potenza americana, chi in un modo chi in un altro, e ora si sentono abbandonati e traditi da Obama, che dopo averlo fatto chiaramente capire con le sue azioni, lo ha apertamente detto durante un summit con Arabia Saudita, Oman, Kuwait, Emirati Arabi, Bahrein e Qatar, tenutosi a Camp David e a Washington il 14 maggio 2015: «Non vogliamo isolare l’Iran. Vogliamo un Iran che, con responsabilità, giochi un ruolo nella regione». Secondo la sua dottrina, infatti, un accordo con l’Iran sarà di grande aiuto nel mantenere l’equilibrio in Medio Oriente.
I sei Paesi arabi già si aspettavano l’incredibile mossa (promuovere l’Iran a rappresentante degli Usa in Medio Oriente!) e si erano preparati: il re saudita Salman ha deciso di non presentarsi e di mandare al suo posto alcuni dignitari. Anche il Bahrein ha fatto sapere che il re Hamad al-Khalifa non avrebbe partecipato. Perciò, tra i sei Paesi invitati gli unici due monarchi presenti erano gli emiri del Qatar e del Kuwait: un colpo alla strategia di Obama che, forse, ha dovuto fermarsi cinque minuti a riflettere su quanto abbia sempre sopravvalutato il fascino della sua personalità. Lui, figlio di una cultura mista, vorrebbe trasferire a tutto il mondo la fortuna che ha avuto, dentro di lui e nella sua biografia, la fusione fra mondo cristiano e mondo musulmano. Molto generoso, ma totalmente fallimentare, persino rispetto al suo ruolo di primo presidente nero: gli Usa bruciano ancora di scontri razziali come al tempo di Mississippi Burning.
In Medio Oriente, gli immensi interessi di Riyad sono stati violati, l’Iran è la principale preoccupazione della monarchia saudita ora che i filoiraniani houthi occupano militarmente gran parte dello Yemen, minacciando quindi il loro Paese e cercando il controllo del Bab al-Mandab, da cui passano i tre quarti del traffico navale internazionale. La decisione di Salman di non andare al summit di Obama dimostra che i rapporti con gli Usa si sono spezzati.
La richiesta del presidente americano ai Paesi sunniti di venire a Washington a fornirgli un supporto per l’accordo nucleare con l’Iran suona di fatto pazzesca, uno svisamento storico, al punto da domandarsi che razza di consigli egli riceva dai suoi esperti. La forza Al-Quds, della Guardia rivoluzionaria iraniana, opera, supportata dagli hezbollah, in trenta Paesi nei cinque continenti. Solo nel 2011 sono stati scoperti i suoi piani per un attacco di massa a Washington con obiettivo principale l’ambasciata saudita. Una nuova cellula è stata da poco individuata a Cipro. Né si può contare sull’odio antisunnita, dato che, in passato, Al-Qaeda ha trovato rifugio a Teheran e l’Iran ha aiutato Hamas. Obama ha sbagliato strada, oppure si è trattato di una mossa particolarmente arrogante, con la quale il presidente ha voluto a ogni costo ribadire che l’Iran sarà, qualsiasi cosa dicano i Paesi arabi, il suo partner preferito in Medio Oriente, addirittura l’ago della bilancia. Ma quale ago della bilancia, con 6000 centrifughe per arricchire l’uranio ancora nelle sue mani e u...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il Califfo e l’Ayatollah
  4. Introduzione
  5. I. Obiettivo: il Califfato mondiale
  6. II. L’Isis: da dove viene e dove va
  7. III. La riscossa degli sciiti
  8. IV. L’Iran e la bomba
  9. V. Gli errori dell’Occidente
  10. VI. Se non amore, almeno reciproco rispetto
  11. Bibliografia
  12. Ringraziamenti
  13. Copyright