Ottobre 1997
I tergicristalli dell’auto di Kate cedettero non appena fu uscita da Fishguard, scivolando impotenti sul parabrezza nel momento esatto in cui la pioggia, già battente, decise di trasformarsi in torrenziale.
«Oh, che noia» disse sterzando e facendo scattare su e giù la levetta sul cruscotto. «Non si vede un accidente. Tesoro, se accosto alla prossima piazzola, potresti sporgere il braccio per pulire il parabrezza?»
Sabine si portò le ginocchia al petto e fissò la madre con cipiglio. «Non farà la minima differenza. Potremmo anche fermarci.»
Kate fermò l’auto, abbassò il finestrino e cercò di pulire la sua metà del parabrezza con la sciarpa di velluto. «Be’, non possiamo fare una sosta. Finiremo per arrivare in ritardo. E non posso permettermi che tu perda il traghetto.»
Sua madre in genere aveva un buon carattere, ma Sabine conosceva la volontà ferrea che traspariva dalla sua voce, e sapeva benissimo che solo uno tsunami avrebbe potuto impedirle di salire su quel traghetto. Non era una gran sorpresa: era un tono col quale si era scontrata molte volte nelle ultime tre settimane, ma quell’ennesima riprova della sua impotenza la spinse a girarsi dall’altra parte con l’aria imbronciata, in una forma di muta protesta.
Kate, ormai abituata ai cambiamenti di umore della figlia, se ne accorse e guardò altrove. «Sai, se non fossi così occupata a odiare questa sistemazione, potresti addirittura divertirti.»
«E come faccio a divertirmi? Mi mandi in un posto dove sono stata due volte in tutta la mia vita, a vivere in mezzo alle paludi con la nonna, che ti piace così tanto che non la vedi da un’infinità di anni, a fare la serva mentre il nonno tira le cuoia. Grandioso. Bella vacanza. Non vedo l’ora.»
«Ehi, guarda, hanno ripreso a funzionare! Vediamo se riusciamo ad arrivare al porto.» Kate strinse il volante e la vecchia Volkswagen ripartì con un balzo sulla strada bagnata, lanciando schizzi di acqua fangosa sui finestrini laterali. «Non sappiamo se il nonno è davvero così malato: a quanto pare è solo molto debole. E penso che ti farà bene stare via da Londra per un po’. Praticamente non hai mai incontrato la tua nonnina e sarà bello stare un po’ con lei prima che diventi troppo vecchia o che tu decida di andartene in giro per il mondo.»
Sabine continuò a tenere lo sguardo fisso fuori dal finestrino. «La mia nonnina. La fai sembrare la Famiglia Felice.»
«E so che ti sarà grata per l’aiuto che le darai.» Sabine evitò ancora di guardarla. Sapeva maledettamente bene perché sua madre la stava spedendo in Irlanda, e sua madre sapeva che l’aveva capito, e se era così ipocrita da non volerlo ammettere, non poteva aspettarsi da lei un atteggiamento sincero.
«Corsia di sinistra» disse, sempre senza voltarsi.
«Cosa?»
«La corsia di sinistra. Devi prendere la corsia di sinistra per il terminal del traghetto. Oh, santo cielo, mamma, perché non ti decidi a metterti quei maledettissimi occhiali?»
Kate sterzò bruscamente a sinistra, ignorando le proteste degli altri automobilisti alle sue spalle e, seguendo le indicazioni di Sabine, riuscì a raggiungere il cartello con la scritta “Imbarco passeggeri”. Si fermò in un parcheggio, una piazzola deserta e battuta dal vento, all’ombra di una specie di Lubyanka grigia e anonima. “Perché costruiscono uffici dall’aria così deprimente?” si chiese distrattamente. “Come se la gente non fosse già abbastanza triste al solo pensiero di entrarci.” Quando l’auto e i tergicristalli si fermarono di nuovo, la pioggia si mise d’impegno per oscurare gli edifici circostanti, trasformando il mondo esterno in un quadro impressionista.
Kate, che senza occhiali vedeva quasi tutto come un quadro impressionista, fissò il profilo della figlia desiderando per un momento un saluto carico di affetto. Era sicura che qualunque altra madre e qualunque altra figlia se lo sarebbero scambiato. Avrebbe voluto dire a Sabine che era terribilmente dispiaciuta che Geoff se ne stesse andando e che per la terza volta nella sua giovane vita la sua quotidianità dovesse subire uno sconvolgimento. Avrebbe voluto dirle che la stava mandando in Irlanda per proteggerla, per risparmiarle le scenate che lei e Geoff faticavano a evitare mentre, dopo sei anni di convivenza, la loro relazione volgeva alla fine. Avrebbe voluto dirle che, anche se lei e sua madre da tempo non avevano alcun rapporto, ci teneva che Sabine sentisse di avere una nonna, un’altra persona sulla quale contare.
Ma Sabine le aveva sempre impedito di parlarle: era come se fosse perennemente ricoperta da un manto di spine, un istrice splendido e corrucciato. Quando Kate le diceva che le voleva bene, Sabine rispondeva definendole smancerie da Casa nella prateria. Quando le si avvicinava per abbracciarla, la sentiva trasalire. “Come è potuto succedere?” si chiedeva. “Ero così decisa ad avere un rapporto diverso con te, a darti tutta la libertà che mi era stata negata. Volevo che fossimo amiche. Come sei arrivata a disprezzarmi?”
Kate era diventata brava a nascondere i propri sentimenti perché Sabine diventava sempre più scontrosa quanto più lei si mostrava sensibile e bisognosa di affetto. Così si mise a frugare nella borsa strapiena e le tese una busta, che conteneva due biglietti e quella che considerava una somma generosa. Sabine non ci badò.
«Allora, la traversata durerà circa tre ore. Sembra che il mare sia un po’ mosso, ma temo di non avere niente per la nausea. Arriverai a Rosslare intorno alle quattro e mezzo e la nonna ti aspetterà al banco informazioni. Vuoi che te lo scriva?»
«Penso di riuscire a ricordarmelo» rispose Sabine seccamente.
«Se qualcosa va storto, ho scritto i numeri di telefono di casa dietro la busta. E telefonami quando sbarchi, così saprò che sei arrivata.»
“E che hai campo libero” pensò Sabine con amarezza. Sua madre doveva davvero ritenerla una stupida. Doveva credere che non sapesse che cosa stava succedendo. Moltissime volte, nelle ultime settimane, era stata tentata di urlarle: “Guarda che io lo so! So perché tu e Geoff vi state separando. So tutto di te e di quello stramaledetto Justin Stewartson. E so che mi vuoi fuori dai piedi per qualche settimana perché così potrai continuare la tua disgustosa storiella!”.
Ma in qualche modo, nonostante tutta la sua rabbia, non ne aveva voglia. Sua madre sembrava così triste, così svuotata e infelice… Eppure, se pensava che lei se ne sarebbe andata in silenzio, si sbagliava.
Rimasero sedute in auto per qualche minuto. Di tanto in tanto la pioggia si placava e riuscivano a intravedere il brutto terminal davanti a loro, poi le gocce riprendevano a cadere e il quadro si trasformava in un acquerello sbavato.
«E così quando ritorno Geoff se ne sarà andato?» Mentre parlava, Sabine sollevò il mento, per sembrare più sprezzante che curiosa.
Kate la fissò. «È probabile» rispose lentamente. «Ma puoi vederlo tutte le volte che vuoi.»
«Come potevo vedere Jim.»
«Allora eri molto più piccola, tesoro. E le cose si sono complicate perché lui si è rifatto una famiglia.»
«No, si sono complicate perché mi è toccato un maledettissimo patrigno dopo l’altro.»
Kate tese la mano alla figlia. “Perché nessuno ti dice che i dolori del parto sono solo l’inizio?” si chiese.
«È meglio che vada» borbottò Sabine aprendo la portiera. «Non vorrei perdere il traghetto.»
«Ti accompagno fino al terminal» disse Kate sentendo che i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime.
«Non disturbarti» rispose Sabine. La portiera si richiuse con un tonfo, e Kate rimase sola.
Fu una traversata burrascosa, tanto che i bambini scivolavano urlando sulla moquette dei corridoi, seduti sui vassoi rubati ai camerieri, mentre i genitori dondolavano pigramente sulle sdraio di plastica, bevendo lattine di Red Stripe tra una risata e l’altra. Oppure barcollavano in coda al bar per comprare patatine carissime, ignorando le insalate che appassivano sotto i fogli di pellicola, o giocavano alle slot-machine sistemate vicino alle scale, in un frastuono di tintinnii e ululati di sirene. A giudicare dal numero delle famiglie e dall’apparente volontà di tutti di rimandare gli effetti della sbornia, la traversata della domenica pomeriggio doveva essere un’abitudine per i vacanzieri del fine settimana.
Sabine si sedette accanto a un finestrino, ascoltando la musica con gli auricolari per isolarsi da tutta quella gente irritante che la circondava. Sembravano identici ai clienti degli autogrill lungo l’autostrada o dei supermercati. Gente che non badava a quello che indossava, al taglio di capelli ormai fuori moda, e a quanto fosse imbarazzante il modo in cui stava seduta o parlava. “Ecco come sarà l’Irlanda” si disse Sabine con aria torva, al di sopra dei bassi che provenivano dal suo CD. “Arretrata. Ignorante. E per niente cool.”
Per la milionesima volta, maledisse sua madre per averla mandata in esilio, per averla allontanata dai suoi amici, dalla sua casa, dalla sua vita normale. Sarebbe stato un incubo. Non aveva niente in comune con quella gente, i suoi nonni erano in pratica degli estranei, lasciava Dean Baxter nelle grinfie di Amanda Gallagher proprio quando pensava di aver fatto passi avanti con lui e, peggio ancora, non aveva nemmeno un cellulare o un computer per mantenere i contatti. (Effettivamente, il computer era troppo ingombrante, e sua madre le aveva detto di scordarsi un piano tariffario che prevedesse le chiamate internazionali per il suo già costosissimo cellulare. Se fosse stata lei a dirle di scordarsi qualcosa, sua madre si sarebbe chiesta a cosa fosse servito mandarla in una scuola privata.)
Quindi non era solo in esilio, ma le era anche stato negato il conforto di un telefono o delle e-mail. Mentre se ne stava seduta a guardare il tempestoso mare d’Irlanda, però, per un attimo Sabine si sentì sollevata. Almeno non sarebbe stata costretta ad assistere alle tensioni infinite tra sua madre e Geoff, che lentamente e dolorosamente stavano sciogliendo la rete della loro vita domestica.
Sapeva che sarebbe successo ancora prima di Geoff. Lo sapeva da quel pomeriggio in cui era scesa dalla sua camera e aveva sentito sua madre sussurrare al telefono: «Lo so. Anch’io ho voglia di vederti. Ma sai che in questo momento è insopportabile. E non voglio peggiorare le cose».
Era rimasta quasi paralizzata sulle scale, poi aveva tossito ostentatamente. Sua madre aveva interrotto la telefonata all’improvviso con un tono colpevole, poi era entrata in salotto con aria fin troppo allegra. «Ah, sei tu, tesoro! Non ti avevo sentito! Stavo pensando a cosa preparare per cena.»
Sua madre non preparava mai la cena. In cucina era un disastro. Ci pensava sempre Geoff.
E poi lo aveva addirittura incontrato. Justin Stewartson. Fotografo per un quotidiano nazionale di sinistra. Un uomo così pieno di sé che preferiva prendere la metropolitana piuttosto che salire sull’auto scalcinata di sua madre. Un uomo che pensava di essere fico solo perché portava una giacca di pelle (fuori moda da almeno cinque anni), pantaloni kaki e scarponcini. Aveva fatto di tutto per impressionare Sabine, citando gruppi underground che pensava lei conoscesse e cercando di sembrare uno sprezzante esperto della scena musicale. Lei gli aveva lanciato quello che sperava fosse uno sguardo fulminante. Sapeva perché stava cercando di fare l’amico, ma non sarebbe servito a niente. Inoltre, dopo i trentacinque anni un uomo non poteva essere fico, anche se pensava di saperne qualcosa di musica.
Povero Geoff. Povero e antiquato Geoff. Se ne stava seduto a casa, con aria preoccupata, sera dopo sera, pensando ai pazienti che non riusciva a internare, nonostante le telefonate a tutte le strutture psichiatriche di Londra per impedire che un altro pazzo finisse in mezzo alla strada. Non sapeva niente. E sua madre si allontanava sempre di più; finché un giorno Sabine aveva capito che lui sapeva, perché le aveva lanciato uno dei suoi lunghi sguardi indagatori: “Lo sapevi? Tu quoque, Brute?”. Non era facile ingannare Geoff, forte della sua preparazione di psichiatra, così, quando aveva risposto al suo sguardo, aveva cercato di trasmettergli la propria comprensione e la disapprovazione per l’inqualificabile comportamento della madre.
Aveva pianto tanto, ma di nascosto da entrambi. Geoff era irritante e un po’ invadente, e Sabine non gli aveva mai permesso di assumere un ruolo paterno. Ma era gentile, sapeva cucinare e faceva stare bene sua madre, ed era stato presente sin da quando lei era una bambina. Più a lungo di tutti gli altri. Inoltre, al solo pensiero di sua madre e Justin Stewartson insieme le veniva da vomitare.
L’annuncio dell’imminente arrivo a Rosslare fu trasmesso poco dopo le quattro e mezzo. Sabine si diresse al punto di sbarco dei passeggeri, cercando di ignorare il...