Giuseppe e i suoi fratelli - 4. Giuseppe il Nutritore
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Giuseppe e i suoi fratelli - 4. Giuseppe il Nutritore

  1. 700 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Giuseppe e i suoi fratelli - 4. Giuseppe il Nutritore

Informazioni su questo libro

«Giuseppe e i suoi fratelli non è un romanzo sugli Ebrei, ma un canto allegro e serio al tempo stesso che celebra l'uomo e fa discendere la sua benedizione non solo sul pupillo di Giacobbe, trascinato dalla vita a compiere un apprendistato tanto severo quanto splendido, ma sull'umanità stessa. Ho avuto cura di caratterizzare Giuseppe come una natura d'artista ed è certamente una benedizione quale si conviene a un artista quella che egli riceve dal padre. Il fascino umano che emana la condizione di ogni artista consiste in questa doppia benedizione: quella che discende dall'alto e quella dell'abisso; è il fascino dei sensi che si fanno spirito e dello spirito che diviene corpo; è una dote che discende dal fondamento materno della vita, dalla sfera dell'istinto, del sentimento, del sogno, della passione; ed è dote che discende dalla sfera paterna della luce dello spirito, della ragione, dell'intelletto, del giudizio ordinatore.» Thomas Mann

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804649441
eBook ISBN
9788852064081
Capitolo sesto

La sacra messinscena

DELLE ACQUE

Tutti i figli dell’Egitto, anche i più istruiti e i sapienti, avevano idee sommamente puerili sulla natura del loro Dio-Nutritore, su quell’aspetto e quel modo di manifestarsi della divinità che la gente di Abram chiamava “El Shaddai”, il Dio del Sostentamento, e la gente della Terra Nera chiamava “Chapi”, cioè il Fiume della piena, il Traboccante; in una parola sulla natura del Nilo che aveva creato il loro straordinario paese di oasi tra deserto e deserto e nutriva la loro vita e la loro civiltà edonistica e al tempo stesso devota alla morte. Credevano e insegnavano ai loro figli di generazione in generazione che questo fiume, Dio sa dove e come, sgorgava dal mondo infero per discendere verso il “Grande Verde”, l’oceano sconfinato, che essi identificavano con il Mediterraneo, e che anche il suo ritirarsi dopo l’inondazione fecondatrice fosse come un ritorno nel mondo sotterraneo… In breve, su questo punto regnava tra di loro la più superstiziosa ignoranza, e dovevano al fatto che allora nell’universo mondo le cognizioni scientifiche non erano superiori, anzi per certi versi inferiori, se essi, nonostante tale ignoranza, riuscivano a sopravvivere. È bensì vero che ciò non impedì loro di fondare un Impero magnifico e potente, universalmente ammirato, che sfidò i millenni, di produrre cose belle e specialmente di trattare in modo molto ingegnoso l’oggetto della loro ignoranza, cioè il Nutritore. Ma noi, che conosciamo meglio, anzi perfettamente la natura del fiume, proviamo rammarico per il fatto che allora nessuno di noi era presente per illuminarli e istruirli sulla vera natura delle acque d’Egitto. Quale scalpore avrebbe suscitato nelle scuole sacerdotali e nelle corporazioni dei dotti la notizia che lungi dal nascere dal mondo infero, cosa che andava respinta come un pregiudizio, Chapi altro non è che l’emissario dei grandi laghi dell’Africa tropicale e che il Dio-Nutritore, per divenire quello che è, deve prima nutrire se stesso, raccogliendo tutte le acque che dalle Alpi etiopiche fluiscono verso occidente. Nel periodo delle piogge torrenti montani, carichi di detriti finissimi, dalle alture vanno a gettarsi nei due corsi d’acqua che formano, per così dire, la preistoria del futuro fiume: il Nilo azzurro e l’Atbâra, i quali solo molto più avanti, presso Kartoum e Berber, confluiscono in un solo letto e diventano il Nilo propriamente detto, il fiume creatore di vita. È questo letto comune che verso la metà dell’estate si empie piano piano di tali masse d’acqua e di fango in esse disciolto, così che il fiume in tutta la sua ampiezza straripa, ciò che gli ha valso l’appellativo di “Esuberante”, e passano mesi fino a che, pure a poco a poco, rientri fra le sponde. Ma lo strato di fango, il residuo della sua esuberanza, forma, come sapevano anche le scuole sacerdotali, il terreno fecondo di Keme.
Si sarebbero stupiti e forse sdegnati contro chi avesse loro rivelato la verità, cioè che il Nilo non viene dal basso ma dall’alto… dall’alto, in fin dei conti, come la pioggia che in altri paesi meno strani svolge il ruolo di elemento fecondatore. Là, nei miseri paesi stranieri, si soleva dire che il Nilo era in cielo, intendendo con ciò la pioggia. E bisogna riconoscere che in questo linguaggio fiorito si cela un’idea sorprendentemente vicina alle nostre cognizioni scientifiche, l’idea di una connessione tra tutte le acque della terra. L’inondazione del Nilo dipende dall’abbondanza delle precipitazioni sugli altopiani dell’Abissinia; ma queste piogge derivano dalla collisione di nubi che si formano sul Mediterraneo e vengono sospinte dal vento in quelle regioni. Come la prosperità dell’Egitto dipende da un felice livello dell’idrometro del Nilo, così quella di Canaan, del paese di Kenana, del Retenu superiore (come si chiamava allora) o Palestina (come la scienza attuale definisce geograficamente la patria di Giuseppe e dei suoi padri) è condizionato dalle piogge che là, se tutto si svolge regolarmente, cadono due volte l’anno, le prime nel tardo autunno e le seconde, tardive, in primavera. Il paese infatti è povero di sorgenti e l’acqua dei fiumi che scorrono a valle poco giova. Tutto dipende perciò dalle piogge, specie le tardive, primaverili, che già in tempi antichissimi si era soliti raccogliere. Se tali piogge vengono a mancare e invece degli umidi venti occidentali finiscono per prevalere quelli di levante e di mezzogiorno, i venti del deserto, il raccolto va perduto, prendono piede siccità, sterilità e carestia; e non solo in quelle contrade. Se infatti non piove in Canaan, non vi sono piogge nemmeno sulle montagne dell’Etiopia, né torrenti selvaggi che precipitano irruenti, e i due confluenti, i precursori del Nutritore, non vengono sufficientemente alimentati ed esso stesso non può diventare, come dicevano i figli dell’Egitto, “grande” ed empire i canali che conducono l’acqua sui campi che si trovano più in alto: e anche al paese dove il Nilo non è in cielo ma sulla terra toccano cattivo raccolto e penuria; e questa è l’interdipendenza di tutte le acque del mondo.
Se si ha un’idea chiara, sia pure nelle sue linee generali, di questa interconnessione, non può destare meraviglia, per quanto in sé terribile, il fatto che la carestia scoppi contemporaneamente “in tutti i paesi” e non solo in quello del fango, ma anche in Siria, nel paese dei Filistei, in Canaan, perfino nei paesi del Mar Rosso e nello stesso tempo anche in Mesopotamia e Babilonia e che la carestia sia “grande in tutte le contrade”. Anzi, se a un male segue un male peggiore, a un anno di penuria, sterilità e siccità possono fare seguito altri, ripetendosi quasi per malvagio capriccio, e così la sequela delle sventure può estendersi per parecchi anni: se la calamità cresce fino ad assumere un carattere favoloso, quegli anni possono salire fino a sette, ma anche cinque sono già un affare serio.

GIUSEPPE PRENDE GUSTO ALLA VITA

Per cinque anni tutto era andato magnificamente: l’acqua, il vento, i raccolti, tanto che per riconoscenza il cinque venne elevato a sette; e lo meritava pienamente. Ma ora si voltava pagina, così come Faraone, maternamente preoccupato per il regno della Terra Nera, aveva presagito in sogno e Giuseppe aveva osato interpretare chiaramente: la piena del Nilo venne meno perché a Canaan erano venute meno le piogge invernali e soprattutto le primaverili, le tardive; venne meno una prima volta: e fu un lutto; venne meno una seconda: e fu un grido e un lamento; una terza, e pallide nocche si torsero verso il cielo… dopodiché poté venire meno altre volte ancora, ormai l’appellativo di aridità e di sette anni di lolla aveva la sua giustificazione.
Di fronte a un evento così straordinario della natura noi uomini ci comportiamo sempre allo stesso modo: in principio, abituati come siamo alla quotidiana normalità, ci inganniamo sul carattere dell’evento, non ne comprendiamo la finalità. Bonariamente lo crediamo un incidente ordinario e modesto e più tardi, quando a poco a poco ci accorgiamo che si tratta di una prova eccezionale, di una calamità di prim’ordine da cui non avremmo mai pensato di venire colpiti nel corso della nostra vita, ripensiamo un po’ stupiti a quella nostra cecità, a quel malinteso. E così fu per i figli dell’Egitto. Dovette passare molto tempo prima che comprendessero di trovarsi di fronte al fenomeno dei cosiddetti “sette anni di lolla”, accaduto bensì altre volte in tempi remoti e di cui si favoleggiava con raccapriccio nella letteratura, ma che mai si sarebbero sognati di vivere sulla propria pelle. Eppure lo stupore di fronte al fenomeno che era già venuto delineandosi era nel loro caso meno scusabile che non la nostra abituale miopia. Faraone aveva infatti sognato e Giuseppe interpretato. Il fatto che sette anni grassi si fossero secondo la predizione realmente avverati non era già quasi una prova che anche i sette anni magri sarebbero divenuti realtà? Ma a questo, durante gli anni dell’abbondanza, i figli dell’Egitto non avevano più pensato, come chi scaccia dalla mente il fatto che il diavolo faccia i suoi conti. Ora questi conti venivano presentati; e quando una prima, una seconda, e una terza volta la portata del Nutritore fu miseramente esigua, dovettero confessarselo; una pubblica conseguenza di questo riconoscimento fu un poderoso incremento della reputazione di cui godeva Giuseppe.
Se alla sua nomea aveva molto giovato l’avverarsi degli anni dell’abbondanza, quanto più doveva crescere la sua fama allorché fu ormai a tutti chiaro che erano incominciati gli anni magri, così che le misure da lui predisposte si rivelarono l’ispirazione di una suprema saggezza! Un ministro dell’agricoltura ha un compito difficile in tempi di lolla e di carestia, perché il popolo ottuso, irragionevole e ingiusto come è, sarà sempre incline ad attribuire la colpa di ciò che è una calamità della natura a colui che ha la suprema responsabilità del regno della Terra Nera. Ma ben diversa è la sua posizione se ha presagito il flagello; e più ancora se ha per tempo adottato misure magiche di difesa che sottraggano alla sciagura, se non la forza di causare molti sconvolgimenti, tuttavia il carattere di catastrofe: allora la sua fama sarà somma e ispirerà la massima riverenza.
Negli immigrati in paese straniero impulsi e qualità del popolo che li ospita si sviluppano e perfezionano, talora in modo quasi più forte ed esemplare che nei nativi. A Giuseppe, durante i venti anni in cui si era naturalizzato nel paese, lontano ed escluso dalla sua stirpe, l’idea squisitamente e tipicamente egizia del cauto provvedersi e difendersi si era trasfusa nella carne e nel sangue in modo che egli agiva bensì conseguentemente a essa, non però in modo inconsapevole; da quell’idea di fondo, a cui pure s’ispirava, manteneva sempre sufficiente distanza, tale da permettergli, modulandola personalmente, di tenere sempre conto, sorridendo, della popolarità che essa godeva e di farsene una regola per la sua condotta: una fusione di schiettezza e di spirito arguto, più attraente della sola schiettezza, la quale è senza distacco e senza sorriso.
Per quanto Giuseppe aveva seminato, cioè per il suo sistema di regolare l’abbondanza per mezzo di tributi, era venuto il tempo del raccolto, vale a dire il tempo della distribuzione e del commercio del grano, con introiti e proventi quali nessuno mai fino ad allora aveva procurato a nessun figlio di Rê, dai tempi del dio. Come sta scritto nel libro1 e si dice nel canto: “La carestia dominava su tutta la terra, ma in tutto l’Egitto c’era il pane”. Questo ovviamente non vuol dire che anche in Egitto non vi fosse carestia; come di fronte a una domanda così pressante si regolasse il prezzo del grano può, infatti, farsene un’idea chiunque delle leggi dell’economia abbia anche solo una lieve infarinatura. E questa idea lo faccia pure impallidire, ma nello stesso tempo rifletta che la carestia come prima l’abbondanza venne amministrata dallo stesso uomo cordiale e scaltro, che la carestia era nelle sue mani ed egli poteva farne tutto ciò che voleva e ne fece, da servitore fedele, il meglio per Faraone, e il meglio per coloro che non potevano affrontarla: la povera gente. Per questa ne fece una carestia gratuita.
Questo avvenne per mezzo di un sistema in cui andavano di pari passo sfruttamento della situazione di mercato e beneficenza, usura di Stato e sgravi fiscali, secondo modalità mai viste in precedenza, così che quella mescolanza di rigore e di mitezza faceva a tutti, anche ai più sottoposti alla pressione fiscale, l’impressione di qualcosa di divino, di favoloso; il divino infatti si comporta e si manifesta in questo modo ambiguo: non si sa se chiamarlo crudele o benevolo.
Più stravagante di così la situazione non si può immaginare. Per lo stato in cui versava l’agricoltura il sogno delle sette spighe aride offriva una similitudine talmente calzante, che non si poteva più parlare di similitudine ma di cruda realtà. Inaridite erano state le spighe del sogno per opera del vento orientale, cioè del Chamsin, un ardente vento di sud-est, e questo soffiò per tutta l’estate e la stagione del raccolto, chiamata shemu, da febbraio a giugno, quasi ininterrottamente; spesso come una bufera rovente che riempiva l’aria di fine polvere e copriva le piante di cenere, e così quel poco che era potuto crescere dopo il debole intervento del malnutrito Nutritore veniva carbonizzato dall’alito del deserto. Sette spighe? Si poteva dire letteralmente così: più non erano. In altre parole, spighe e raccolto vennero meno. Vi erano invece masse innumerevoli o, a essere più esatti, molto ben numerate e registrate, di grano, semente, cereali di ogni specie e precisamente nei magazzini e nei granai sotterranei del re, a sud e a nord lungo il fiume, in tutte le città e nei loro dintorni, per tutta la terra d’Egitto e soltanto nella terra d’Egitto; negli altri paesi, infatti, non si era provveduto in alcun modo e non si era costruita alcuna arca in previsione del Diluvio. Sì, in tutto l’Egitto, e soltanto in Egitto, vi era pane: nelle mani dello Stato, nelle mani di Giuseppe, il sovrintendente di tutto quello che il cielo dava; e ora divenne egli stesso come il cielo che dà e come il Nilo che nutre: aprì le porte dei suoi magazzini senza però spalancarle, bensì con cautela, e di quando in quando tornava a chiuderle. Apriva, dava pane e semente a quanti ne avevano bisogno, e tutti avevano bisogno, Egizi e stranieri che venivano da lontano per prendere grano nella terra di Faraone, la quale con più ragione che mai veniva ora chiamata il granaio, il granaio del mondo. Egli dava, cioè vendeva a coloro che avevano da pagare, a prezzi che non erano essi a stabilire ma lui, in rapporto all’inaudita congiuntura, e così copriva Faraone d’oro e d’argento, e tuttavia nello stesso tempo poteva ancora dare in altro senso: agli umili, a quelli a cui si potevano contare le costole, a essi faceva distribuire semente e pane, sia pur solo lo stretto necessario, ai piccoli contadini, agli abitanti nei più miseri vicoli delle città, affinché vivessero e non morissero.
Era una cosa divina, e al tempo stesso una lodevole ed esemplare condotta umana. Vi erano stati sempre buoni funzionari che nelle iscrizioni dei loro sepolcri con giustificata commozione ascrivevano a proprio merito aver nutrito in tempi di carestia i sudditi del re, senza preferenze né per grandi né per piccoli, di aver dato alle vedove, e di non aver poi, quando il Nilo era tornato a ingrossarsi, preteso gli “arretrati dall’agricoltore”, di non aver cioè esercitato pressioni per anticipi e imposte arretrate. Di tali iscrizioni il popolo si sovveniva vedendo l’amministrazione di Giuseppe. Ma su tale vasta scala, con una tale pienezza di poteri, con un tale divino esercizio del potere, si poteva ben dire che dai tempi di Set nessun funzionario aveva dato una prova così buona di sé. Il commercio del grano a cui attendevano diecimila scribi e sottoscribi si estendeva a tutto l’Egitto superiore e inferiore, ma tutti i fili passavano per Menfe nel palazzo ministeriale dell’Elargitore d’ombra e Unico tra gli Amici Unici; e non vi era decisione intorno a vendite, prestiti, elargizioni che egli non riservasse al proprio giudizio. Venivano al suo cospetto i ricchi e i latifondisti e domandavano disperatamente semente; e a questi egli vendeva in cambio del loro argento e oro, a condizione e con l’obbligo però di rinnovare il sistema d’irrigazione secondo i criteri più progrediti e di non lasciarlo andare in rovina per trascuranza e feudale arretratezza; e nel fare ciò mostrava tutta la sua fedeltà a Faraone, il Sommo, nelle cui Camere del Te...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sedici anni. Per l’edizione americana in un volume di Giuseppe e i suoi fratelli. di Thomas Mann
  4. GIUSEPPE IL NUTRITORE
  5. Preludio tra le gerarchie celesti
  6. Capitolo primo. L’altra fossa
  7. Capitolo secondo. La chiamata
  8. Capitolo terzo. La pergola cretese
  9. Capitolo quarto. Il tempo delle concessioni
  10. Capitolo quinto. Thamar
  11. Capitolo sesto. La sacra messinscena
  12. Capitolo settimo. Il Restituito
  13. Tavola delle sigle e delle abbreviazioni
  14. Storia del testo
  15. Note
  16. Copyright