Nella Milano degli anni ’50, si incontravano in strada moltissimi uomini con la sigaretta in bocca... non donne, però, perché queste ultime ancora non osavano esibire il loro vizio in pubblico, in quanto quelle che lo facevano venivano immediatamente bollate come donne di facili costumi. La “passione” per il fumo, unita a una buona dose di maleducazione, aveva una conseguenza ben visibile: i marciapiedi della città erano costellati di mozziconi, mucc in dialetto. Mozziconi che si trasformavano però in una risorsa per chi non poteva permettersi di comprare le sigarette dal tabaccaio: raccolte le cicche, buttata la carta, col tabacco residuo si fabbricavano pessime sigarette caserecce, persino arrotolandole in pezzi di fogli di giornale.
Amedeo Gariboldi, un cinquantenne basso e mingherlino che da decenni sbarcava il lunario con i saltuari introiti dei mestieri più disparati, con felice intuizione aveva visto nella raccolta delle cicche il modo per tentare una attività “imprenditoriale” che gli avrebbe consentito di uscire dal suo perenne stato di precarietà economica.
Il progetto prevedeva, come punto di partenza, una raccolta veloce e abbondante di mozziconi, ed ecco la prima invenzione dell’ingegnoso omarino: un bastone terminante con un acuminato puntale di ferro, in grado di infilzare più di una cicca per volta, con l’ulteriore vantaggio di non doversi spezzare la schiena ogni due minuti. Una bisaccia a tracolla fungeva da temporaneo deposito del bottino. La giornata lavorativa iniziava alle prime luci dell’alba, per anticipare l’arrivo dei netturbini che avrebbero spazzato via tutti i mozziconi, e terminava all’imbrunire, con una breve pausa per il pasto di mezzogiorno, durante la quale veniva depositata in cantina la prima metà del raccolto.
Dopo cena, il Gariboldi tornava in cantina dove, alla luce di una lampada appesa al soffitto, passava alla parte “industriale” dell’attività, assistito da moglie e figlio. La prima fase consisteva nello sbriciolare il tabacco, avendo cura di mescolarlo ben bene, perché la sua qualità era disomogenea, andando dal pessimo contenuto delle Alfa del Monopolio a quello pregiato delle ottime, ma poco numerose, americane. A seguire, il confezionamento: con il tabacco venivano riempite una per una le cartine per sigarette, sigillate poi con l’apposita macchinetta, ottenendo così un prodotto dall’aspetto più che accettabile. Infine, il colpo di genio della mente truffaldina del Gariboldi: le sigarette venivano inserite in pacchetti da venti, contraddistinti dall’esotica marca New York, con tanto di bandiera a stelle e strisce, opera di un amico tipografo. La “ditta” offriva così ai fumatori un prodotto “americano” a un prezzo inferiore a quello praticato dal contrabbando per le famose Chesterfield, Pall Mall o Lucky Strike. La voce si era sparsa per tutta Porta Venezia e zone limitrofe, e i clienti aumentavano, attirati dall’illusione di procurarsi a basso costo una marca USA... se poi la qualità lasciava a desiderare, pazienza! In breve il giro d’affari, con relativi introiti, era cresciuto enormemente, e l’improvvisato imprenditore aveva ingaggiato una squadra di disperati che, in cambio di poche lire, raccoglievano per conto suo i mozziconi sui marciapiedi di tutta la città.
Alle sei della mattina di venerdì 2 aprile 1953, il Gariboldi era al lavoro da oltre un’ora, e stava rastrellando piazzale Bacone, quando la sua attenzione fu attratta dalla figura di un uomo, vestito di nero, semisdraiato scompostamente su una panchina. Non che la cosa fosse così strana, perché barboni che dormivano all’aperto ce n’erano a iosa, ma l’Amedeo era un tipo curioso, per cui si avvicinò con cautela, facendo non una ma due sorprendenti scoperte. La prima fu che il tizio sulla panchina era un prete, come dimostravano la tonaca visibile sotto il soprabito e la tonsura che lasciava una chiazza sguarnita nella parte posteriore della capigliatura. La seconda, ancor più sconvolgente, che dal petto del sacerdote spuntava il manico di legno di un coltello, o di un pugnale, intorno al quale si allargava una vistosa macchia scura, sicuramente di sangue.
“E adesso che cosa faccio?” si chiese terrorizzato il Gariboldi. Di chiamare la polizia non se ne parlava proprio: la sua posizione di spacciatore di finte sigarette americane a base di “trinciato marciapiede”, come veniva pittorescamente definito il miscuglio ricavato dai mozziconi, gli consigliava di mantenersi a debita distanza dalle forze dell’ordine. Ma un rigurgito di senso civico (in fondo non era una cattiva persona...) lo portò a un onorevole compromesso. Estratto dalla tasca un taccuino unto e bisunto, strappò un foglietto, vi scrisse a matita poche righe che illustravano la sua scoperta e lo mise bene in vista sulla maniglia della saracinesca di un bar, che di lì a poco avrebbe aperto i battenti. In pace con la coscienza, proseguì nella sua attività mattutina, allontanandosi però immediatamente dalla zona della macabra scoperta.
Al commissariato Porta Venezia erano in servizio solo due agenti, e fu a Tindaro Nicolosi che Giuseppe Colaccioni, proprietario di un bar in piazzale Bacone, comunicò telefonicamente la notizia del ritrovamento, sulla panchina di fronte al suo locale, del cadavere di un prete, con una lama conficcata nel torace. Considerata l’importanza del reato, e la categoria di appartenenza della vittima, l’agente si consultò con il collega e i due decisero di avvisare immediatamente un superiore. Scusandosi per l’ora, il Nicolosi chiamò l’ispettore Giovine, terza carica del commissariato dopo il commissario capo Mario Arrigoni e il vice Salvatore Mastrantonio, e gli riferì il fatto, ricevendo le istruzioni del caso: avvisare la Scientifica e l’ufficio del medico legale, e precipitarsi immediatamente sul luogo del delitto, ad evitare manomissioni da parte di qualche incauto passante.
Alfredo Giovine si diede una sciacquata al viso e, senza nemmeno farsi la barba, dopo un veloce saluto alla moglie, inevitabilmente destata dallo squillo del telefono, a metà strada fra il sonno e la veglia lasciò il pur relativo tepore della casa e scese in strada. Il freddo della notte si faceva ancora sentire, ma per fortuna almeno aveva smesso di piovere. L’ispettore abitava in via Donatello, a un tiro di schioppo da piazzale Bacone, dove arrivò in un baleno, scorgendo subito la divisa del Nicolosi, che diligentemente piantonava la vittima, e che ancora si scusò per l’ora impossibile della chiamata.
«Nicolosi, questo è il nostro mestiere e purtroppo i reati non aspettano che suoni la sveglia. Ha fatto benissimo a telefonarmi, prima si interviene meglio è.» Evitò di chiedere all’agente come mai si fosse rivolto proprio a lui, perché lo sapeva benissimo: il gran capo non andava disturbato così presto, mentre con il vicecommissario Mastrantonio... se possibile... nessuno amava avere a che fare, a causa dei modi bruschi con cui trattava i sottoposti. Dopo una rapida occhiata al defunto, più che sufficiente a rendersi conto della situazione, continuò: «Mentre lei aspetta l’arrivo dei colleghi della Scientifica e del medico legale, vado a fare una chiacchierata con il proprietario del bar».
Ciò detto, si diresse immediatamente verso la vetrina illuminata del locale. Al suo ingresso fu accolto da un omaccione pelato e rubizzo sulla cinquantina, il cui naso paonazzo era la visibile testimonianza della sua predilezione per i prodotti a più alto tasso alcolico fra quelli offerti alla clientela.
«Buongiorno, sono l’ispettore Giovine del commissariato Porta Venezia. Prima di tutto, grazie per averci contattato tempestivamente. Conosce per caso il sacerdote che è stato ucciso?»
«Ci mancherebbe non lo conoscessi! È don Luciano Fontevivo, detto “il prete bello”, della parrocchia di San Sigismondo Elemosiniere, vicino a viale Abruzzi. Qui lo si vede spesso, arriva a piedi o in moto, un Galletto bianco nuovo di zecca, e va alle Cucine Economiche, dove porta conforto e aiuti materiali a dei poveracci che vivono nella miseria più nera: anch’io, nel mio piccolo, ogni tanto gli allungo un bicchiere di vino o un caffè» concluse scuotendo il capoccione.
“Be’, almeno si sa chi è la vittima e dove lavora, senza nemmeno controllare i documenti...” pensò Giovine, che continuò con le domande:
«So che non ha scoperto lei il cadavere, ma vi è stato indirizzato da un biglietto trovato sulla maniglia della saracinesca. Ha idea di chi potrebbe averlo lasciato?»
«Mah, non saprei, già ho fatto fatica a leggerlo, tanto era scritto da cani. Comunque, forse potrei provarmi a indovinare. Se mettiamo insieme la scrittura da analfabeta e l’orario, potrebbe essere stato il Catamucc, che per motivi suoi ha preferito non esporsi di persona.»
«Scusi, mi può tradurre? Anche se ho sposato una milanese, sono sempre uno venuto dal Sud...»
«Vuol dire “raccoglimozziconi”, è il soprannome di un certo Amedeo che passa la giornata appunto a raccattare cicche, e di solito passa di qui proprio verso le sei. Lascio a lei immaginare cosa fa di tutto questo tabacco e perché abbia evitato di mettersi direttamente in contatto con voi...»
«Ho capito, ho capito... un Monopolio dei Tabacchi clandestino» commentò sorridendo l’ispettore. «Sa dove possiamo rintracciarlo?»
«Mi pare abiti in via Paolo Frisi, non le so dire a che numero, ma se va da quelle parti e chiede dove sta il Catamucc anche i sassi le sapranno indicare il portone.»
«Grazie, per adesso non ho altro da chiederle.» E, conoscendo le abitudini di certi ambienti, si premurò di rassicurare il barista: «Stia tranquillo, non diremo al signor Amedeo che è stato lei a metterci sulle sue tracce».
Bevuto un caffè gentilmente offerto dal Colaccioni, l’ispettore tornò alla panchina del delitto, intorno alla quale già si muovevano gli uomini della Scientifica e il medico legale, il dottor Pascoli, uno dei sostituti del direttore, il dottor Mariotto.
Il cadavere non era ancora stato spostato, il prete era nella stessa posizione in cui l’aveva trovato l’agente Nicolosi. Indossava il soprabito sopra la tonaca, e in terra c’era un basco nero, il copricapo dei sacerdoti fuori parrocchia, mentre “in casa” veniva preferito il tricorno, un copricapo duro, solitamente quadrato, con tre rialzi e una piccola nappa in cima: nero per i semplici sacerdoti, rosso per i cardinali e violetto per i vescovi.
Non si vedeva invece nessun Galletto, evidentemente il prete era arrivato in piazzale Bacone a piedi. Giovine, pur rendendosi conto del fatto che i controlli erano appena iniziati, interpellò comunque sia il medico sia il caposquadra della Scientifica. Il giovane dottor Pascoli se la cavò con poche parole:
«Una volta tanto, non ci vuole una grande perspicacia per individuare la causa della morte, che risale sicuramente a poco fa, ma saremo più precisi dopo l’autopsia. Vi faremo sapere al più presto, ma considerando il fatto che fra un paio di giorni è Pasqua, temo che dovrete aspettare come minimo fino a martedì prossimo.»
Ancor più sintetico fu il capo della Scientifica, che si limitò a riferire come, dalla forma del manico in legno lavorato, l’arma del delitto sembrasse più un pugnale che un coltello. In ogni caso sarebbe stata estratta ed esaminata con cura prima dell’autopsia. In una tasca interna del soprabito fu trovato un portafogli contenente i documenti e un migliaio di lire, oltre a un’agendina che fu subito consegnata a Giovine. Il quale notò anche che al polso del sacerdote era ben visibile un prezioso orologio d’oro di marca.
Rendendosi conto che rimanere non sarebbe servito a nulla, l’ispettore, lasciato il Nicolosi a presidiare il luogo del delitto, decise di tornare un attimo a casa per darsi una ripulita prima di raggiungere il commissariato.
Erano da poco passate le otto quando Giovine entrò al Porta Venezia, dove si fiondò immediatamente nell’ufficio del commissario capo Arrigoni, impegnato in una delle solite stucchevoli discussioni con il vice Mastrantonio. Questi, nonostante il recente matrimonio avesse ammorbidito molti spigoli del suo carattere, non sempre ce la faceva a tenere a bada il suo spirito polemico.
L’oggetto del contendere era un ventilatore a pala da soffitto, ordinato dal commissario a un elettricista di fiducia, che stava prendendo le misure prima dell’installazione.
«Commissario, lei ha letto troppi polizieschi americani... Chi si crede di essere, Lemmy Caution o Philip Marlowe?» stava dicendo Mastrantonio, alludendo ai famosi protagonisti dei romanzi di Peter Cheyney e Raymond Chandler. I quali, come tutti gli investigatori di racconti e film americani, erano soliti difendersi dalla calura con le pale fissate al soffitto. «Si accontenti di un normale ventilatore da terra!»
«Caro vice» rispose pacatamente Arrigoni, «in primo luogo, sappia che questo aggeggio lo pago di tasca mia, dunque non costerà una lira allo Stato: le farò provare la differenza fra i due sistemi e si accorgerà che la mia è una scelta esclusivamente pratica. In quanto alle letture, come dovrebbe sapere, contrariamente a lei non sono un amante dei polizieschi, con l’eccezione di qualche inchiesta del commissario Maigret, che però non mi risulta utilizzasse questo affare per rinfrescarsi.»
«Scusate se interrompo una così dotta disquisizione su ventilatori e detective» si intromise Giovine, «ma temo che dovremo cimentarci in un’impresa molto meno accademica dopo quanto sto per riferire. Questa mattina all’alba, convocato dall’agente Nicolosi, mi sono recato in piazzale Bacone dove ho trovato, abbandonato su una panchina, il cadavere di un prete con un pugnale conficcato nel petto. Il defunto, trentacinquenne, si chiamava Luciano Fontevivo, sacerdote presso la parrocchia di San Sigismondo Elemosiniere.»
«Cavoli, ha trovato un prete morto ammazzato alle sei di mattina! Perché non mi ha telefonato?» disse Arrigoni.
«Mi scusi, ma non mi è sembrato necessario, il medico legale e la Scientifica sono ancora al lavoro. Per il momento, posso solo dire che il portafogli della vittima, contenente un migliaio di lire e i documenti, era al suo posto in una tasca interna. Così come l’orologio d’oro di marca, ben saldo al polso della vittima. Il che, come prima conclusione, porterebbe a escludere una rapina, e questo è già qualcosa», e continuò esponendo nei dettagli quanto aveva visto e sentito in piazzale Bacone. Al suo superiore parlò anche dell’agendina del sacerdote, sulla quale erano riportati molti numeri di telefono, purtroppo accanto a sigle per la maggior parte incomprensibili.
«Capisco... Sono senza parole, nella mia lunga carriera non mi sono mai imbattuto nell’omicidio di un prete... Che cosa può mai aver spinto qualcuno a ucciderlo? Diamine, stiamo parlando di un sacerdote, uno che dice messa, confessa e dà la comunione, che ha battezzato chissà quanti neonati... Non riesco a capacitarmi che sia accaduto un fatto del genere, un sacerdote è l’ultima persona che immaginerei vittima di un delitto. E per una incredibile coincidenza, quasi un perverso gioco del destino, questo omicidio viene commesso proprio due giorni prima di Pasqua! Oltretutto, non poteva capitarci periodo peggiore per iniziare un’indagine, così a ridosso delle festività pasquali certamente tutti i preti della parrocchia saranno occupatissimi. E sono proprio loro i primi che dovremmo interrogare, per cominciare a inquadrare la figura del defunto.»
«Non vorrei aggiungere difficoltà a difficoltà, ma l’indagine riguarda l’assassinio di un uomo appartenente a una categoria da trattare, per definizione, con le molle» completò l’analisi Giovine. «Oltre alla religione, qui entra in gioco anche la politica: mi riferisco agli stretti legami del clero con la Democrazia cristiana, il partito che governa il Paese.»
«E chi se ne frega di queste me...