All’aeroporto di Donora c’era Lauretta che era venuta a prenderla col fuoristrada del marito perché voleva parlarle prima che incontrasse lo zio.
Lauretta non abitava alla Villa Grande. Dopo la morte della nonna Ada aveva espresso il desiderio di ritornarci a vivere con il marito e i due bambini. Per non lasciare solo lo zio Tan, diceva. Giacomo però si era rifiutato di andare a convivere col vecchio dottore e con quella che chiamava “la sua servitù”. Lauretta d’altronde possedeva, ereditata dalla madre Ines, una delle tre villette Liberty in centro città – le “Ville Piccole” – comprate dal nonno Gaddo prima di morire come dote per le tre figlie bambine. Nelle altre due abitavano con le rispettive famiglie le zie Sancia e Consuelo, nate e cresciute nella Villa Grande, che anche loro avevano lasciato dopo il matrimonio, però senza sentire mai il desiderio di tornarci. Ricordi tristi di una infanzia e prima giovinezza troppo sacrificate dalla severità della madre, dicevano. E poi, tutte quelle scale!
Nella grande casa adesso vivevano solo il dottor Tancredi, Armellina, le domestiche Vittoria e Aurelia, e il cinquantenne Costantino, che lavorava per i Bertrand Ferrell dai tempi di donna Ada con le funzioni di custode, autista, giardiniere, addetto alla caldaia del riscaldamento e alle molte piccole riparazioni ed era perciò chiamato “il tuttofare”. Il terzo piano era chiuso e nessuno ci metteva piede da anni e anni.
Però Lauretta andava alla villa tutti i giorni, a “sorvegliare e dirigere”, secondo le sue parole. («Sorvegliare e punire» commentava ironica Ada citando Foucault.) In realtà ad affermare davanti ad Armellina che era lei, la nipote di donna Ada, la vera padrona di casa. Fra le due vigeva una pace armata che ogni tanto sfociava in scaramucce per le cose più stupide e insignificanti. Lo zio Tancredi rideva, cercava di mettere pace, ma non prendeva mai le parti della nipote contro la governante.
«Mi hai fatto venire un accidente con quel telegramma!» protestò Ada mentre nell’atrio dell’aeroporto abbracciava la cugina.
«E figurati io, che spavento mi sono presa quando ho visto che la mano gli tremava tanto da far cadere la tazzina del caffè, che gli si è storta la bocca e ha cominciato a farfugliare parole incomprensibili...»
«Ma ieri al telefono parlava bene, chiaramente, come al solito.»
«Perché si è ripreso dopo poche ore, per fortuna. È stato un ictus leggero, un TIA, lo ha chiamato Crespi. Io non volevo far venir lui dall’ambulatorio. Volevo chiamare l’ambulanza, far portare subito lo zio all’ospedale, ma Armellina si è opposta come una furia. Con che diritto, dico io? Una domestica! Cosa crede, che l’anzianità di servizio l’autorizzi a fare e disfare come le piace? Ci siamo quasi prese per i capelli. Dovevi sentirla! “Passerete sul mio cadavere” sbraitava. Non capisco perché lo zio continui a imporci la presenza di quella vecchia megera. Perché non l’abbia costretta a togliere le tende. Sono secoli che quella donna ha raggiunto l’età della pensione.»
Ada sospirò. «Lo sai che Armellina non saprebbe dove andare. Noi siamo l’unica famiglia che abbia mai conosciuto. Dove vuoi che ritorni? Fra i trovatelli dell’Ospedale degli Innocenti?»
«Non è un buon motivo perché spadroneggi e consideri zio Tan come una sua proprietà privata.»
«Ma dài, Lauretta! Armellina non fa altro che eseguire gli ordini dello zio. L’abbiamo firmato tutti quel foglio dove lui dice che in ospedale non dobbiamo portarlo neppure per salvargli la vita.»
«Ma è assurdo! Se fino a qualche anno fa ci andava tutti i giorni in ospedale...»
«Come medico, non come paziente.»
«E allora? Più invecchia e più dà i numeri.»
«Lauretta, quel foglio zio Tan lo aveva fatto firmare anche a nonna Ada subito dopo che è morto nonno Gaddo. Ed era un giovane medico appena laureato.»
«A ogni modo è una pazzia. E sono io che devo pensare sempre a tutto, tu non ci sei mai quando c’è bisogno.»
«Mi dispiace. Ma lui ha diritto di fare come crede.»
«Parli come il dottor Crespi. “Se ne assume lei la responsabilità?” gli ho chiesto. Mi ha risposto che lo zio non è un minorenne e che è responsabile di se stesso.»
Era una storia vecchia. Fin da quando erano piccole le due cugine sapevano di quella “stravaganza” dello zio. «Ostinato come un mulo» diceva donna Ada. «Deve avere una pessima opinione dei colleghi. E noi allora perché dovremmo fidarci?»
Infatti quando in famiglia qualcuno stava davvero male il dottore lo faceva ricoverare senza tanti complimenti. Lui invece si curava in casa, da solo.
Sul perché, Armellina aveva al solito una sua teoria, anzi due: «Quella volta dell’incidente nell’Arno anche lui doveva affogare, ma la morte non l’ha voluto. Così adesso pensa di essere immortale. O forse crede che quando arriverà il suo momento, il suo destino si compirà, ospedale o non ospedale».
Sancia invece, la maggiore delle zie, sosteneva che i tre anni passati in sanatorio durante la Grande Guerra avevano lasciato nel fratello dei ricordi così traumatici da fargli considerare l’ipotesi di un ricovero come un’esperienza insopportabile.
Da quando nel 1946 era tornato a Donora Tancredi Bertrand non aveva più avuto problemi di salute né incidenti, e il suo rifiuto era stato per molto tempo solo teorico. Anche perché, come aveva osservato Lauretta, in ospedale ci passava tutto il giorno, tutti i giorni, tranne che nel periodo delle vacanze. E queste le trascorreva in Toscana, ospite del suo carissimo amico Ludovico Colonna che era medico condotto del paese. Quando l’amico era morto e lui, già più che sessantenne, aveva cominciato ad accusare qualche piccolo acciacco, aveva scelto come suo medico personale uno dei giovani specializzandi che frequentavano il suo reparto.
«Un ostetrico! Cosa volete che ne capisca un ostetrico della sua lombaggine?» protestava donna Ada.
Fatto sta che il dottor Crespi era l’unico autorizzato a misurare la pressione del suo maestro, a tastargli la pancia, guardargli la lingua, se necessario a prelevargli il sangue per le analisi. L’unico che poteva “mettergli le mani addosso”, per dirla col dottor Tancredi. E anche lui aveva firmato il famoso foglio. Col passare del tempo tra i due era nata una grande amicizia e il più anziano aveva fatto da padrino di battesimo al primogenito del più giovane.
Ormai anche il dottor Crespi aveva passato da un pezzo la cinquantina, ma era ancora pieno di energia, gli piacevano le discussioni, le battute ironiche, i paradossi. Ada lo trovava molto simpatico e apprezzava il fatto che rispettasse le stravaganze del vecchio.
Quando lo zio Tan – già in pensione dall’ospedale – alla fine degli anni Sessanta aveva abbandonato anche la professione privata, che esercitava in tre locali al pianterreno della Villa Grande, aveva ceduto l’ambulatorio al medico più giovane. Perciò quel pomeriggio dell’ictus i soccorsi erano stati immediati. Se di soccorsi si poteva parlare. Lauretta, in preda a una crisi isterica, era stata mandata nella sua vecchia stanza al primo piano. E si era attaccata al telefono a dettare il telegramma che sappiamo per Ada. Con l’aiuto di Armellina l’ammalato era stato spogliato e messo a letto. Crespi, dopo avergli misurato la pressione, gli si era seduto a fianco tenendogli il polso. Visto che il battito cardiaco sembrava tornato normale, dopo un po’ si era appisolato. Si era svegliato all’improvviso e nella penombra della stanza aveva visto una sagoma in pigiama scivolare verso la porta del bagno.
«Capisci? Erano passate meno di due ore e già si era ripreso. Il dottore dice che l’attacco è stato leggerissimo. Adesso lo zio si muove e parla come se non fosse successo niente.»
Però... però quel TIA era comunque un segnale. Non era improbabile che entro l’anno si presentasse un secondo attacco, più grave, aveva detto Crespi.
«E allora come faremo? Io questa responsabilità non la voglio, Ada. Devi convincerlo a stracciarlo, quel dannato foglio. A te dà più retta che a me. Ah, poi c’è un’altra cosa che devo dirti, da parte del dottore, prima che tu incontri lo zio. È meglio che quest’anno non vada in campagna. Meglio che eviti il viaggio, il cambio di casa e di abitudini, quelle strade scoscese per scendere al fiume... Se rimane a Donora lo teniamo più facilmente sotto controllo. Devi dirgli che hai da fare qui in città, che non puoi accompagnarlo, che lo preghi di non partire. Raccontagli quello che ti pare, inventati qualcosa. Tu sai come prenderlo. E sei la sua cocca, tu. A me non dà mai retta.»
Non fu difficile per Ada convincere lo zio a restare in città. Dal canto suo aveva deciso di annullare tutti gli impegni di Bologna e di trascorrere l’intero mese di luglio a Donora per stargli vicino. Dal punto di vista fisico l’anziano dottore si era ripreso completamente, ma lei che lo conosceva bene si era subito accorta che l’ictus, per quanto leggero, non era stato senza conseguenze. C’erano nell’aspetto e nel comportamento dello zio una nuova fragilità, un’incertezza nelle decisioni, il bisogno continuo del parere e dell’approvazione altrui; i movimenti erano più lenti, come timorosi. Prima nessuno avrebbe creduto di trovarsi di fronte a un ultraottantenne. Adesso Tancredi Bertrand dimostrava tutta la sua età.
Nell’abbracciarlo Ada si era commossa alla vista di quelle mani lunghe e pallide, segnate da qualche macchia bruna, di quel collo gracile sotto i capelli bianchi tagliati di fresco, con la sfumatura alta come piaceva a lui. Le fu inevitabile il paragone con Dieter Horlander, con lo sfacelo del corpo decrepito che il grecista tedesco si portava in giro ed esibiva in pubblico con tanta disinvoltura. La decadenza fisica dello zio però non le ispirava alcun disgusto, semmai una accresciuta tenerezza, come un istinto materno di protezione. Per tutta la vita lo aveva ammirato, rispettato, temuto anche. Obbedito – le poche volte che lui si era imposto – per convinzione, non per costrizione. Gli si era sempre affidata con la certezza che lo zio sapesse cosa era meglio per lei. Adesso sentiva che le posizioni si erano ribaltate, e questo le procurava un turbamento profondo, come se le mancasse la terra sotto i piedi. Ne parlò col dottor Crespi.
«Non esagerare, Adíta. Ci siamo presi tutti un bello spavento, e tuo zio per primo. Questa debolezza che ti preoccupa tanto è una logica conseguenza dello shock. Vedrai che in poche settimane ritorna quello di prima.»
E come a confermare quelle parole, quando Lauretta riprese l’argomento della “carta anti-ospedale” e della necessità di distruggerla, lo zio Tancredi reagì con l’impeto e il vigore di un tempo: «Neanche per sogno! Anzi, ne faremo una versione aggiornata, più vincolante per voi, e la firmerete di nuovo, tutti, con la nuova data, in modo che nessuno pensi che abbia cambiato idea o che si tratti di un’antica decisione a cui non do più molta importanza».
Volle che venissero a firmarla anche le sorelle e tutti i nipoti e pronipoti che si trovavano in città.
Era qualche anno che Ada non incontrava le zie Sancia e Consuelo, due anziane signore ormai, molto simili nell’aspetto e nei modi alla nonna Ada. I cugini e i loro figli invece li vedeva tutte le estati, quando accompagnava lo zio in campagna e loro venivano a trovarlo. «Per conservare bene in caldo l’eredità» commentava maligna Armellina.
Già da qualche tempo lo zio Tancredi dopo pranzo aveva l’abitudine di stendersi sul letto per un paio d’ore e quando erano in campagna Ada andava a fargli compagnia; gli leggeva qualcosa, parlavano del più e del meno, di libri e film, delle persone conosciute e dei fatti della politica. Lei nei primi anni di Bologna gli raccontava delle assemblee; delle nuove amicizie; della rock band con la quale suonava il sabato sera e della sua nuova chitarra elettrica, una preziosa Fender Telecaster che costava un patrimonio, tanto che l’aveva dovuta pagare a rate; della nascita di una nuova facoltà sperimentale dove si studiavano musica e spettacolo chiamata Dams. Gli raccontava delle beghe universitarie, dei litigi tra i baroni, dei piccoli teatri sperimentali negli scantinati dove qualche volta aiutava a mettere in scena un Euripide “rivisitato”. Del collettivo femminista di cui faceva parte e qualche tempo dopo degli indiani metropolitani, delle radio libere.
E quando, più tardi, alcuni dei coetanei insieme ai quali lei aveva combattuto le lotte dei primi anni Settanta e molti dei suoi studenti avevano cominciato a teorizzare la violenza, e qualcuno a praticare la lotta armata, il dottore aveva condiviso lo sgomento di Ada, che razionalmente li condannava ma in fondo al cuore ne approvava l’esasperata ribellione. Che alternativa c’era, se si volevano davvero eliminare le ingiustizie dal mondo? Allende, che in Cile aveva vinto le elezioni pacificamente e democraticamente grazie all’unità fra le sinistre e i moderati, era stato brutalmente eliminato e i governanti democratici andavano a rendere omaggio a Pinochet. Si poteva essere così ingenui, nonostante gli articoli pubblicati da Berlinguer su “Rinascita”, da sperare che in Italia funzionasse il compromesso storico?
«Almeno voi donne avete ottenuto il divorzio e finalmente anche l’aborto» le aveva detto l’anno prima il dottore.
«Sì, ma quando i miei studenti hanno contestato l’assemblea di Comunione e Liberazione l’università è stata invasa dai carabinieri, hanno sparato e ucciso uno dei nostri ragazzi e il ministro degli Interni ha mandato i blindati a occupare le strade della città. I carri armati come a Praga, zio!»
Piangeva dalla rabbia Ada, e lo zio le carezzava una mano senza criticarla, come faceva invece Giuliano che la accusava di flirtare con gli estremisti e le consigliava cautela anche nel parlare, se non voleva mettersi nei guai.
Ma zio e nipote chiacchieravano anche di stupidaggini, di pettegolezzi e aneddoti relativi alle conoscenze comuni, di Leo Campisi, l’antico “Patroclo” di Ada, che dopo essersi laureato in Storia e avere insegnato qualche anno come supplente al liceo scientifico, aveva vinto un concorso ed era diventato capo archivista del Comune di Donora.
Commentavano gli articoli che Leo scriveva per il quotidiano locale, “L’Indipendente”, ogni volta che si imbatteva in un documento curioso relativo alla “storia minore” della città. Aveva il dono di raccontare con leggerezza e con garbata ironia vicende antiche che potevano altrimenti risultare noiose, ammuffite, puro sfoggio di erudizione. Lo zio Tan ritagliava i suoi pezzi e li conservava per Ada, la quale da parte sua non aveva mai perso i contatti con l’innamorato di un tempo. Lo incontrava di tanto in tanto, andavano a mangiare insieme, gli aveva fatto conoscere Giuliano. Leo, che godeva in città fama di dongiovanni, le presentava le giovani donne che frequentava al momento. Scherzavano sul fatto che nessuna di quelle relazioni fosse mai durata più di due anni. L’ultima fiamma in ordine di tempo era una giovane studiosa di Storia dell’arte mandata dal ministero per inventariare tutti i dipinti quattro e cinquecenteschi delle chiese di Ordalè e della regione, e che per questo motivo la primavera precedente aveva preso una camera in affitto nella casa ormai troppo grande dei genitori di Leo. Il quale, andando a trovare i suoi al paese come faceva ogni ...