Il fantasma e il desiderio
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Il fantasma e il desiderio

  1. 120 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il fantasma e il desiderio

Informazioni su questo libro

«Dimmi che pensi degli spiriti notturni, dato che teologi e filosofi credono all'esistenza di simili creature» aveva chiesto il politico Hugo Boxel a Baruch Spinoza nella tormentata Olanda del Seicento. «Non ci credo» aveva ribattuto il filosofo «e mi fa sorridere che qualcuno teorizzi che i fantasmi sono tutti maschi perché nessuno li ha mai visti partorire. Per risolvere l'enigma non basterebbe dare un'occhiata… ai loro genitali?» In questo libro per tanti versi sorprendente Giulio Giorello incastra, tra un brevissimo Prologo e un Epilogo un po' più articolato, cinque brillanti racconti, alcuni ambientati nelle brume del Nord e altri sotto il sole del Mediterraneo. Chi legge fa così la conoscenza di spettri, larve, anime disincarnate e messaggeri dall'Inferno, talora subdoli e perversi, talaltra burloni e ridicoli, ma sempre un po' maligni, perché la loro malizia consiste appunto nel fatto che non esistono eppure continuano a essere percepiti da noi. Sono diafane creature a un tempo libertine e libertarie, insofferenti di ogni placido buon senso e di qualsiasi «correttezza politica». Ma è così che ci inducono a persistere nel desiderare di desiderare. Dunque, i fantasmi sono sogni fatti della stoffa di cui sono intessuti i nostri desideri.

Eppure tali entità immateriali non vanno prese solo come feticci della superstizione o proiezioni del nostro inconscio, avverte l'autore, perché, pur non essendo reali, ci possono sempre ricordare che ci sono più cose su questa Terra di quante possa concepirne qualsiasi filosofia. Magari aveva ragione quel personaggio dei fumetti che, a caccia di fantasmi, leggeva un manuale dal titolo Spiriti & alcol, perché tali spettrali creature frequentano soprattutto regioni in cui mescite e taverne abbondano; ma anche questa è, in ultima analisi, Fenomenologia dello Spirito!

Con buona pace di tutto il razionalismo filosofico, qualche spiritello importuno compare improvvisamente all'orizzonte, non foss'altro che per ricordarci che possono avere natura spettrale anche i nostri ideali più profondi, quelli che dovrebbero modellare una società aperta e democratica. Tra nuovi e vecchi totalitarismi, fanatismi e fondamentalismi, rinate forme di dispotismo, invadenza burocratica e tecnologica rischiamo infatti di scoprire che sono fantasmi anche giustizia e libertà. Il rimedio allora è uno solo: fare come Spinoza, non arrendersi mai.

Giulio Giorello, titolare della cattedra di Filosofia della Scienza all'Università degli Studi di Milano, è nato in questa città il 14 maggio 1945. Si è laureato in filosofia nel 1968 e in matematica nel 1971. Ha insegnato in facoltà di Ingegneria (Pavia), Lettere e filosofia (Milano), Scienze (Catania), nonché al Politecnico di Milano e allo IUAV di Venezia. Collabora con il «Corriere della Sera» e dirige presso l'editore Raffaello Cortina di Milano la collana Scienze e idee. Il punto centrale delle sue riflessioni è l'intreccio tra crescita della scienza e libertà intellettuale e civile; in questa prospettiva ha curato insieme con Marco Mondadori un'edizione italiana del saggio Sulla libertà di John Stuart Mill (il Saggiatore, 1981). Tra i suoi ultimi libri: Lussuria (il Mulino, 2010), Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo (Longanesi, 2010), La filosofia di Topolino (con Ilaria Cozzaglio, Guanda, 2013), Noi che abbiamo l'animo libero. Quando Amleto incontra Cleopatra (con Edoardo Boncinelli, Longanesi, 2014) e, infine, Libertà (Bollati Boringhieri, 2015).

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804658344
V

Fuoco nella pianura

Il problema era proprio questo: non c’era nessun fuoco. Il grande affresco che sembrava tagliare in due il salone dell’antica dimora di campagna – ufficialmente intitolato Fuoco nella pianura con una scritta in caratteri gotici incisa nell’adiacente targhetta – si limitava a rappresentare una figura femminile debitamente spogliata, accovacciata tra ciuffi d’erba e piccoli cespugli, non lontano da qualcosa che era presumibilmente il tronco di un grande albero pressoché privo di foglie. La scena era abbastanza sfocata e, grazie alle sfumature che preludono al crepuscolo verso oriente, il cielo dipinto pareva ticchettato da tante piccole stelle quasi disposte a corona di Venere, il pianeta della sera. A occidente era più netto il confine tra cielo e terra, interrotto da una figura dalle fattezze indistinte, che pareva sbucare dall’orizzonte, simile a una forma umana ricoperta da un saio provvisto di cappuccio, che impediva di distinguere le sembianze di quello che non era altro che uno sconosciuto osservatore della scena centrale. Con uno sguardo più attento, un qualunque spettatore avrebbe probabilmente concluso che il nuovo venuto si stava dirigendo verso la femmina seduta presso la grande pianta, probabilmente interessato a quella che costituiva l’indubbia protagonista della scena; la quale, come assorta, continuava a fissare davanti a sé, come se volesse guardare lo spettatore esterno – che, a sua volta, la guardava – e si sforzasse, quasi con ostinazione, a non tener conto dell’improvviso intruso entro il dipinto.
***
A Roberta, la protagonista della nostra storia, sfuggiva il senso di quella composizione. Poteva trattarsi di un’allegoria, visto che, come scena realistica, sembrava piuttosto bizzarra: che ci faceva mai tale nuda signora sospesa, per così dire, tra la notte incipiente e il giorno che declinava, in quella campagna solitaria? Per non dire dell’ignoto o forse importuno visitatore, avvolto in una veste che lo rendeva ancor più incongruo o misterioso; e anche la natura del suo interesse era tutt’altro che chiara. D’accordo, un’allegoria. Il che era comprensibile, perché il dipinto veniva spacciato per un’opera del primo Ottocento, benché certi particolari facessero pensare a interventi e rimaneggiamenti più recenti. Comunque, si trattava di un genere piuttosto diffuso nei palazzi signorili della regione – tutta una pletora di castelletti, magioni feudali, residenze di caccia eccetera disseminati sulle colline che dividevano da oriente a occidente un territorio cinto da due mari, talvolta entrambi visibili dalle torri più alte costruite in un Medioevo leggendario, che esisteva soprattutto nella testa di architetti e committenti vissuti molto tempo dopo e, nell’età dei lumi a petrolio, ancora sensibili al fascino dei lontani secoli bui. Ma allegoria di che? Roberta avrebbe dovuto saperlo, perché la sua specialità era l’iconologia; era considerata una delle migliori docenti dell’università della città più vicina alla regione di cui stiamo parlando.
A scanso di equivoci, diciamo subito che etichettarla come un topo di biblioteca, legnosa ricercatrice dedita a scartabellare pesanti tomi calati da polverosi scaffali o a esaminare puntigliosamente emblemi delle più diverse fogge, non le avrebbe affatto reso giustizia. Rientrava a pieno titolo, piuttosto, in quella eletta schiera di docenti appartenenti al gentil sesso che sapevano coniugare intelligenza scientifica e rilevanti doti fisiche. Detto in maniera più schietta, che la lettrice comprensiva ci perdonerà, era quella che abitualmente si chiama una bella donna, con le curve giuste al punto giusto. L’aver superato da un cospicuo numero di anni quello che padre Dante aveva chiamato «il mezzo del cammin di nostra vita» non toglieva nulla al suo vigore intellettuale e al suo fascino fisico. A quell’età il poeta fiorentino e, se è per quello, anche Leopold Bloom, il protagonista dell’Ulisse di Joyce, erano stati entrambi sfiorati dalla sensazione di avere imboccato la fase discendente della parabola della vita: Roberta no, e la circostanza che non riuscisse a comprendere cosa l’affresco volesse davvero mai significare faceva sì che la sua aria imbronciata formasse uno strano contrasto con la sua esuberanza abituale. Per saperne di più, sarà bene raccontare la storia dall’inizio.
***
Roberta aveva aperto senza troppa curiosità la lettera che le era arrivata dal Palazzo di X, che, come chi legge avrà intuito, sarebbe stata la sede degli avvenimenti curiosi che verranno narrati qui. In un momento in cui le offerte di lavoro scarseggiavano e le esigenze della didattica diventavano più stressanti – per via delle complicazioni burocratiche più che delle reali esigenze degli studenti – la nostra specialista di semiotica tardomedioevale, rinascimentale, barocca eccetera doveva sentirsi piacevolmente sollecitata da un incarico inatteso, che le avrebbe dato l’occasione di interrompere la routine universitaria con una gradevole «vacanza di studio», che peraltro prometteva di essere ricompensata abbastanza lautamente. La busta portava le insegne araldiche del Marchese di X, gentiluomo dall’età indefinita, che veniva descritto come un tipo così austero e solitario da evitare di fatto ogni contatto con il mondo esterno, demandando al personale della dimora la gestione di qualsiasi relazione con quello che lui si ostinava a chiamare con un tocco di anacronismo il «contado». La lettera era piuttosto breve:
Egregia signora Roberta [segue il cognome che qui, per discrezione, viene omesso],
poiché conosciamo e stimiamo le sue capacità di grande esperta dell’Università di Z, siamo molto ansiosi di servirci delle sue competenze qui a X per schedare non pochi disegni del fondo nobiliare, e dare una valutazione del valore artistico delle opere che fanno parte del patrimonio del Palazzo. Poiché sua Signoria desidera non solo una stima economica, ma anche un apprezzamento del significato culturale delle opere in questione, fin da ora Le garantiamo che per il suo soggiorno – che pensiamo potrebbe protrarsi per non meno di qualche settimana – Le verrà destinata la camera degli ospiti del Palazzo. Inoltre, potrà usufruire per i pasti dell’ottima cucina di cui disponiamo, anche perché la nostra umile magione è collocata in una zona piuttosto lontana da ogni rilevante centro abitato. Siamo convinti che questa situazione non potrà che giovare alla concentrazione necessaria per la buona riuscita dell’impresa.
La lettera non era firmata da sua Signoria in persona, ma da una certa Madame Christine, che doveva essere la direttrice degli affari del Palazzo. Potevano forse incuriosire il tono aulico della missiva e lo stesso uso del plurale, comunque quelle parole – umile magione – creavano un contrasto così involontariamente divertente da far sorridere la nostra protagonista. In calce seguivano le istruzioni per raggiungere con mezzi pubblici o un’auto privata la tenuta di X, dove sorgeva il palazzo nobiliare. Fin qui tutto bene. Più strano suonava il poscritto:
Caldamente La preghiamo, date le abitudini di sua Signoria, di venire abbigliata in modo consono allo stile del Palazzo e di provvedere conseguentemente anche agli indumenti di ricambio che porterà seco. Camicette scollate e minigonne non ci parrebbero appropriate, data la solennità del luogo. Sobri tailleur o qualcosa del genere saranno bene accetti. Non pensi, però, che noi si sia dei puritani, non è cosa per le nostre solatie contrade. Per esempio, i tacchi alti saranno perfettamente ammessi; anzi, osiamo dire che saranno alquanto graditi.
A Roberta queste ultime ingiunzioni (poiché di ingiunzioni si trattava, anche se formulate in un linguaggio apparentemente gentile, addirittura cerimonioso) avevano provocato inizialmente una certa irritazione, ma per la curiosa concessione circa le calzature aveva deciso di non darvi troppo peso, visto che, a tutta apparenza, si doveva trattare di una strana coppia (un lui e una lei piuttosto anziani, dai gusti eccentrici in fatto di vestiario femminile, senza escludere che fossero due vecchi amanti, uniti da un’esistenza trascorsa tra più o meno imponenti anticaglie).
Superato qualche attimo di esitazione, Roberta – che non amava troppo servirsi della propria automobile – si era data a consultare sul computer cosa offrivano le ferrovie e le altre connessioni pubbliche, come, per esempio, la (non troppo fornita) rete degli autobus locali. Dimenticavamo di dire che c’era anche un altro poscritto, perfino troppo sintetico:
Parta appena può. La aspettiamo con ansia perché abbiamo bisogno di Lei. E porti con sé la nostra lettera d’invito.
Seguiva l’indirizzo e-mail di sua Signoria, il che aggiungeva l’ultimo tocco di stranezza, in quanto Madame e il Marchese, per dare l’incarico a Roberta, avevano deciso di servirsi della buona e vecchia missiva manoscritta, con tanto di blasone del marchesato e il sigillo di ceralacca in cui si distingueva l’emblema nobiliare: un arco teso da una specie di monaco incappucciato e puntato contro il cielo stellato.
***
Tre giorni dopo Roberta era arrivata a X. Dal treno era scesa nella cittadina più vicina, e si era affidata a un autobus locale che, dopo un percorso tortuoso lungo una strada che talvolta sembrava diventare una carreggiata di campagna, priva di asfalto e tra nuvole di polvere, l’aveva sbarcata ai piedi della collinetta dove sorgeva quello che i pochi abitanti del luogo chiamavano, anche loro, il Palazzo. Il mezzo si era fermato davanti a un lungo viale alberato, che lei aveva imboccato dopo aver varcato il cancello spalancato. Trascinava una valigiona con le ruote (chissà se aveva fatto bene i conti con le cose da portare e se aveva ben valutato le vesti di ricambio!) e si era stupita che, pur avendo comunicato la data e l’ora d’arrivo, non ci fosse nessuno ad attenderla.
Aveva cominciato a percorrere la salita tra gli alberi, ancora con quel senso di polvere addosso, peggiorato dal clima secco e arido. Camminava lentamente, e fu solo quando ebbe superato l’ultima gobba del viale che – sorpresa! – si trovò di fronte quello che le parve un comitato d’accoglienza in piena regola. C’era pressoché tutto il personale schierato davanti alla scalinata che portava all’ingresso del Palazzo: il maggiordomo, un tipo grosso e rozzo di nome Pietro, grigio di baffi e di capelli (lei avrebbe presto constatato che emanava intorno a sé un acre odore di sigaro); sua moglie Maria, piccola e minuta tanto quanto lui era grosso e grasso, di mezza età anche lei, che però dimostrava più anni del marito; poi c’era Irene, ragazzina dall’aria sveglia e dagli occhi fin troppo furbi, vestita come ci si immagina che nelle casate tradizionali si voglia far vestire una servetta. Non mancavano un vecchio Filippo, che fumava la pipa e aveva le mansioni di giardiniere; e un’opulenta Eulalia, che doveva essere, presumibilmente, la cuoca.
Più in alto, sulla balaustra della scalinata, stava ferma, rigida e impettita, Madame Christine, che doveva essersi volutamente astenuta dall’unirsi al benvenuto corale degli altri. Indossava un elegante completo nero, scarpe e calze pure nere, dal tacco, queste ultime, piuttosto basso: forse, lo faceva per ridurre l’altezza della sua imponente figura. Roberta dalla lettera se l’era immaginata come una vecchietta piuttosto arcigna e un po’ petulante. Doveva ricredersi: Madame era alta, con la figura slanciata, anche se le sue fattezze erano quelle di una donna robusta, che prima di darsi a impegni di supervisione degli affari della magione poteva essersi persino cimentata nel duro lavoro dei campi. Comunque, Madame aspettò che l’ospite – che Pietro aveva liberata dal fardello della valigia – fosse salita per darle un’energica stretta di mano, sussurrando: «Ecco, finalmente Lei è qui!». Il Marchese non c’era. Madame doveva subito informare Roberta che lui, con il suo autista, era dovuto andare lontano per ragioni che riguardavano la tenuta, e sarebbe stato assente per un numero imprecisato di giorni. «Ma non importa,» aveva soggiunto la donna «il lavoro potrà cominciare lo stesso.» Dopodiché, Irene accompagnò la studiosa nella sua stanza.
Era già pomeriggio inoltrato, la calura era lievemente diminuita e ciò permetteva a Roberta di contemplare con soddisfazione la stanza che le era stata assegnata. C’era un ampio letto a baldacchino, un tavolino di antico legno pregiato e sedie in stile. In un altro angolo, un’ampia e confortevole poltrona. Dalle finestre spalancate entrava l’aria tiepida del giardino, né mancava il frinire delle cicale. Una scena pressoché idilliaca, si diceva tra sé Roberta, e la stessa magione pareva tratta da una stampa antica. Era un vasto edificio quadrato, imbiancato a calce, di stile tardogotico, non privo perfino di una torretta che doveva imitare qualcosa di medioevale, svettando rispetto al corpo centrale.
Eppure, c’erano dettagli che lasciavano a desiderare. Come i muri esterni parevano corrosi dalle muffe – e un’ala sembrava pressoché disabitata, con le sue persiane sigillate come se non vi abitasse nessuno –, così la stessa stanza toccata a Roberta presentava tracce di umidità sul soffitto e sulle pareti istoriate. Le decorazioni ottocentesche apparivano in qualche punto stinte o graffiate, e persino i tendaggi esterni e le cortine del letto avevano un tono spento, come se l’incuria del tempo non avesse risparmiato le tinte originarie.
Roberta si sedette sul bordo del letto e cominciò a guardarsi intorno, rilassandosi dopo il lungo viaggio e la faticosa salita. In un angolo era stata posta la valigia. Su una parete campeggiava il ritratto a olio di una donna dalla figura slanciata e dai lunghi capelli; a parte che quelli di Roberta erano biondi, mentre il crine del soggetto raffigurato era bruno, c’era tra le due donne – quella del ritratto e quella reale – una non so qual somiglianza sottile, forse non immediatamente percepibile da chiunque, ma intuibile da parte di un occhio esperto. Roberta si chiese di chi mai si trattasse, e il cartellino sotto il ritratto – recente, anche se eseguito con una tecnica degna dell’inizio del Novecento – portava solo un nome, Susanna. Lei lasciò perdere questo piccolo mistero e si concentrò su quello che avrebbe potuto fare prima di cena. Aveva scorto la porticina che dava su un’ampia e luminosa stanza da bagno. Ci voleva una bella lavata per scrollarsi di dosso la polvere. Si tolse le scarpe nere di vernice – queste sì con il doveroso tacco a spillo –, poi si sollevò la gonna nera, slacciò prima una poi l’altra calza, lasciò che l’indumento cadesse al suolo e infine si levò la giacca blu e la camicetta bianca che teneva sotto di questa. Presto anche mutandine e reggiseno vennero rimossi, e lei si avviò quietamente al bagno. Non senza aver avuto per un momento brevissimo la sensazione di essere osservata, come se ci fosse qualcuno; ma, ovviamente, non c’era nessuno.
Quando la servetta era uscita, Roberta aveva avuto istintivamente il riflesso di chiudere la porta a chiave dall’interno, e poiché la stanza era al primo piano, non c’era alcuna possibilità che qualcuno potesse sbirciare dalla finestra. Magari era il quadro di Susanna a darle quella sensazione, come se gli occhi fiammeggianti della donna effigiata la seguissero man mano che si muoveva; o forse era lo specchio barocco collocato sulla parete opposta, che rifletteva il corpo di Roberta: un’immagine quasi velata, «come in un enigma», data la condizione non proprio ottimale della superficie argentata.
***
Fatto il bagno, e asciugatisi quasi con voluttà le carni e i capelli, aprì la valigia e ne trasse fuori il tailleur pure nero che avrebbe indossato per sera. Per una bizzarria del caso, la faceva assomigliare ancor di più alla Susanna raffigurata nella tela con un abito altrettanto austero che ne fasciava le notevoli curve. Stava indossando un paio di calze nuove e trasparenti, e aveva tirato fuori altre due scarpette nere ed eleganti come le prime, quando sentì bussare in modo discreto alla porta. Poteva essere Irene, e andò ad aprire. Davanti le comparve Madame Christine. «Posso entrare? Voglio parlarle un attimo» disse, facendo qualche passo verso l’ospite.
Mentre Madame procedeva nella stanza, Roberta ebbe modo di constatare lo strano fascino di colei che doveva essere la vera «signora» del Palazzo: gli occhi le brillavano, due piccole pupille nere su un’iride azzurra; i capelli, tagliati a spazzola, le conferivano un’aura quasi mascolina che, però, non andava a scapito della sua femminilità e, quasi a contrastare le curiose direttive della lettera, la sua gonna era piuttosto corta, scoprendo alquanto sopra il ginocchio un paio di gambe sottili e nervose. Madame le si era ulteriormente avvicinata, e questa volta con una voce piuttosto roca le aveva spiegato che «noi siamo gente di campagna, che vive un po’ lontano dai centri abitati e che si compiace della propria solitudine e delle proprie tradizioni». Aveva soggiunto: «Si troverà benissimo, qui! E non ci giudichi troppo strani, se Le chiedo ancora una piccola gentilezza». Come per magia le era comparsa tra le mani una sorta di nastro rosso. «L’indossi, La prego!»
Roberta, all’inizio, non aveva nemmeno capito che si trattava di una giarrettiera; intanto, Madame si era chinata a ginocchioni davanti a lei, le aveva preso delicatamente il piede, le aveva fatto salire il nastro lungo la caviglia e poi, scostando la gonna sopra il ginocchio, l’aveva serrato contro la coscia di Roberta. Meravigliandosi di sé stessa, questa aveva lasciato fare; anzi, aveva perfino aiutato l’operazione tenendo la gonna sollevata. Madame aveva contemplato il tutto con soddisfazione: «Vedo che ha indossato i suoi bei tacchi a spillo; quanto alla giarrettiera, è un capriccio del Marchese. Ci tiene che le donne di questa casa l’indossino». «Anche Irene, la cuoca e la moglie del custode?» chiese scettica Roberta. «No, la servitù è ovviamente esclusa; ma io non faccio parte del personale.» Madame aveva sollevato la veste sulla coscia destra, dove era stretto il nastro rosso su cui spiccava in nero l’emblema dell’arciere. A Roberta era parso quasi di specchiarsi nell’altra, ma Christine, con la stessa risolutezza e discrezione con cui era entrata, si era subito congedata, chiudendo la porta dietro di sé.
***
Mancavano due ore alla cena; Roberta le trascorse a guardare il cielo che continuava imperterrito a restare luminoso e azzurro; infine, comparve la prima stella della sera, e la falce della luna crescente, già visibile in pieno pomeriggio, da bianca cominciò a diventare splendente, illuminando le pianure e le colline dove a stento si scorgeva la luce di qualche sporadico casolare. Roberta si era scordata della domanda che avrebbe voluto porre all’energica Madame: Chi era Susanna? Avrebbe appreso qualcosa di più a tavola, in una grande sala illuminata da imponenti candelabri, ove, l’una di fronte all’altra, lei e Madame cenavano, loro due sole, servite però da Pietro e Maria, invisibili e silenziosi alle loro spalle. Irene era stata congedata, e la cuoca aveva dato prova delle sue eccezionali qualità senza mai comparire. I vini rossi scintillavano nei bicchieri alla luce delle candele e – potete aspettarvelo! – avevano un riverbero come di sangue raggrumato, ma Christine era una conversatrice abile e capace di mettere l’ospite a proprio agio. Quando Roberta aveva chiesto chi fo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il fantasma e il desiderio
  4. Prologo. Fantasmi libertini e libertari
  5. I. L’uomo di Gorcum
  6. II. L’angelo geloso
  7. III. La Testa di Moro
  8. IV. Le foglie della Sibilla
  9. V. Fuoco nella pianura
  10. Epilogo. Spettri scarni e altro
  11. Note
  12. Copyright