Il dubbio
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Il dubbio

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

«In questo libro pongo quattro grandi domande: Esiste Dio?

Esiste il Destino?

Che cos'è il tempo?

Che cos'è lo spazio?

E cerco di trovare, se non proprio una risposta, almeno un tentativo di risposta.»

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804657958
Capitolo III

L’Entropia

È stato come quando ci s’innamora: l’ho incontrata per caso a Milano e poi, piano piano, ho capito che non ne potevo più fare a meno. Sto parlando della filosofia, di questa strana scienza che, a essere sinceri, non so nemmeno io bene che cosa sia, ma che a conti fatti ha cambiato il mio modo di vivere.
Ai tempi dei Greci la filosofia s’identificava con il conoscere, nel senso più ampio del termine, poi col passare degli anni alcune delle branche che la costituivano (come l’astronomia, la fisica, la politica e la medicina) si sono messe in proprio, lasciando in casa solo l’etica, la logica e l’ontologia.
L’inventore della parola “filosofia” pare sia stato Pitagora; dopo di lui molti altri hanno cercato una definizione che potesse in qualche modo circoscrivere l’area d’interesse della materia; i risultati, però, non sono mai stati chiari. Tanto per avere un’idea di quanti possano essere gli argomenti della filosofia, ecco alcune definizioni prese da dizionari o da saggi specialistici: «Scienza che studia i principi e la ragione ultima delle cose» (Palazzi), «Ricerca di un sapere capace di procurare un effettivo vantaggio» (Zingarelli), «Riflessione dello spirito umano sul mondo che lo circonda e su se medesimo» (De Ruggero), «Un qualcosa a metà strada tra la scienza e la teologia» (Russell).
Al liceo, la prima stupidaggine che s’impara è che «la filosofia è quella cosa, con la quale e senza la quale, il mondo resta tale e quale»; il che potrebbe anche essere vero, se si restasse sempre adolescenti, spensierati e soprattutto immortali. Col tempo invece ci si accorge che senza le grucce di una qualche fede o il conforto dell’apatheia, ovvero del distacco dalle passioni, si vive malissimo. Socrate sosteneva che coloro che «filosofano dirittamente» sono individui che «si esercitano a morire», noi, invece, che siamo più allegri, ci serviamo della filosofia per migliorare la qualità della vita. Alla fine scopriamo che entrambe le definizioni vogliono dire la stessa cosa e che l’unica sostanziale differenza tra i due modi di concepire la vita è se sia preferibile mirare al massimo della felicità o accontentarsi del minimo della sofferenza.
A volte mi chiedo: ma i grandi della finanza, gli Agnelli, i De Benedetti, i Gardini, i Berlusconi, si divertono sul serio a comprare e a vendere imperi economici? Provano un senso di felicità quando tornano a casa, la sera, con mille miliardi in più nel portafoglio? I capi della camorra e della mafia, i Cutolo, i Liggio, i Rijna, trovano conveniente esercitare un mestiere che in termini pratici vuol dire anche processi, carcere, guardie del corpo e vendette trasversali su madri, spose e fratelli? I grandi uomini politici, i De Mita, i Craxi, gli Andreotti, si sono mai chiesti se sia più conveniente la vita di un uomo di potere o quella di un padre di famiglia, magari semplice impiegato comunale, che però va a prendere ogni giorno la figlia a scuola? Ora i suddetti signori, chi nel bene e chi nel male, non sono certo degli sprovveduti, eppure finiscono tutti col sembrare dei ragazzini che si accapigliano mentre stanno giocando a Monopoli. Vuoi vedere, mi chiedo, che se avessero meditato un po’ di più sui problemi della filosofia, campavano meglio?
A scuola non ebbi tempo di apprezzare granché la filosofia. Dovendo portare alla maturità tutte le materie degli ultimi tre anni, fui costretto a riassumerle al massimo, ragione per cui sostituii il troppo difficile Lamanna con il piccolo Bignami, un libriccino dalla copertina marrone, severamente proibito da tutto il corpo insegnante. Giunto però vicino agli esami, trovai oneroso anche il Bignami e ripiegai su alcuni appunti, da me definiti “sintetici”, dove Talete, Anassimene ed Eraclito si erano via via ristretti fino a diventare, rispettivamente, “quello dell’acqua”, “quello dell’aria” e “quello del fuoco”.
Cominciai a capire qualcosa di filosofia solo dopo il divorzio. Ero ancora innamorato di mia moglie e soffrivo molto la solitudine. Una sera in cui mi sentivo particolarmente depresso ascoltai per caso, alla radio, una vecchia canzone di Libero Bovio. «Me ne voglio ì all’America» diceva il poeta «ca sta luntano assaie, me ne voglio ì addò maie, te pozzo ncuntrà cchiù. Me voglio scurdà ’o cielo, tutte ’e canzone e ’o mare, me voglio scurdà ’e Napule, me voglio scurdà ’e mammema, me voglio scurdà ’e te.»
Il giorno dopo chiesi alla IBM di essere trasferito il più lontano possibile. Una volta a destinazione, capii di aver commesso un errore madornale: a Milano mi sentivo doppiamente solo. Oltre ad aver perso l’amore, infatti, avevo perso anche i riferimenti a cui ero abituato da sempre, ovvero la casa, la città, i famigliari e gli amici.
Appena arrivato, scesi in un albergo di via Fara; credo che si chiamasse Royal o qualcosa del genere. Poi, verso sera, uscii e mi misi in cerca di una trattoria. Essendo quella una zona di uffici, non trovai nessun locale aperto. Camminai allora lungo una direzione che a naso mi avrebbe dovuto portare verso il centro. Non ricordo più in quale ristorante andai a finire, so solo che all’uscita trovai una nebbia così fitta, ma così fitta, che sentii un passante esclamare: «Uè, ma una nebbia così non s’era vista mai!». La nebbia mi condizionò a tal punto da farmi dimenticare perfino il nome dell’albergo dov’ero alloggiato. Per un po’ camminai senza meta, poi mi fermai e piansi in silenzio. Di tanto in tanto i fari delle automobili mi passavano accanto, ora a destra, ora a sinistra... Adesso che ci penso, dovevo stare al centro di una carreggiata.
Non che a Milano i milanesi non fossero gentili con me (anzi!), ma lo erano sempre e poi lo erano con tutti. Ecco un elenco sicuramente incompleto delle persone gentili che incontravo ogni giorno sul percorso casa-ufficio: il vicino di pianerottolo, il portiere, il barista, il giornalaio, il parcheggiatore, il benzinaio, il garagista, la receptionist e la segretaria. Capii subito che sarebbero stati ugualmente gentili anche se io fossi stato un altro e questa mancanza di discriminazione nei miei confronti mi fece star male. In altre parole, io cercavo una prova della mia esistenza e loro mi sommergevano di cortesie indifferenziate. Ricordo che una sera andai alla Rinascente e supplicai le commesse di trattarmi in modo più personale. «Signorine, vi prego,» dissi loro «se proprio non potete farmi lo sconto, fatemi almeno pagare qualche cosina in più, magari solo cento lire, purché la mia venuta, questa sera, lasci una traccia nel vostro cuore.» Niente da fare: mi scambiarono per un maniaco sessuale!
Prendiamo per esempio il mio vicino di casa, il dottor Gangemi, un anziano signore che lavorava in una società di assicurazioni. Lo incontravo tutte le sere in ascensore (avevamo gli stessi orari) e ogni volta, tra un “Come sta?” e un “Bene, grazie e lei?”, riuscivamo a coprire il tempo necessario per passare dal pianoterra al terzo piano. Poi, a un certo punto, che mi fa Gangemi? Sparisce, nel senso che non lo incontro più per giorni e giorni; io giustamente penso che sia malato, e chiedo sue notizie al portiere, un brianzolo di Cantù.
«È morto» risponde il portiere.
«È morto!!! E com’è morto?»
«D’infarto.»
«E quando è successo?»
«Un mese fa.»
«E com’è che io non me ne sono accorto?»
«È morto durante un weekend.»
Insomma il dottor Gangemi era morto senza farmelo sapere e il portiere, da parte sua, non aveva sentito il dovere di tenermi informato. Se fosse stato un portiere napoletano mi avrebbe atteso il giorno dopo, fermo come una statua, sotto il portone, fin dalle prime luci dell’alba, se non altro per essere il primo a darmi la triste notizia.
«Ingegnè, avete visto che è successo?» avrebbe detto, fingendo di credere che già sapevo tutto.
«Che è successo?» avrei chiesto io.
«Ma come: non sapete niente!» si sarebbe stupito lui, sempre però senza venire al fatto, in modo da prolungare al massimo l’attesa.
«Io adesso sto tornando da Roma...»
«Il dottor Gangemi...» avrebbe cominciato a dire, per poi bloccarsi all’improvviso come sopraffatto dalla commozione; e qui io dalla sua faccia atteggiata al massimo cordoglio avrei dovuto capire tutto quello che era successo, anche perché lui (sempre per non impressionarmi) la parola “morto” non l’avrebbe mai pronunziata.
«È successa una disgrazia?»
Abbassamento di palpebre.
«È morto?»
Nuovo abbassamento di palpebre.
«E come è morto?»
«Un infarto.»
«Un infarto?»
«Una cosa improvvisa, ingegnè: si stava allacciando le scarpe, quand’è caduto faccia a terra in camera da letto. La moglie ha chiamato subito un’autoambulanza, ma non c’è stato niente da fare. Anche il padre, pace all’anima sua, era finito così.»
«Allacciandosi le scarpe?»
«Sissignore, tanto che io ho pensato: ma questi Gangemi perché non si comprano i mocassini?»
«Ma tu pensa che coincidenza!»
«Una famiglia distrutta, ingegnè, una famiglia distrutta!» avrebbe esclamato. «Io proprio il giorno prima lo avevo incontrato per le scale e gli avevo detto: “Dottò, ci sarebbe il condominio da pagare” e lui mi aveva risposto: “Abbi pazienza, Salvatore, ma adesso non ho tempo, ci vediamo domani”. E ora chi ce l’ha il coraggio di andare a dire alla vedova che ci sarebbe il condominio da pagare! Ma voi, ingegnere mio, l’avreste dovuto vedere nella camera ardente: Gesù, Gesù, e quant’era bello: stava lì, disteso, come un patriarca, in mezzo ai fiori, sembrava che stesse dormendo! Che poi, puveriello, diciamo la verità: che teneva? Sì e no, sessantatré anni: tra due anni sarebbe andato in pensione. E invece... Ha lasciato una proprietà a Casavatore e due quartini sopra i Camaldoli, tutti e due però a fitto bloccato. Ma che siamo su questa terra!»
«Che siamo!» gli avrei fatto eco io.
Certo che a Milano il portiere napoletano mi mancava, in compenso però la vita di ogni giorno era diventata molto più facile. Il lavoro si era di gran lunga semplificato. Mentre a Napoli non riuscivo a tornare a casa mai prima delle nove, a Milano, alle sei, grazie alla puntualità milanese, mi ero già messo il cappotto per uscire. Ogni cosa funzionava come doveva funzionare: la metropolitana passava puntuale, i clienti rispettavano gli appuntamenti, la Scala iniziava alle otto in punto e tutti i cittadini, ma dico tutti, facevano il proprio dovere. Tanto che io, da bravo uomo del Sud, cominciai ad avere dei forti complessi d’inferiorità nei confronti dei milanesi: vuoi vedere, mi dicevo, che questi qui sono più intelligenti di noi? E conseguentemente sentii il bisogno di rivalutare l’immagine dei napoletani.
«Voi siete bravi,» andavo dicendo a tutti «anzi bravissimi! Attenzione però: la vita non è solo produttività, è anche immaginazione!»
E subito dopo, per meglio sostenere la tesi dell’ozio, senza cadere nel macchiettismo, ricorrevo a Bertrand Russell, oppure ai filosofi greci e alla loro diffidenza verso ogni forma di produttività.
«Ai tempi di Socrate chiunque veniva sorpreso a lavorare era considerato un b...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il dubbio
  4. Capitolo I. Le grandi domande
  5. Capitolo II. Il Caso e la Necessità
  6. INTERFAZIONE
  7. Capitolo III. L’Entropia
  8. Capitolo IV. Il tempo
  9. Capitolo V. Lo spazio
  10. Bibliografia minima
  11. Copyright