Il treno correva sui binari paralleli al mare, da Barcellona a Sorrals. Quando poteva, Júlia si sedeva sempre accanto al finestrino per contare le spiagge e le cale che mancavano per arrivare. Poggiava la testa allo schienale e lasciava riposare lo sguardo, incorniciato dal finestrino del treno.
Passavano palme, fili elettrici, stazioni, donne, gatti, ragazzi, altre palme. Una spiaggia di forma allungata, come una fetta di pane, una caletta riparata, uno spiazzo pieno di sporcizia. Da Barcellona a Sorrals. Da Sorrals a Barcellona. Avrebbe dovuto contare i viaggi fatti nei cinque anni di università.
Questa volta non aveva trovato posto dalla parte del mare e si era seduta dall’altro lato, dove guardava assopita un paesaggio pieno di vita e di movimento che tuttavia l’annoiava più del blu che riempiva gli occhi dei fortunati, i passeggeri seduti a destra. Il treno attraversava paesi che si assomigliavano tutti. Case basse, semafori, piazze seminascoste, canali, negozi di alimentari, vecchi seduti sulle panchine. Poi campane di porporina, candele gialle, ancora campane. Abeti che si accendevano e si spegnevano e angeli azzurri. Ghirlande di agrifoglio e minuscole lampadine rosse.
A Júlia sembrava che l’illuminazione natalizia fosse l’unica cosa a differenziare leggermente un paese dall’altro. Stava facendo buio all’improvviso, in fretta, come fa buio a dicembre. Il treno attraversò un paese proprio nel momento in cui si accendevano le luci. Il lungomare si riempì di colori: sopra alla gente galleggiavano delfini, stelle marine, timoni e ancore. Júlia contemplava il paesaggio a bocca aperta, come una bambina. Era come se i binari si fossero liquefatti, fino a svanire, e così gli abitanti dal lato del mare avevano potuto passare dall’altra parte. Si arrampicavano sui muri e sui lampioni, si prendevano per mano e rimanevano appesi al cielo sulla strada, come luci di Natale.
«Júlia!» Una voce conosciuta la strappa dalla scena onirica.
La sua amica Mònica le va incontro, in compagnia di due ragazzi:
«Uff! Nel vagone accanto c’era un tizio che suonava la fisarmonica senza darci respiro...!»
Uno dei ragazzi è Andreu Balart, che saluta Júlia con un cenno della testa mentre lei sposta le gambe per lasciarlo sedere davanti. L’altro ragazzo saluta dandole la mano mentre si presenta:
«Ricard.»
«Júlia.»
Júlia, Ricard e Mònica iniziano una conversazione vivace e intramezzata da risate, mentre Andreu si raggomitola contro il finestrino, si mette le cuffie del walkman e si isola dal resto del mondo.
«Per Natale ho chiesto un walkman come questo» dice Mònica, ma Andreu non la sente «ma ho paura che sia troppo caro. È Sony.»
Júlia guarda qualche secondo Andreu, che adesso ha persino chiuso gli occhi.
«Vuole fare l’interessante» dice con irritazione.
Andreu la irrita, non può farci niente.
«Ma non eravate amici?» chiede Mònica innocentemente.
«Le nostre madri erano amiche» puntualizza Júlia. «Questo non vuol dire che dobbiamo esserlo noi.»
L’amica scuote la testa.
«No, certo!»
Andreu la irrita perché sembra che porti scritto in fronte “sono orfano di madre”. E allora? Anche lei lo è, e non va in cerca della commiserazione altrui. È vero però che a casa di Júlia il padre aveva impedito che la tristezza si stabilisse per sempre, impregnando le tende, attaccandosi alle mattonelle della cucina, nascondendosi nei cassetti della biancheria intima... ovunque la trovassero nei primi giorni dopo la morte di Roser. Suo padre aveva insegnato a lei e ai suoi fratelli a parlare spesso della madre, pur se doloroso, e in poco tempo erano riusciti a farlo senza angoscia. Júlia immagina che Joan Balart, il padre di Andreu, abbia fatto il contrario. Era già un uomo triste prima della tragedia. Il pensiero di padre e figlio, soli e afflitti, in quella casa così grande... Ma questo non lo giustifica, niente calma l’irritazione che le provoca Andreu. Si appoggia allo schienale mentre sente una stretta alla bocca dello stomaco. Le succede da qualche mese. Quando qualcosa la infastidisce, le si contrae lo stomaco e un sapore acido le sale in gola. Suo padre l’ha accompagnata dal medico: «È una gastrite nervosa». Sì, certo, questo l’avrebbe potuto dire anche lei. Adesso sente quella stretta e pensa che la colpa è di Andreu Balart e della sua studiata indolenza. Lo lascia perdere e si unisce alla conversazione animata degli altri due, che ora discutono accanitamente su quale sia l’escudella più buona del mondo, se quella della madre di uno o dell’altra.
«Mmh... Non posso aspettare il giorno di Natale per mangiarla» dice Mònica. «Mi sa che ne chiedo un po’ a mia madre appena arrivo.»
«L’avrà già fatta?» chiede Ricard. «Mia madre non comincia prima del pomeriggio del ventiquattro. In tutta la casa si diffonde un odore di Natale che non se ne va finché non finiscono le feste!»
Júlia li ascolta con un sorriso forzato sulle labbra. E all’improvviso, senza che Mònica faccia in tempo a fermarlo, Ricard le chiede:
«E l’escudella di tua madre com’è? Anche la sua è la più buona del mondo?»
Júlia cancella il sorriso dal volto e scuote la testa, mentre cerca di articolare qualche parola che non arriva a pronunciare. Mònica rimprovera dolcemente il suo amico:
«Ricard! La madre di Júlia è morta qualche anno fa, non te lo ricordi?»
Il ragazzo arrossisce.
«Accidenti! Mi dispiace! Sì, è vero, in quell’incidente della sera di San Giovanni, no? Scusami, davvero...»
Júlia fa un movimento con la testa come a togliere importanza alle parole del ragazzo, ma il danno è stato fatto.
I tre giovani continuarono il viaggio in un silenzio imbarazzante. Si avvicinavano a Sorrals. Júlia allungò il collo per guardare dall’altra parte e riuscì a vedere la Cala Piccola, vuota, con la sabbia piena di rametti, conchiglie e alghe secche, la Spiaggia, con qualche barca di pescatori a riposo vicino al mare, e infine la Cala Media. Dentro di sé era iniziata una battaglia che non voleva far intuire a nessuno. Un pensiero si affacciava dal suo subconscio, sebbene lei cercasse invano di tenerlo a freno, e si faceva strada saltando barriere e aprendo saracinesche: “Come mi piacerebbe arrivare a casa e trovare mamma ad aspettarmi. Che abbraccio dolce. Un Natale diverso”. Il treno cominciava a rallentare. Júlia si alzò, prese la borsa e si avviò alla porta, pronta a scendere.
Dalla banchina si girò a salutare gli amici. Andreu era appena sceso e lo guardò fisso per un secondo. Aveva gli occhi del blu più triste che Júlia avesse mai visto, ma questa volta non la colse l’abituale irritazione. Immaginava che la fitta di nostalgia che aveva provato un momento prima si nascondesse anche dietro quegli occhi. “Forse ha avuto il mio stesso pensiero: magari ci fosse mia madre.”
Andreu si caricò la borsa in spalla e passò vicino a Júlia, superandola a sinistra. La ragazza si era fermata un attimo tra la gente, colpita dalla scoperta di quel pensiero comune di nostalgia.
«Buon Natale, Júlia» disse lui.
La voce di lei si ruppe a metà strada, in gola, e il ragazzo non sentì come gli ricambiava gli auguri. Júlia lo vide camminare, oscillando leggermente da destra a sinistra, trascinando un po’ i piedi.
La casa vicino al mare era illuminata, ma non c’era alcuna decorazione che facesse pensare che era arrivato Natale. Andreu trovò suo padre seduto accanto al camino con un libro in grembo. La voce di Maria Callas – O mio babbino caro – e il fuoco acceso erano gli unici elementi di tepore in un soggiorno in penombra. Andreu si fermò sulla soglia e fece scorrere lo sguardo per quella stanza che ricordava... Vedendo suo figlio, l’uomo seduto vicino al caminetto accennò un sorriso e il ragazzo gli si accostò per dargli un leggero bacio sulla guancia. Il padre gli fece qualche educata domanda sull’università e subito dopo gli disse che quella sera avrebbero cenato al ristorante insieme a Marta. Marta era la sorella del farmacista Rubió, amico di gioventù di Joan Balart, nubile ed estremamente timida. La novità suscitò nel ragazzo un grande stupore, perché non immaginava come suo padre, uomo ritroso e malinconico, e Marta, donna riservata e timorosa, avevano potuto diventare così intimi. Chi aveva fatto il primo passo? Di cosa parlavano quando si incontravano al circolo per un caffè o quando andavano a fare una passeggiata verso sera sul lungomare?
Andreu svuotò la borsa, mise i vestiti sporchi a lavare e si infilò sotto la doccia. Il getto d’acqua calda gli scorreva sulla schiena, la muscolatura si rilassava.
I pensieri andavano e venivano da Marta Rubió a Júlia Reig. L’aveva incontrata in treno. Non si vedevano da tempo. Aveva i capelli più lunghi. Si sarebbero sposati, suo padre e Marta? Lui non aveva nulla in contrario. Faceva solo fatica a immaginare una donna dentro casa. Si era abituato alla quiete che vi regnava dalla morte di sua madre. All’inizio era una calma tetra, come cimiteriale, ma a poco a poco ci aveva fatto l’abitudine. Era una pace turbata solo dalle arie d’opera e dagli scoppiettii nel camino. A volte da qualche botto forte, quando un’imposta fissata male sbatteva contro la finestra.
Da tempo ormai non si sentiva stringere il cuore quando arrivava a Sorrals da Barcellona e camminava verso casa, temendo il momento in cui avrebbe trovato il padre sprofondato nel proprio dolore con l’aria di chi si abbandona su una poltrona che trova comoda. Con il passare degli anni, pian piano e sempre senza parole, aveva notato che il dolore secco di quell’uomo solo si ammorbidiva e diventava più simile a una tristezza molle, innocua, quasi accogliente. Da quando era andato in pensione, suo padre viveva rifugiato in quell’angolo di mondo fatto su misura, e non sembrava un uomo disperato. Gli sembrava piuttosto un uomo che viveva felicemente insediato nella malinconia.
Elvira era morta senza avere mai parlato apertamente con suo figlio adolescente del carattere depressivo di Joan Balart. Ma il ragazzo era sensibile, come lei, e senza sua madre era maturato in fretta. Questi due aspetti avevano favorito un atteggiamento comprensivo e discreto verso la malattia del padre. Rispettoso, senza rimproveri. E forse, chi lo sa, Joan Balart si era sentito finalmente libero nella sua tristezza.
Padre e figlio, è vero, non parlavano mai di Elvira. Non la nominavano neanche. Ci sono però assenze, lo sanno tutti, più forti di qualsiasi presenza, e il suo ricordo fluttuava da una stanza all’altra, si nascondeva in ogni angolo del giardino, riposava verso sera seduto sulle scale della veranda. Come se Elvira fosse seduta al pianoforte e le note si diffondessero ovunque.
Dopo la doccia, già vestito per la cena, Andreu Balart uscì nella veranda di casa a fumare una sigaretta. I lineamenti erano diventati più duri e il corpo più forte, ma lo sguardo era ancora innocente, più azzurro, se possibile, su quel viso reso più scuro dall’ombra della barba. Appoggiato alla ringhiera, cedette per qualche secondo alla nostalgia e immaginò le note uscire dalle dita di sua madre e volare sfiorando il soffitto delle stanze fino ad arrivare là dove si trovava lui. Solo un istante. Sentì un leggerissimo tremore nel petto. Pensò che, se era vero che gli uomini avevano un’anima, la sua aveva appena vibrato. Recuperò la calma con una profonda tirata e subito dopo si concentrò sull’immagine della ragazza che aveva incontrato in treno. Così familiare e così sconosciuta. La stessa Júlia che gli dava i pizzicotti quando litigavano e un adulto veniva a sgridarli. La bambina dai riccioli scuri che gli infilava le unghie nella pelle per fargli accettare le sue colpe senza protestare.
«Era lui che mi tirava i capelli» diceva Júlia.
E l’adulto lo sgridava e gli diceva di lasciare in pace la bambina, di non abusare della sua forza e altre assurdità del genere. Il giorno dopo Andreu si toccava il livido che le dita di Júlia gli avevano lasciato sul braccio.
Buttò fuori il fumo, che disegnò una spirale davanti ai suoi occhi e poi sparì. La stessa Júlia e lo stesso giardino. Quella vigilia di San Giovanni, quando era corso in casa per rispondere al telefono e, girandosi, aveva visto i fratelli Reig giocare come cuccioli sotto il salice piangente. Il giorno dopo l’incidente, quando aveva salito i tre gradini della veranda e aveva pensato: “Ieri, quando ho fatto gli stessi passi, uno, due, tre, ero ancora felice”. E da allora, sempre, tutti i giorni, ogni volta che saliva quei gradini, ci pensava. Uno, due, tre e il mondo crolla. Magari avesse potuto scendere i gradini e, semplicemente, tornare indietro. Tre, due, uno e la telefonata non c’è stata.
Suo padre uscì di casa tutto agghindato e profumato. Era un piacere vederlo.
«Allora, andiamo?»
Non sorrise. Joan Balart sorrideva poco. Ma appoggiò la mano sulla spalla del figlio per scendere insieme i tre gradini.
Mentre i Balart, padre e figlio, cenavano al ristorante con un’intimidita Marta Rubió, Júlia Reig cucinava delle frittate di zucchine e cipolla per suo padre e i suoi fratelli. Cenarono come sempre: mangiando troppo in fretta e parlando tutti insieme: dammi l’acqua, ne voglio un altro po’, lasciami parlare, mmh, come sono buone, vuoi stare zitto?, porta il sale! Valentí Reig notò subito che la figlia maggiore era di malumore. Si era offerta di cucinare, sì, ma borbottando e facendo la vittima. Aveva mangiato la sua frittata in un insolito silenzio e alla fine era esplosa ingiustamente contro suo fratello.
«Vuoi studiare psicologia?! Ma che dici? Non ci sono altre facoltà adesso?»
Suo padre le mise la mano sul braccio per cercare di calmarla, ma lei preferì ignorare il contatto e proseguire il suo sfogo:
«Da quando? Da quando ti interessa la psicologia? Non te l’avevo mai sentito dire. Neanche una volta!»
Ignasi si difendeva come poteva, sconcertato per quell’attacco d’ira.
«E allora? Che importanza ha che non l’abbia mai detto? Lo dico adesso. Non hai mica l’esclusiva...»
Valentí li lasciò fare per un po’. Permise che il ragazzo passasse all’attacco, che la figlia di mezzo intervenisse a difenderlo, che Júlia si mostrasse testarda, intransigente, insolitamente ottusa. E quando ritenne che la figlia maggiore si fosse sfogata abbastanza, intervenne per chiedere a Rut e a Ignasi di andare a dormire:
«Su, che si è fatto tardi e doma...