Il fasciocomunista
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Il fasciocomunista

Vita scriteriata di Accio Benassi

Antonio Pennacchi

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Il fasciocomunista

Vita scriteriata di Accio Benassi

Antonio Pennacchi

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Accio Benassi, incazzato, ribelle, attaccabrighe, goffo, innamorato, illuso, ingenuo, arrogante, disubbidiente, sentimentale. È lui il protagonista del Fasciocomunista, la sua storia è quella di un ragazzo di Latina che frequenta in rapida successione il seminario, l'MSI, il movimento studentesco, i giovani maoisti… Il suo percorso è esemplare di una generazione e dei temi che quella generazione ha affrontato riflettendo sul proprio percorso. Ma in realtà Accio è uno straordinario eroe che dà vita a una storia nuova perché veramente anomalo è il suo sguardo, il suo punto di vista: non puramente, astrattamente intellettuale e ideologico, ma anche istintivo, concreto, picaresco. L'eroe quasi ottocentesco di un romanzo assolutamente contemporaneo nella struttura, nelle intemperanze, nella nervosa tensione della scrittura.

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Informazioni

1

A un certo punto mi sono stufato di stare in collegio. Sono andato da padre Cavalli e gliel’ho detto: «Io non mi voglio più fare prete, voglio tornare nel mondo».
«Il mondo?»
«Voglio andare a vedere come è fatto».
Lui non voleva crederci. Ha insistito in ogni modo: «Ma la tua m’era sembrata una vocazione profonda. Ripensiamoci, magari è una crisi che ti passa. Chiediamo consiglio al Signore, aspettiamo».
Io niente. M’ero stufato e basta. E allora ha telefonato a mia madre – o meglio, ha telefonato alla signora Elide, che era l’unica ad avere il telefono al di qua della circonvallazione, e che poi ha chiamato mamma – proponendo anche a lei di aspettare. Ma quella – mamma, non la signora Elide – gli ha risposto peggio di me: «Se proprio deve tornare, ritorni e basta, non la stiamo a tirare alle lunghe. Sia lodato Gesucristo».
E così sono tornato.
Mi ha accompagnato fratel Pippo. A Roma prendemmo il pullman. Era rosso. Me lo ricordo ancora adesso. Noi stavamo seduti dietro, sui sedili di fondo. Nell’attesa che partisse, gli sportelli erano aperti ed entrava aria. Vento sul viso. Erano i primi di maggio e la giornata era piena di sole. Fratel Pippo si rigirava tra le mani la fascia nera dei vincenziani, mischiata alla corona del rosario. L’autista, davanti, stava sbracato coi piedi sul volante, e mandava la radio a tutto volume. C’era Betty Curtis, che cantava a squarciagola: «Chari-ooot... La terra, / la terra / ci porterà fortuna. / La luna, / la luna / ci svelerà il domani». E io tornavo a casa felice e contento.
Ma chi evidentemente non era per niente felice e contento erano proprio quelli di casa. Lì stavano già stretti per conto loro e – bene o male – ognuno s’era ritagliato il cantuccio suo: in una camera Otello e Manrico, nell’altra mio padre e mia madre con Violetta e Mimì. Lui era fissato con la lirica: le prime le aveva chiamate una Norma e l’altra Tosca. Ogni tanto tornavano anche loro – con mariti e figli – e allora si rimescolavano le carte: questi estranei in cameretta e Otello e Manrico in sala da pranzo, coi materassi per terra. Chi glielo aveva fatto fare a mio padre di mettere al mondo tutti sti figli? Sette: quattro femmine e tre maschi.
Mussolini e la Madonna glielo avevano fatto fare. Mussolini perché dava il premio a ogni figlio che nasceva e – anche se lui è morto nel 1945 e il premio non lo hanno dato più – mio padre s’era preso il vizio e ha continuato a fare figli fino al 1953, quando mamma ha definitivamente detto: «Basta». Ed era basta per davvero. Ogni sera una tragedia. Si portava sempre a letto qualche figlio; o meglio: sempre la più piccola, Mimì – l’unica che abbia mai sbaciucchiato e che di nome vero, però, faceva Turandot – e se la metteva in mezzo per impedire a lui di saltare dalla parte sua. È una storia che è andata avanti anni, pure dopo arrivata la menopausa. Non il fatto di portarsi Mimì a letto, ma quello di non far saltare mio padre: «Oramai mi sono stomacata. Non riesco proprio a capire quelle che ci trovano gusto». Lui invece pare ce lo trovasse.
L’altra ragione era la Madonna. La chiesa restava categorica: ogni tentativo di sfangarla era peccato mortale, figuriamoci se mio padre e mia madre erano disposti a perderci il paradiso. E così, ogni botta una tacca. Ecco perché eravamo tanti. Troppi.
Per fortuna c’era stato padre Pio. Mia madre era andata a trovarlo subito dopo la guerra, nel ’44. O meglio: la guerra c’era ancora, ma su al Nord. Da noi era passata. E come era passata – nel giugno 1944 – lei era andata da padre Pio giù in Puglia. Con un pellegrinaggio di fortuna. Su un camion. Tutti sopra il pianale di legno. Una quarantina di persone ammucchiate. Tutti parenti. Sulle strade ancora piene di buche dei bombardamenti. Trecento e passa chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Sempre a sobbalzare su quel pianale di legno. Ed era incinta di sei mesi. Col pancione. Sobbalza qui, sobbalza là, appena è tornata a casa – dopo la benedizione di padre Pio – ha abortito di aborto naturale. Padre Pio ci ha fatto la grazia. Se no invece di sette eravamo otto.
Comunque sono tornato. M’aspettavo abbracci e baci. Invece non m’ha nemmeno salutato. Stava arrabbiata come una bestia. Ha sbrigato con due chiacchiere fratel Pippo e lo ha mandato via. Ha fatto finta di dirgli: «Vuol mangiare con noi?». Ma quello in quanto a mangiare aveva già mangiato la foglia: «No grazie, non tengo fame. Sia lodato Gesucristo», m’ha fatto una carezza sulla testa e via. Mi sono ritrovato là. Con tutti che mi guardavano storto. «Cominciamo bene», ho pensato.
M’ha portato in camera. Ha aggiunto una rete: «Questo è il letto tuo». Ha liberato un cassetto del comò, riversandone la roba in un altro: «Svuotaci la valigia» e se ne è andata. È arrivato Manrico: «M’hai fregato il cassetto, eh?». E lì ho capito subito chi sarebbe stato la rovina mia.
Era il cocco di mamma ed erano anni che non lo vedevo. Non ci eravamo mai incrociati. Quando c’era uno non c’era l’altro. A dieci anni – quando io ne avevo cinque – era partito lui per il seminario. Era stato il primo, aveva aperto la strada. Mio padre, a dire il vero, ci aveva provato anche con Otello, il più grande, ma quello non aveva abboccato. Li aveva portati tutti e due al San Tarcisio, un collegio dei salesiani, e gli aveva fatto vedere il campo di calcio, quello di pallacanestro, il ping-pong. E gli aveva comprato un sacco di caramelle. Alla sera, alla fine, se n’era uscito: «Vi piace qua? Guardate come è bello, ci volete restare?»
«Papà», aveva risposto Otello, «a me non mi piace per niente. Riportami subito a casa». Manrico invece sì: «Mi voglio fare prete», e ha inguaiato pure me.
È entrato in seminario. Ma non al San Tarcisio dai salesiani, che stava a Roma. È andato a Siena dai vincenziani, perché erano missionari e lui voleva andare a convertire gli africani. È stato lì cinque anni e a mio padre e mia madre chissà che gli pareva. Non era solo un modo per farlo studiare, desideravano proprio un figlio prete. C’era già nostro cugino Pericle in seminario, ma a loro non bastava, era almeno un figlio che volevano «donare al Signore». Era la massima grazia che potessero chiedere al Padreterno, e a lui – a mio padre – brillavano gli occhi mentre lo diceva. Mia madre invece sembrava triste e sconsolata, e a me e Violetta – quando le chiedevamo «Mamma, a chi vuoi più bene?», sperando ognuno di essere il prescelto – regolarmente ci gelava: «A Manrico che è lontano, perché l’ho donato al Signore». Quel cavolo di Signore. Che altro potevo fare?
Mio padre, almeno, tutte le volte si smarcava: «Se ti taglio un dito, quale farà più male, l’indice o il medio?»
«Sarà uguale».
«Ecco» rifaceva lui, «i figli è lo stesso. Non ce n’è uno che gli vuoi più bene e a un altro meno. Sono tutti uguali». Ma né io né Violetta gli abbiamo mai creduto.
Lui poi si dava un sacco di arie – mio fratello – quando una volta l’anno veniva a casa in vacanza, quindici giorni d’estate, con la tonaca nera. Parlava mezzo senese e appena aprivo bocca mi diceva: «Sciocchino».
«Aspetta tu, quando mi faccio prete io» pensavo.
Andavano a trovarlo a Natale e Pasqua, una volta mio padre e l’altra mia madre. Partivano la mattina presto della vigilia. Pigliavano la messa nella cappella di Stazione Termini e tornavano il giorno dopo. Una volta, a Natale, per farmici prendere confidenza hanno portato pure me, poiché oramai era deciso che l’anno dopo sarei partito anch’io. Ma quando siamo arrivati a Siena dentro il seminario – e lui ci è corso incontro – appena m’ha visto s’è sbiancato: «Perché avete portato Accio? Io volevo Violetta».
Così l’anno dopo sono partito. Dai vincenziani ovviamente, perché dovevo convertire gli infedeli. Volevo andare in Africa nel Congo, oppure a Molokai. Però le richieste erano parecchie, all’epoca, e Siena gli si era riempita. La prima e seconda media le avevano spostate a Zagarolo, vicino Roma, in una tenuta in aperta campagna – Colle Palazzolo si chiamava – e così mio padre adesso ne aveva due di doni del Signore, uno a Siena al quinto ginnasio e l’altro a Zagarolo, e nessuno era più contento di lui: «È un sacrificio che faccio volentieri», confidava ai suoi amici della Corale San Marco. Ma a me pare che il sacrificio lo facessimo tutto noi. Mi pare adesso, naturalmente, mica allora; allora mi pareva che non ci fosse scelta, dovevo diventare santo e basta.
La prima sera m’ha preso lo sconforto, dentro quel letto. Ero un ragazzino di dieci anni, e mi sono rincantucciato sotto le coperte, coprendomi bene la testa per non sentire quelli che piangevano dentro gli altri letti, e che facevano venire voglia di piangere anche a me. Uno lo avevano portato dal paese con la macchina a nolo, perché a quei tempi non c’erano mezzi, e quando la macchina ha scaricato i bagagli ed è ripartita e hanno chiuso il cancello, lui ha tentato di corrergli dietro, sbatteva i pugni addosso alla lamiera del cancello, e piangeva e strillava mentre padre Cavalli lo teneva. Poloni invece lo aveva accompagnato il padre con la lambretta da Ascoli Piceno. Duecentocinquanta chilometri. Pure a me m’aveva portato mio padre. Con il treno. Mia madre non s’è manco scomodata: «Mimì è piccola, chi la tiene?». Padre Cavalli la tiene.
E mi sono messo a pregare, dentro a quel letto. Avemarie a rotta di collo e Padrenostri: «Dio fammi la grazia: fa’ che domani mi sveglio e ho già ventiquattr’anni e m’hanno appena fatto prete». La mattina invece mi sono ritrovato a punto e a capo: da solo in mezzo al seminario. Anzi non in mezzo, ma proprio all’incomincio. E ci sono rimasto deluso. Non tanto perché stessi lì, ma perché non m’aveva fatto la grazia. La sera prima ci avrei giurato, ero sicuro. Nell’Isola misteriosa, quando Pencroff apre la Bibbia a caso e gli capitano i versetti «Chi cerca trova / Bussate e vi sarà aperto», il giorno dopo trovano subito la cassa con tutti gli attrezzi. «Bussate e vi sarà aperto» era per me verità di Dio, e ho bussato tutta la notte anche in sogno. Sognavo mia madre e le dicevo: «Bussa anche tu, e bussa forte». Ma manco col bastone.
Il primo anno, però, bene o male ci sono stato. Certo ho fatto fatica ad abituarmi, ma anche gli altri stavano messi come me. Eravamo una cinquantina. A mangiare si mangiava bene: primo, secondo – che a casa non sapevo nemmeno cosa fosse – e certe volte il budino al cioccolato fatto dalle monache col latte che portava il mezzadro. Abbiamo imparato a servire messa, tutte le preghiere in latino, i canti – O via vita veritas, O salutaris hostia – e le regole della buona educazione, come mangiare a bocca chiusa senza fare schiocchi e rumori: «Perché mica sta bene» ammoniva padre Tosi, «che un missionario vada in giro a sbrodolarsi la tonaca come un prete di campagna».
Ogni giorno al pomeriggio – durante una pausa dallo studio – ci leggeva e spiegava per benino un brano del Galateo di monsignor Della Casa. Ma ci raccontava anche altre storie, soprattutto di morti apparenti. Come quella di uno al paese suo, quand’era giovane, che gli era preso un colpo apoplettico subito dopo la sfilata del sabato fascista. Stava all’osteria con la divisa da gerarca, quando gli era venuto il colpo, e lo avevano seppellito così, con tutta la divisa. Dopo qualche anno, non so perché, lo avevano dovuto disseppellire; forse per spostarlo di tomba. Ma appena aperta la cassa lo avevano trovato con la baionetta infilzata nello stomaco: «Dev’essersi svegliato» spiegava padre Tosi, «e s’è ritrovato là. Si deve essere disperato, ha preso la baionetta e s’è suicidato. Adesso sta all’inferno». Oppure di quell’altro che era una specie di santo. Morto da giovane, ma in odore appunto di santità. Avevano cominciato il processo di beatificazione e stava andando tutto bene: testimonianze, opere pie e qualche miracolo. Per la consacrazione mancava solo l’esame della salma. Ma quando lo hanno scoperchiato stava con gli occhi aperti e con le mani sbarrate sul coperchio della cassa, a tentare d’aprirla e riuscire a scappar fuori. Lo hanno richiuso subito e non se n’è parlato più: «Deve essersi svegliato e poi è morto lì. Ma chissà cosa deve avere pensato in quei momenti. Certo deve avere disperato di Dio. E non lo hanno più fatto santo». Queste erano le storie che ci raccontava. Era fissato, e faceva fissare anche noi.
Comunque il primo anno è andata. Latino ce lo insegnava padre Cavalli e m’è subito piaciuto; il latino, non padre Cavalli. Lui era il Superiore, quello che comandava tutto. S’era fatto prete a trentasei anni. Prima era avvocato e pure fidanzato. A un certo punto hanno deciso assieme, lui e lei: uno prete e l’altra suora. E si scrivevano ancora. Durante la guerra era stato tenente in Jugoslavia e certe sere, a ricreazione, ci facevamo raccontare tutta la storia.
Dopo l’8 settembre lo avevano preso i tedeschi e messo in campo di concentramento a Wyala Pollawska, in Polonia. Una fame nera. Una volta – in previsione del Natale – s’erano incaponiti a mettere da parte una patata al giorno e un ricciolo di burro a testa, a partire da novembre, per fare un bel pranzo di Natale. E ci si sono fatti un purè gigantesco, si sono spanzati. Ma lo stomaco non era più abituato e sono stati male. Il giorno dopo i tedeschi li hanno riempiti di calci, perché nessuno era in grado di andare a lavorare.
«In guerra, Padre, ha ammazzato qualcuno?» gli abbiamo chiesto una volta.
«Spero di no» ha risposto, ma ci ha messo un po’ di tempo, non è stato veloce come al solito. «Una volta, dietro un fosso, ho dovuto sparare» ha aggiunto, «perché dall’altra parte c’erano i partigiani e io comandavo i miei uomini. L’ho dovuto fare. Ma prego Dio di non aver colpito nessuno».
«E la vocazione?»
«La vocazione l’ho avuta in Jugoslavia, in una chiesetta su in montagna. Ero demoralizzato. Chissà se torno a casa, mi dicevo. Ho visto la chiesina, poco più d’una capanna. Sono entrato. Non c’era nessuno. Mi sono messo a pregare. M’è venuta una pace che ho detto: se torno a casa mi faccio prete».
Poi a Wyala Pollawska sono arrivati i repubblichini, hanno radunato i prigionieri italiani e annunciato: «Chi vuole riprendere a combattere per l’Italia e per il Duce, a fianco all’alleato germanico, faccia un passo avanti». E lui lo ha fatto. Lo hanno mandato in un campo di addestramento in Germania – divisione Monterosa, credo – rimesso la divisa e dati i gradi. Ma prima di ripartire per l’Italia gli hanno fatto fare il giuramento. «Io però» diceva padre Cavalli, «un giuramento lo avevo già fatto al re e non me la sentivo, con tutto il bene che gli volevo, di farne un altro pure a Mussolini». Così è rimasto zitto, ha alzato solo il braccio ma non ha fiatat...

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