Ore 7, suona la sveglia. È tempo di alzarsi, un’altra lunga giornata ci aspetta. Dopo la colazione, Giulio si lava e indossa la T-shirt e i jeans che ha scelto dall’armadio, poi prende lo zaino con i libri. Siamo pronti per presentarci alle 8, prima del suono della campanella, in aula. Ci resteremo fin verso le 13, poi di nuovo a casa.
Il nostro programma pomeridiano, oltre ai compiti e allo studio, può includere una nuotata in piscina, la lezione di ippoterapia e magari anche un giro per negozi, per sgranchire i muscoli e scaricare la tensione. Al rientro, un quarto d’ora al pianoforte, poi, dopo cena, mio figlio ascolta un po’ di musica al pc o guarda i trailer dei suoi cartoni animati preferiti. Infine, entro le 22.30 lui va «a nanna», come gli piace dire.
Io e Giulio condividiamo quotidianamente circa quindici ore e mezzo, sette giorni su sette. Naturalmente nella mia vita ci sono anche mia moglie e gli altri figli, i compagni di classe e gli insegnanti, le persone che incontriamo nei nostri giri pomeridiani... Ma la mia vita attuale di papà -coach ruota fondamentalmente intorno a lui. Solo di notte, quando si addormenta, posso dedicare qualche ora a me stesso, ritagliandomi del tempo per una lettura piacevole, un giro su internet o per scrivere. Il libro che avete in mano è nato durante le mie ore notturne di libertà .
Sono ormai tre anni che il mio ruolo è quello di papà -coach a tempo pieno di Giulio. Con tutto l’amore che provo per mio figlio, non sempre è una vita facile. Quando stai dedicando ogni energia a un ragazzo in difficoltà , la speranza che ti muove è quella di poter vedere ogni giorno qualche progresso che compensi i tuoi sforzi. Ci sono, tuttavia, le giornate no, quelle in cui l’umore di mio figlio è inverso e lui tende a rispondere negativamente a ogni richiesta. Smuoverlo è impossibile, perché lotta con tutte le sue forze, psicologiche ma spesso anche fisiche, per opporsi. La mia resistenza è messa a dura prova e, se dessi retta all’istinto, staccherei la spina e mollerei tutto. Nelle giornate positive, invece, mi sembra di poter trasmettere la carica a Giulio, che a sua volta, con i suoi piccoli successi, restituisce nuova energia a me. È un circuito virtuoso, in cui i nostri cuori battono all’unisono.
È come se mi ritrovassi a tessere un’enorme tela di Penelope: ci sono giorni in cui il lavoro procede bene e sento che facciamo progressi. Altre volte, invece, basta un momento di instabilità e mi sembra che si disfi tutto, vanificando ogni sforzo precedente. Mi rendo conto che è solo la forza dall’amore a infondermi il coraggio di ricominciare da capo, con pazienza. Una bella fatica per chi, come me, non ha un programma prestabilito da seguire, in cui credere ciecamente, né si sente mosso dalla voce di Dio... Vivo la vita momento per momento e tiro le somme a fine giornata.
La decisione di mollare tutto per dedicarmi totalmente a Giulio è maturata nel tempo, poco alla volta. Non è stata una folgorazione – non sono mai stato a Damasco e non sono religioso – né una costrizione impostami da chissà chi né, tanto meno, il desiderio di espiare una qualche colpa che sicuramente avrò, ma che non mi ha mai tormentato la coscienza.
La mia è stata una scelta sofferta ma ponderata, fatta seguendo le ragioni del cuore e dell’intelletto. Mi sono reso conto di essere a un bivio: continuare a vivere la mia vita come avevo sempre fatto, dedicando metà giornata al lavoro e l’altra metà a Giulio, oppure impegnarmi di più per lui, per riuscire a dare voce ai suoi pensieri. A spingermi in questa direzione, sono stati anche i progressi di mio figlio.
Alla fine della quinta elementare Giulio sa leggere e scrivere correntemente e riesce a imparare a memoria brevi strofe di poesie. Un giorno faccio una scoperta sorprendente. Avevo già notato che era in grado di fare operazioni aritmetiche con una certa facilità e, soprattutto, con grande rapidità , caratteristica che gli manca invece nello studio delle altre materie, viste le difficoltà di linguaggio. Un po’ per gioco, ricordandomi del film Rain Man con Dustin Hoffman che interpretava un uomo affetto da autismo, metto alla prova mio figlio su formule matematiche più complesse, senza l’ausilio della calcolatrice, e constato con grande meraviglia che Giulio riesce a far di conto con la stessa precisione e rapidità di un computer. Come faccia, non riesco proprio a spiegarmelo. E tanto meno ci riesce, ovviamente, mio figlio.
Giulio, negli anni delle elementari, ha fatto passi avanti anche dal punto di vista delle relazioni sociali. È contento di stare con gli amichetti e predilige la compagnia delle bambine, sicuramente più dolci e sensibili. Pur provando piacere a socializzare, non è mai lui a prendere l’iniziativa con i coetanei, a causa delle difficoltà di linguaggio, a meno che non si tratti di chiedere qualcosa che desidera. Gli viene, invece, più facile mettersi in relazione con gli adulti.
Nelle attività sportive, i risultati sono ottimi: nuota, va a cavallo, sfreccia in bicicletta e sul monopattino. A casa riesce sempre a esprimere attraverso la parola, in modo sintetico, le sue necessità , ma il suo vero talento è essere capace di farsi coccolare da tutti. Comunque non mi sento ancora soddisfatto dei progressi che Giulio ha fatto nell’uso del linguaggio, perché sono quelle sue carenze a penalizzare le relazioni sociali. D’accordo con la logopedista che lo segue, sviluppiamo un programma di lavoro per accrescere e rendere più complesse le frasi che riguardano le sue richieste. Un compito faticoso ed estenuante, che ancora oggi continuiamo a fare a casa.
Adesso, alla fine della quinta elementare, inizia per Giulio un nuovo di ciclo di studi. A settembre dovrà affrontare la scuola media, con insegnanti e compagni che non conosce. Per sondare il terreno, prendo appuntamento con una preside, alla quale prospetto la possibilità di far seguire mio figlio dalla stessa educatrice che, a spese nostre, lo sta affiancando dalle elementari. La risposta della dirigente scolastica è categorica: non è gradito alcun estraneo in classe. Non solo: sbaglio a permettermi di pensare di poter fare ciò che voglio in una scuola pubblica. E per concludere, la preside mi dice chiaro e tondo che, se desidero che Giulio continui gli studi, posso tentare con una struttura privata, perché mio figlio non è «adatto» a un istituto statale.
«Ma come è possibile?» mi domando dopo il colloquio. Il mio stato d’animo oscilla fra lo stupore e la rabbia. «È così che la scuola italiana vorrebbe migliorare?» mi chiedo. Io, però, non sono il tipo che rinuncia al primo rifiuto. Contatto un’altra media e incontro il preside, al quale presento la stessa richiesta. Stavolta mi trovo davanti una persona più ragionevole e la mia proposta viene accettata. Ma gran parte degli insegnanti sbuffano infastiditi, perché non va loro a genio avere intorno del personale estraneo a quello della scuola. Ricordo il commento della docente di italiano che, avendo saputo della presenza di un’educatrice esterna in classe, mi disse che si trattava della «tipica anomalia italiana», espressione con cui intendeva dire che nel nostro paese ognuno fa quello che vuole, senza rispettare leggi e regole.
La faccenda è davvero paradossale. Da una parte, i professori si lamentano perché manca il personale specializzato per realizzare un’autentica integrazione scolastica dei ragazzi con bisogni speciali. Ma quando i genitori, senza oneri per la collettività , mettono a disposizione della scuola dei professionisti per aiutare sia i docenti a relazionarsi con il ragazzo sia il proprio figlio a sviluppare le sue capacità , la loro presenza viene rifiutata. È evidente che spesso è più facile lamentarsi proprio per non dover cambiare, perché percorrere una nuova strada costa fatica e ad alcune persone non piace affatto stravolgere le proprie abitudini. Purtroppo, la voglia di migliorare le condizioni della scuola da parte di certi insegnanti è pari a zero.
A farne le spese sono, di nuovo, i ragazzi diversamente abili. In uno scenario del genere, noi genitori assistiamo impotenti a quello che sembra il prologo di un futuro, definitivo allontanamento dei nostri figli dall’istruzione. Il diritto allo studio pare riservato, secondo questi insegnanti, agli studenti che riescono più o meno a restar fermi nei banchi in relativo silenzio senza dare troppo fastidio, anche se la loro voglia di studiare e imparare è inesistente.
I mesi passano, l’educatrice fa di tutto per collaborare con gli insegnanti e attuare una strategia di intervento didattico a favore di mio figlio, ma sembra esserci in atto una sorta di silenzioso boicottaggio. Giulio è solo una presenza fisica in classe – un ragazzino seduto a un banco – ma gli insegnanti non hanno la minima intenzione di saggiare le sue capacità . L’unica eccezione è la professoressa di inglese, che lo interroga come gli altri, senza fare alcuna differenza. Giulio ricambia la fiducia, sforzandosi di dimostrare quanto ha imparato.
Eppure, quando studia a casa, questo allievo così poco considerato dai docenti è un ragazzino che commuove per il caparbio sforzo che compie per riuscire a trasformare il pensiero in parole. Al pomeriggio, seduto vicino a lui, sento la sua fatica, il suo impegno immenso per farcela e gli occhi mi diventano lucidi. Non sono un tipo dalla lacrima facile né sono mai stato morbido con Giulio. Sono un allenatore duro, che non arretra di un millimetro da quello che vuole ottenere, quando sa che si tratta di un obiettivo raggiungibile. È una logica che ho imparato dal mondo del calcio, uno sport che amo.
«Vincenzo, basta! Non maltrattarlo!» Quante volte mia moglie me l’ha ripetuto, sentendomi alzare la voce con lui!
Eppure, malgrado le difficoltà Giulio ce l’ha sempre fatta a dimostrarmi che può studiare come gli altri ragazzi. Il suo, non è un problema intellettivo, ma di linguaggio. I risultati ottenuti con la professoressa di inglese, che ha accettato la sfida di non discriminarlo dal resto della classe, concedendogli le stesse opportunità degli altri, ne sono la prova.
In quel periodo una domanda comincia a presentarsi spontanea nella mia mente, giorno dopo giorno, mentre studiamo. È un tarlo che mi si insinua pian piano in testa: «Se io fossi a scuola con Giulio, andrebbe diversamente?».
Mi rispondo da solo: «Certo che sì! Riusciremmo a far vedere a tutti loro chi è Giulio D’Aucelli e cosa sa fare!».
Provo a cercare sul web se, in qualche parte del mondo, c’è già stata un’esperienza simile a quella che sto immaginando: un padre che affianca suo figlio autistico negli studi, non solo a casa, ma anche sui banchi di scuola. Niente.
«È un’idea troppo stramba? Non realizzabile? Pericolosa? Estenuante? Possibile che nessuno abbia avuto la voglia di mettersi in gioco per dare al proprio ragazzo quel qualcosa in più che la scuola oggi, nonostante i passi avanti in tema di inclusione sociale, non riesce ancora a dare ai ragazzi con bisogni speciali come gli autistici?» Sono questi i pensieri che mi attraversano la mente.
L’esperienza di Giulio mi costringe a confrontarmi con una realtà sconfortante: le strategie didattiche elaborate per tirar fuori le abilità dei ragazzi autistici sono numerose e parecchi sono gli educatori che privatamente lavorano bene e tanto, ma la scuola e l’università sono rimaste al palo. Pochi insegnanti di sostegno, scarso o nullo l’aggiornamento sui nuovi bisogni di certi alunni, e un fitto turnover che impedisce la continuità didattica indispensabile per una conoscenza più profonda del ragazzo. Lamentarsi, però, non serve a niente. Mio figlio non ha tempo di aspettare che le nostre proteste – le mie e quelle degli altri genitori – trovino ascolto in una società sorda e superficiale. E continuare a frequentare la scuola in quel modo serve a poco.
A questo punto decido di parlare con Cecilia della mia idea un po’ balzana, in grado però di rompere, se mai andasse in porto, certi schemi nella scuola.
Mia moglie non si esprime in maniera netta né a favore né contro. Condivide il mio ragionamento, ma allo stesso tempo è preoccupata delle conseguenze che una simile decisione potrebbe avere. Seguire Giulio tutto il giorno significa, in primo luogo, lasciare il lavoro a un’età ancora lontana dalla pensione e riuscire a stare in classe tante ore a contatto con dei ragazzini. In secondo luogo, non è scontato che l’inusuale presenza di un genitore durante le lezioni non infastidisca gli insegnanti, abituati da sempre a non essere giudicati da nessuno. In fondo, avevo già avuto occasione di saggiare le loro reazioni poco incoraggianti nei confronti dell’educatrice.
Da ultimo, c’è l’aspetto economico da non sottovalutare. Le mie eventuali dimissioni comporterebbero la perdita dello stipendio più alto della famiglia e, dunque, un cambiamento radicale del nostro tenore di vita. Io e Cecilia dobbiamo anche pensare al futuro di Giuseppe, all’epoca ancora studente universitario, e di Francesco, liceale.
«Smettila di fare voli pindarici» mi dice Cecilia in tono pragmatico. «Inizia a iscriverti all’università , prima di sognare di stare in classe con Giulio. Senza una laurea adeguata, non ti faranno mai varcare la porta della scuola come educatore di tuo figlio.»
Cecilia ha ragione. Ricominciare a studiare a cinquantatré anni con un lavoro e un figlio da seguire non è uno scherzo. È un banco di prova non da poco, ma le sfide non mi hanno mai fatto paura.
Questa discussione con Cecilia è, in realtà , il capolinea di un periodo in cui ci siamo confrontati in continuazione. Entrambi siamo insoddisfatti di come nostro figlio sta vivendo la scuola. Siamo preoccupati che l’autostima di Giulio, già bassa per i problemi di linguaggio, possa ulteriormente crollare portandolo a una maggiore chiusura.
Forse non è un caso che la mia voglia di prendere decisamente in mano la situazione sia scattata proprio il 2 aprile di cinque anni fa, nella Giornata Mondiale dell’Autismo. Per chi vive quotidianamente la realtà di una persona amata affetta da disturbo autistico, la Giornata è particolarmente importante, perché serve a svegliare le menti e le coscienze di tutti, a ribadire che essere diversi non significa essere da meno. Le luci blu accese ovunque nella ricorrenza ci rammentano che le vittime di questo male devono poter godere delle stesse opportunità e della stessa considerazione degli altri. Che hanno diritti che non dovrebbero essere ricordati e celebrati un solo giorno all’anno. Quel 2 aprile 2010 ho deciso che la mia luce blu sarebbe rimasta accesa tutti i giorni dell’anno, e per tutto l’arco della giornata, non solo part-time. Luminosa come un faro, avrebbe indicato la via, ventiquattro ore su ventiquattro, al mio Giulio.
Lo ricordo bene, quel giorno. Alle 6.30 del mattino, il sonno è brutalmente interrotto dalla sveglia. Mentre mi accingo ad andare in bagno per lavarmi, guardo pigramente fuori dalla finestra, attratto dal buio. Si preannuncia una giornata grigia, che rispecchia in pieno il mio stato d’animo. Lo sguardo si ferma su alcuni palloncini blu che la sera prima mia moglie ha appeso al balcone per celebrare la Giornata Mondiale dell’Autismo. Tira vento e i palloncini ballonzolano sulla ringhiera in modo disordinato, ognuno in una direzione diversa. Quei palloncini, tutti quanti blu, ma ciascuno con un movimento differente, mi ricordano ciò che i grandi esperti spiegano sempre sull’autismo: non c’è un caso uguale all’altro. Proprio come i palloncini messi in fila pazientemente da mia moglie sul balcone: uno troppo gonfio, l’altro troppo poco; uno immobile, l’altro che ruota vertiginosamente, perché più esposto alle folate di vento. Sono tutti di forma diversa, ma il colore è lo stesso: blu. Il mio pensiero non può permettersi il lusso di andare oltre, a quest’ora: sono ormai le 7, Giulio deve far colazione, vestirsi e poi andare a scuola.
Mentre viaggiamo in macchina mi accorgo che anche davanti all’ingresso di una scuola ci sono dei palloncini blu. Ad attirare la mia attenzione, però, è uno striscione semidistrutto dal vento su cui campeggia lo slogan DIAMO VOCE AL SILENZIO. Prendo spunto da questa frase, che è un grido di vendetta contro l’indifferenza della nostra società , per scherzare con Giulio. Abbasso per un attimo il volume dell’autoradio – mio figlio adora ascoltare le sue canzoni preferite a un volume che farebbe invidia a una discoteca – e gli dico: «Leggi un po’ cosa c’è scritto, c’è chi vuole dare voce al silenzio, mentre io lotto per far stare in silenzio una voce, la tua, perché tu non stai zitto neanche un secondo!».
Rido da solo. Giulio mi guarda e vede che sto ridendo. Non penso che abbia capito la battuta, ma non importa, perché gli è bastato vedermi di buon umore per partecipare all’allegria. Si lancia in una grande risata accompagnata da una serie di salti sul sedile, come se fosse in sella a un cavallo da domare, e gira la manopola del volume al massimo.
Quasi mi pento della mia iniziativa, perché adesso mi tocca richiamarlo all’ordine e calmarlo, visto che siamo ormai arrivati davanti alla scuola. Le luci blu si smorzano il 2 aprile, a mezzanotte. L’indomani è tutto finito e la società torna a correre a ritmi frenetici dimenticandosi di coloro che non riescono a tenere la stessa velocità . Si spengono i riflettori sui convegni e sulle manifestazioni, e a nessuno importa che quasi un bambino su cento presenti sintomi che rientrano nello spettro autistico. La mia luce blu, invece, d’ora in poi resterà sempre accesa.
Ripenso a quanto mi ha detto mia moglie e le do ragione. Perché il mio progetto possa andare in porto, mi serve una laurea adeguata, altrimenti non sarò mai ammesso come educatore.
Il 23 dicembre 2010 io e Giulio, che all’epoca frequentava la seconda media, ci presentiamo allo sportello della facoltà di scienze della formazione, all’università di Bari. Sono in ritardo con l’inoltro della domanda a causa di problemi di lavoro che mi hanno tenuto lontano da casa per diversi giorni, ma il destino mi è favorevole: la mia richiesta di iscrizione viene accettata.
No...