Qual è il mistero dell’alchimia? La più perfetta di tutte le vie, quella che è fatta per completare l’opera, per portare a compimento il lavoro della creazione.
Così l’hanno concepita i sapienti – “i filosofi” come amavano chiamarsi gli alchimisti – che sapevano operare nel segreto, nel silenzio, lontani dal pensare del gregge, dove l’opinione comune è dominante.
“La via semplice”, come la definiva Giuliano Kremmerz, che ha nella materia la sua chiave, il suo operare.
Ragionavano così gli alchimisti: se nell’Universo esistono i corpi (delle piante, degli animali, degli uomini), deve esistere una legge che “fa” i corpi a sua immagine e somiglianza...
Il Demiurgo voleva questo mondo così com’è, non aveva in mente mondi migliori, paradisi da raggiungere.
Lo voleva con la coscienza e il fango, con la luce dell’intelligenza e la terra. Qualsiasi idea abbiamo dello spirito, l’alchimista lo pensa come una sostanza, diluita fin che si vuole, ma sempre sostanza.
Mai ha immaginato uno spirito separato dalla materia... Che ne sa l’uva che, lavorata da mani sapienti, può diventare vino?
Che ne sa il corpo dell’uomo che, se opportunamente manipolato, è in grado di produrre il suo fermento più sottile, qualcosa che contiene e che neppure immagina di possedere? Che ne sa un seme della sua capacità di produrre la pianta intera?
Una piccola ghianda è in potenza o, meglio, ha la potenza, il potere di trasformarsi in quercia. Il seme di tutti gli esseri viventi produce i corpi del mondo: questa è una legge a cui nessuno può sottrarsi. L’alchimista lo sa bene.
Nel silenzio, nel buio della terra, nell’assenza di luce, nell’utero di una donna, nel mistero di un uovo nasce la vita. L’alchimista si attiene a questa legge. Non si sottrae al mondo perché lo ritiene impuro, come fa il mistico. Sta nella vita di tutti i giorni, nel frastuono, tra le cose, come se niente fosse, come se non apparisse. Non c’è un compito che si dà, non c’è un dovere che cerca di espletare. Si occulta perché vuole assomigliare al seme, non vuole interferire. Vuole lasciare fare alla sua forza germogliante. E aspetta.
È misterioso, poiché solo nel mistero c’è l’energia giusta perché le cose accadano e la ghianda si faccia quercia.
Come il seme non sa, eppure fa la pianta, anch’egli ama lo stato di non sapere, si affida al Nulla come a quella terra che nutre l’essere che sta nascendo.
Il vero alchimista gioca a nascondino con se stesso. Sa che i tesori, i diamanti, le pietre preziose, stanno profondamente nascoste nella miniera, cioè nel corpo dell’uomo.
Che cos’è la coscienza? Qual è la sostanza del mondo? Nessuno può non accorgersi che siamo coscienti, che percepiamo la nostra presenza al mondo. Ma conosciamo per davvero la coscienza? Oppure siamo sempre offuscati, avvolti in un nero di seppia che non ci fa vedere il mondo com’è?
Il peggiore dei neri di seppia è l’orgoglio, l’idea cioè che noi esistiamo per davvero, che siamo unici, diversi, speciali.
Ancora peggio sono le opinioni e le convinzioni. Chi può dire di vivere senza giudizi, senza opinioni? Di ogni cosa ci facciamo un’idea.
Altrettanto terribile è l’umiltà, che nasconde protervie, superbie immense. L’umile si traveste da agnello per tenere a bada il lupo che lo abita. Più di tutti, bisogna diffidare di coloro che dicono che vogliono diventare buoni, che parlano di come si deve essere buoni, che vogliono migliorare.
Lo saranno sempre secondo i modelli che si sono messi in testa. E le religioni, nel propinare modelli, sono maestre.
Ma la coscienza, se esiste, come tutto deve svolgere una funzione. Difficile conoscerla se siamo assorbiti da intenzioni, di cui forse la peggiore è quella del bene. Il potere della coscienza, di questo piccolo infinito corpo che è nel corpo, si può evidenziare solo se muoiono le credenze (tutte), le opinioni, le intenzioni.
La più velenosa di tutte quelle cose che chiamiamo “virtù” è la fede. La fede in qualcosa o in qualcuno, in un Dio per esempio, è anti-alchimistica. Il Saggio vuole vedere quello che c’è, la natura così com’è. Non vuole credere, perché sa che credere significa offuscare.
Offuscare è tradire, inibire i poteri della coscienza. “La coscienza che non sa” è la sua via, mai la fede in qualcosa o in qualcuno.
È facile e vile avere fede in un’immagine, in un Dio che si conosce.
La fede che conta, semmai, è quella di chi si affida all’ignoto. “Sia quel che sia!” è il motto dell’alchimista.
Pratico, faccio e spero. Questo affidarsi al Nulla non è romanticismo, ma una legge energetica che l’alchimista fa propria. L’alchimista non fa nulla coscientemente che non produca effetti pratici, che non poggi su una legge cosmica. Ragiona come la Natura.
Non c’è niente di più pratico dell’alchimia.
La domanda è questa: non pensando, non ragionando, affidandomi al Nulla, sortiranno effetti? Chi ha fede in Dio proietta se stesso, il suo orgoglio, la sua onnipotenza in una figura che non è nient’altro che la propria immagine resa perfetta. Senza immagini, aspettando ciò che arriva e mai fidandosi dei sogni, l’alchimista muove i propri passi.
A che cosa servono gli alambicchi, le storte?
Non è il corpo dell’uomo il laboratorio, la materia? Perché cercare fuori ciò che già possediamo? Non siamo corpi della creazione?
Gli uomini sono metalli vili – dicono gli alchimisti – ma contengono l’oro: si tratta di estrarlo.
Il procedimento? Semplice e segreto, dicono i Saggi. Ma a noi piacciono l’esoterismo, i maghi che volano, i miracoli, i medium... insomma, le illusioni.
Così siamo seduti su pietre preziose che possediamo e che non estraiamo. Non è un miracolo che un seme si trasformi in pianta? Chi lo sa fare? La Natura è perfetta così com’è. Lo sapeva Spinoza e gli alchimisti ne fanno il loro motto.
Com’è avvenuta l’evoluzione? Dal Nulla, dal Caos, dalla necessità si arriva a una scimmia che, via via, si fa uomo.
Tutte le forme animali hanno un abbozzo di cervello, tutte possiedono qualcosa che assomiglia agli occhi, tutte hanno organi per sentire vibrazioni e suoni.
L’Universo fa lo stesso ovunque con occhi, naso, bocca, orecchie e genitali. E ogni organo è tenuto a debita distanza dagli altri. Proporzionalmente occhi e genitali conservano distanze analoghe in tutte le forme animali. Chi non ha il cervello, ha comunque strutture primordiali nervose. Nel Caos c’era un’“energia” pronta a trasformarsi in occhi, orecchio, naso, bocca, genitali. Non solo! Era così intelligente da mettere ogni funzione al posto giusto.
“Qualcosa” sapeva ciò che andava fatto, come procedere nel formare i corpi del mondo. Lo sapevano già le piante che nel seme avevano l’abbozzo del futuro cervello dell’uomo. Il seme – cervello dell’albero – non ha fatto altro che mettersi il naso, la bocca, le orecchie per preparare l’avvento dell’uomo.
Chiamiamo identità quello che riconosciamo come nostro. Vale a dire la nostra storia, il figlio che siamo dei nostri genitori, e tutte le definizioni che diamo di noi stessi.
“Sono geloso, possessivo, aggressivo, triste, invidioso, furioso” usiamo dire tra l’altro per raccontarci. Niente di più falso.
C’è più identità in una goccia di sangue, di sperma o di mestruo. C’è più sapere in un frammento di tessuto che nelle banali definizioni che diamo di noi stessi.
Ci definiamo in base ai modelli o a quello che abbiamo assorbito dall’ambiente, dalla famiglia, dalla televisione.
Eppure qualcosa dentro di noi compie miliardi di azioni e reazioni senza che ce ne accorgiamo.
Mi crescono i capelli, le unghie, le ossa... le cellule si sfaldano e rinascono, il cuore batte, gli occhi vedono, senza che me ne accorga.
L’identità più profonda, evidentemente, non sa che farsene del fatto che io me ne accorga, che io sia consapevole di ciò che accade nel mio corpo. La mia vita, la nostra vita, si erge su energie sconosciute, che non “vogliono” essere viste, neppure da chi le contiene.
È chiaro che non sono “nostre”, eppure svolgono funzioni mirabili. A queste energie sconosciute dobbiamo la vita e la nostra vera identità. Bisogna che la smettiamo di dirci come siamo e come dobbiamo essere: non vorrei che queste forze che ci abitano si adirassero e si liberassero di noi. Loro sanno che cosa fare, noi sappiamo solo parlare!
Di che...