
- 322 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Lo specchio delle spie
Informazioni su questo libro
Il servizio di spionaggio militare non serve più, e sopravvive ormai con scarsi mezzi e pochi uomini. Gli agenti migliori, la gloria e i soldi sono tutti per il dipartimento di George Smiley. È così dalla fine della guerra. Il sospetto che una base missilistica segreta stia per entrare in funzione nella Germania orientale sembra però mutare il corso della storia. Tocca ai militari organizzare la missione oltrecortina, è compito loro scegliere e addestrare l'uomo giusto. Anche se tutto è diventato terribilmente più sofisticato, più difficile, più rischioso... Un appassionante intreccio di grandi rischi e di miseri antagonismi. Un romanzo crudele, imprevedibile e amaro.
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Informazioni
Print ISBN
9788804500070eBook ISBN
97888520666271
LA MISSIONE DI TAYLOR
Sciocco è colui che tenta di forzare l’Oriente.
RUDYARD KIPLING
I
La neve copriva l’aeroporto.
Era venuta dal Nord, nella foschia, spinta dal vento notturno, odoroso di mare. Sarebbe rimasta tutto l’inverno, una polvere sottile, gelida, granulosa che non si scioglieva, era statica, come un anno senza stagioni. La nebbia mobile, simile al fumo della guerra, pendeva al di sopra, inghiottiva un hangar, la baracca del radar, gli apparecchi, per abbandonarli poi un poco alla volta, pezzo per pezzo, scoloriti, nere carogne in un deserto bianco.
La scena non aveva profondità, distanza o ombre. La terra era tutt’uno col cielo, figure e case prigioniere del gelo, come cadaveri in una valanga.
Oltre l’aeroporto, niente; neanche una casa, una collina, una strada, nemmeno una palizzata, un albero, soltanto il cielo che premeva sulle dune, la nebbia roteante che si sollevava sulla fangosa spiaggia baltica. Nell’interno, chissà dove, c’erano le montagne.
Un gruppo di bambini coi berretti della scuola si affollavano davanti alla lunga finestra osservatorio e chiacchieravano in tedesco. Alcuni vestivano indumenti da sci. Taylor guardava fuori annoiato, con un bicchiere nella mano inguantata. Un ragazzo si voltò a fissarlo, arrossì e sussurrò qualcosa agli altri. Tutti tacquero.
Taylor scoprì l’orologio con un ampio arco del braccio, per scostare la manica col suo tepore britannico e anche perché era il suo stile. Voleva dicessero: un militare, buon reggimento, buon club, un po’ consunto dalla guerra.
Le 4 meno 10. L’aeroplano era in ritardo di un’ora. Presto l’altoparlante avrebbe annunciato il motivo. Si domandò che cosa avrebbero detto: ostacolato dalla nebbia, forse, decollo ritardato. Probabilmente non sapevano, e certamente non l’avrebbero ammesso, che l’apparecchio si trovava fuori rotta di duecento miglia a sud di Rostock. Finì di bere e si voltò per sbarazzarsi del bicchiere vuoto. Doveva ammetterlo, alcuni beveraggi stranieri, bevuti nel loro paese, non erano affatto male. In quel posto, con un paio d’ore da ammazzare e dieci gradi sotto zero dall’altra parte della finestra, avrebbe potuto capitargli qualcosa di peggio dello Steinhäger. Avrebbe fatto in modo che l’ordinassero all’Alias Club, quando fosse tornato. Una vera sensazione.
L’altoparlante ronzava, poi tuonò all’improvviso, tacque e riprese, col tono giusto. I bambini lo guardavano pieni di aspettativa. Prima l’annuncio in finlandese, poi in tedesco e ora in inglese. La Northern Air Services era spiacente di dover comunicare che il volo charter due-nove-zero da Düsseldorf era in ritardo. Nessun accenno di quanto, nessun accenno al perché. Probabilmente non lo sapevano neanche loro.
Ma Taylor lo sapeva. Si domandò che cosa sarebbe accaduto se si fosse avvicinato alla piccola hostess impertinente nella cabina di vetro e le avesse detto: il due-nove-zero impiegherà ancora un bel po’, mia cara, è stato spinto fuori rotta da forti venti settentrionali sopra il Baltico, direzione Ade. La ragazza senza dubbio non gli avrebbe creduto, avrebbe pensato che fosse matto. Più tardi si sarebbe resa conto che Taylor era qualcuno di piuttosto insolito, qualcuno di piuttosto speciale.
Fuori incominciava già a far buio. Il terreno era più chiaro del cielo; le piste sgomberate risaltavano contro la neve, simili ad argini, macchiate dalla luce color ambra dei riflettori. Negli hangar più vicini, tubi fluorescenti davano agli uomini e agli aeroplani uno squallido pallore. Il terreno prese vita per un attimo mentre il raggio della torre di controllo l’attraversava. Un’autopompa si era staccata dalle officine sulla sinistra per raggiungere le tre ambulanze già ferme nella pista centrale. Accesero simultaneamente i fari azzurri rotanti, ferme e allineate a lampeggiare il loro avvertimento. I bambini le indicarono, chiacchierando eccitati.
Si udì di nuovo la voce della ragazza dall’altoparlante, dovevano essere passati soltanto pochi minuti dall’ultimo annuncio. I bambini tacquero una seconda volta e ascoltarono. Il volo due-nove-zero aveva un ritardo di oltre un’ora. Altre informazioni sarebbero state comunicate man mano che fossero pervenute. Qualcosa nella voce della ragazza, una via di mezzo tra sorpresa e ansia, parve contagiare la mezza dozzina di persone sedute dall’altra parte della sala d’aspetto. Una vecchia signora disse qualcosa a suo marito, si alzò, prese la borsetta e raggiunse il gruppo dei bambini. Per un po’ di tempo scrutò attonita la penombra, ma poiché non ne ricavava conforto, si rivolse a Taylor e domandò in inglese: «Che cos’è successo all’aereo da Düsseldorf?». La sua voce aveva la modulazione indignata, di gola di un’olandese. Taylor scosse la testa. «Probabilmente la neve» rispose. Era un uomo di poche parole, si adattava al suo fare militaresco.
Taylor spinse la porta a molla e si diresse al piano di sotto, verso l’atrio. Vicino all’ingresso principale scorse la bandierina gialla della Northern Air Services. La ragazza al banco era molto graziosa.
«Che cos’è capitato al volo da Düsseldorf?» Parlò in tono confidenziale, dicevano che ci sapeva fare con le donne. La ragazza sorrise e alzò le spalle.
«Dev’essere a causa della neve. In autunno capita spesso che ritardino.»
«Perché non lo domanda in direzione?» suggerì Taylor, accennando al telefono sul banco.
«Lo diranno all’altoparlante. Appena sapranno qualcosa.»
«Chi è il capo, mia cara?»
«Prego?»
«Chi è il capo, il comandante?»
«Il capitano Lansen.»
«Ci sa fare?»
La ragazza era scandalizzata. «Il capitano Lansen è un pilota molto esperto.»
Taylor la squadrò da capo a piedi, sorrise e disse: «A ogni modo, mia cara, è un pilota molto fortunato». Dicevano che il vecchio Taylor la sapeva lunga. Lo dicevano all’Alias, il venerdì sera.
Lansen. Strano udire un nome, chiaro e preciso. Nel gruppo non lo si faceva mai. Preferivano le circonlocuzioni di tutti i generi, ma non il nome: il ragazzo Archie, l’amico volante, il tipo che fa le istantanee, il nostro amico del Nord. Adoperavano persino la complicata collezione di numeri e lettere con le quali era noto sulla carta, ma mai, in nessuna occasione, il nome.
Lansen. Leclerc gli aveva mostrato la fotografia a Londra: trentacinque, ma sembrava adolescente, biondo e di bell’aspetto. Avrebbe potuto scommettere che le hostess andassero matte per lui. In fondo erano soltanto carne da cannone per i piloti. Nessun altro si affacciava là dentro. Taylor passò rapidamente la mano destra sull’esterno della tasca del cappotto per assicurarsi che la busta ci fosse sempre. Non aveva mai portato addosso una somma come quella. Cinquemila dollari per un volo; millesettecento sterline, esenti da tasse, per sbagliare rotta sopra il Baltico. Però Lansen non lo faceva ogni giorno, era una faccenda speciale, l’aveva detto Leclerc. Si domandò che cosa avrebbe fatto la ragazza se si fosse appoggiato al banco e le avesse detto chi era, le avesse mostrato il denaro nella busta. Non aveva mai avuto una ragazza come quella, una vera ragazza, alta e giovane.
Tornò di sopra, nel bar. Il barman incominciava a conoscerlo. Taylor indicò la bottiglia dello Steinhäger sullo scaffale di centro e disse: «Le dispiace darmene un altro? Sì, quello, l’amico proprio dietro di lei. Il veleno locale».
«È tedesco» disse il barman.
Taylor aprì il portafogli e ne tolse una banconota. Nella busta di cellophan c’era la fotografia di una bambina di nove anni circa, con gli occhiali e una bambola stretta tra le braccia. «Mia figlia» spiegò al barman e il barman gli rivolse un sorriso di compiacimento.
La sua voce mutava molto, come quella di un viaggiatore di commercio. Il tono strascicato e fasullo era più marcato quando si rivolgeva a quelli della sua classe, quando si trattava di accentuare una distinzione che non esisteva o come in quel momento, quand’era nervoso.
Doveva ammetterlo: era ansioso. Strana situazione per un uomo della sua esperienza e della sua età, passare da incarichi di ordinaria amministrazione al servizio attivo. Roba per quei porci del Circus, non per la sua unità di certo. Una faccenda ben diversa del solito lavoro come corriere; solo e abbandonato, a miglia di distanza dal nulla. Non capiva proprio a chi fosse venuto in mente di mettere un aeroporto in un posto simile. In genere i viaggi all’estero gli piacevano: una visita al vecchio Jimmy Gordon ad Amburgo, per esempio, o una notte di baldoria a Madrid. Gli faceva bene allontanarsi da Joanie. Aveva fatto il circuito turco un paio di volte. Quella gente non gli piaceva, ma era sempre una delizia al confronto: viaggio in prima classe, bagaglio sul sedile accanto, un lasciapassare Nato in tasca. Con un incarico di quel genere si aveva una posizione, quasi all’altezza dei ragazzi della diplomazia. Questa volta era diverso e non gli piaceva.
Secondo Leclerc, si trattava di una faccenda grossa e Taylor gli credeva. Gli avevano fornito un passaporto con un altro nome. Malherbe. Pronunciato Mallaby, dicevano. Dio solo sapeva chi lo aveva scelto. Taylor non riusciva neanche a scriverlo: quel mattino, mentre firmava il registro dell’albergo, aveva combinato un pasticcio. La diaria era fantastica, naturalmente: quindici al giorno di spese attive, niente giustificativi. Aveva sentito dire che il Circus ne dava diciassette. Poteva cavarne un bel po’, comperare un regalo a Joanie. No, avrebbe preferito il denaro.
Glielo aveva detto, certo; non avrebbe dovuto, ma Leclerc non conosceva Joanie. Accese una sigaretta, aspirò e la tenne nella palma della mano, come una sentinella che fuma in servizio. Come diavolo poteva filarsela in Scandinavia senza dirlo a sua moglie?
Si domandò che cosa facessero quei bambini, appiccicati continuamente alla finestra. Straordinario come se la cavavano con quella lingua straniera. Guardò di nuovo l’orologio, ma non badò neanche all’ora e toccò la busta nella tasca. Meglio non berne un altro, doveva avere le idee chiare. Cercò di immaginare quel che faceva Joanie in quel momento. Probabilmente una seduta con un gin e qualcosa. Peccato che le toccava lavorare tutto il giorno.
All’improvviso si accorse che tutto taceva. Il barman stava immobile, in ascolto. Anche i vecchi seduti al tavolo ascoltavano, con le stupide facce rivolte verso la finestra osservatorio. Poi udì molto chiaramente il rombo di un apparecchio, ancora molto distante, ma si avvicinava all’aeroporto. Si diresse a passi veloci verso la finestra e si trovava a metà strada quando l’altoparlante attaccò. Dopo le prime parole in tedesco i bambini, come uno stormo di piccioni, corsero verso la sala di ricevimento. Il gruppo al tavolo si era alzato; le donne raccoglievano i guanti, gli uomini prendevano cappotti e borse da ufficio. Finalmente l’annuncio in inglese. Lansen stava per atterrare.
Taylor fissava il buio della notte. Non si vedeva traccia dell’aereo. Aspettò, mentre l’ansia cresceva. È come la fine del mondo, pensò, la fine del mondo infame, quaggiù. E se Lansen precipitava? E se avessero trovato le macchine fotografiche? Desiderò che al suo posto ci fosse qualcun altro: Woodford, perché non si era preso l’incarico Woodford o l’intelligente e colto Avery? Il vento soffiava con forza. Avrebbe potuto giurare che era sempre più forte, lo capiva dal modo in cui smuoveva la neve lanciandola sulla pista, scuoteva i fari, formava bianche colonne all’orizzonte, per poi distruggerle con veemenza, come se le odiasse dopo averle create. Una raffica colpì all’improvviso la finestra, facendolo indietreggiare. Il crepitio dei granellini di ghiaccio e il breve gemito dell’intelaiatura di legno. Guardò di nuovo l’orologio: era diventata un’abitudine.
Lansen non può farcela, mai.
Il cuore gli si fermò. Pian piano dapprima, poi crescendo rapidamente in un ululato, udì le sirene, tutte e quattro insieme, urlanti laggiù in quell’aeroporto dimenticato da Dio, come animali affamati. Fuoco… l’aereo si era incendiato. È in fiamme e tenta di atterrare… si voltò, frenetico, alla ricerca di qualcuno che potesse dirglielo.
Il barman gli stava accanto, intento ad asciugare un bicchiere e a guardare fuori dalla finestra.
«Che cosa succede?» gridò Taylor. «Perché le sirene?»
«Le mettono sempre in azione col tempo cattivo» rispose il barman. «Per legge.»
«Perché gli permettono di atterrare?» insistette Taylor. «Perché non lo dirottano più a sud? Qui è troppo piccolo, perché non lo mandano dov’è più grande?»
Il barman scosse la testa con indifferenza. «Non è poi tanto male» disse, indicando l’aeroporto. «Inoltre è molto in ritardo. Forse non ha carburante.»
Videro l’aeroplano basso sul campo, coi fari alternati sopra le fiaccole. I riflettori frugarono la pista. Era atterrato, sano e salvo. Udirono il rombo mentre percorreva il lungo tratto fino al punto di sbarco.
Il bar si era svuotato. Taylor, rimasto solo, ordinò da bere. Sapeva che cosa fare: resti fermo nel bar, aveva detto Leclerc, Lansen verrà a cercarla nel bar. Impiegherà un bel po’ di tempo, deve sistemare i documenti, sdoganare le macchine. Taylor udì i bambini che cantavano dabbasso, guidati da una voce di donna. Perché diavolo doveva essere circondato da bambini e da donne? Era un lavoro da uomo, con cinquemila dollari in tasca e un passaporto falso.
«Oggi non ci sono più voli» disse il barman. «Hanno sospeso tutti i voli.»
Tay...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Lo specchio delle spie
- Prefazione
- 1. La missione di Taylor
- 2. La missione di Avery
- 3. La missione di Leiser185
- Dossier George Smiley. a cura di Paolo Bertinetti
- Copyright