Santa degli impossibili
eBook - ePub

Santa degli impossibili

  1. 112 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Santa degli impossibili

Informazioni su questo libro

«Ho sempre pensato che a Milano sto bene, che è un posto da combattenti, da apolidi, una legione straniera. Che non saprei dove altro vivere. Ho fatto tutto qui: università, figli, matrimonio, lavoro. Milano mi somiglia. Parla poco, non ha tempo, sembra che non si affezioni a nessuno, ma non è così. Milano è come me, va di fretta e cerca di fare tutto meglio che può, nonostante se stessa.» Mila è stata una bambina amata e luminosa, una ragazza solitaria: oggi è la moglie di Paolo e la madre di Maddi e dei gemelli, una donna che ha perso il filo del suo destino. Un giorno cede a un impulso segreto, e si ritrova in ospedale. Qui incontra Annamaria, un'insegnante laica che, come le suore, ha fatto voto di povertà, castità e obbedienza. Tramite lei Mila torna in contatto con una figura straordinaria della sua infanzia, santa Rita, la santa degli impossibili, che ha attraversato i secoli con la forza della sua testimonianza: quella di una donna che - a nome di tutte le donne - riuscì a volare oltre ogni ostacolo grazie alla potenza magica di una passione inestinguibile. Attraverso un racconto asciutto e raccolto, Daria Bignardi dà vita a un personaggio inquieto, pieno di contraddizioni, segnato da un bisogno di trascendenza inespresso eppure capace di cogliere l'amore del mondo che silenziosamente ci può salvare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804655381
eBook ISBN
9788852065033

Parte prima

Mila

Oggi mi sono svegliata con l’herpes sul labbro, il quarto herpes della mia vita.
Ho cercato nell’armadietto del bagno lo Zerox, un tubetto alto quattro centimetri: c’è scritto di applicarlo per quattro giorni, quattro volte al giorno.
Io tra quattro giorni compio quarant’anni.
Il primo herpes mi ha sorpreso, ci ho messo un po’ a riconoscerlo. Non ho badato al calore che avvertivo in un angolo della bocca finché non è diventato bruciore e, guardandomi allo specchio, ho visto delle piccole vesciche rosa sopra il labbro.
Pensavo che il mondo si dividesse in quelli a cui vengono gli herpes e tutti gli altri. Mi era capitato di sbirciare con compatimento quei poveretti difettosi e marchiati, ed ecco che ora toccava a me.
Dopo quel battesimo ho continuato a pensarmi una a cui non vengono gli herpes. Così, quando l’anno dopo mi è tornato, proprio nello stesso punto, mi sono limitata a spalmare la pomata che mi ha prescritto la farmacista bionda di via Coni Zugna e due gocce di Tea Tree Oil, l’olio antisettico che metto dietro le orecchie dei gemelli perché non prendano i pidocchi a scuola. Marco li ha presi lo stesso, Tito no.
A me i pidocchi non fanno impressione, ci ho fatto l’abitudine con Maddi. La prima volta che gliene ho visto uno sono inorridita. Era un po’ che si grattava la testa, e la madre di una sua compagna mi aveva avvisato che un bambino della loro classe li aveva, ma non avrei mai pensato che potesse prenderli proprio Maddi, la maniaca della pulizia. Sono corsa in farmacia e sono tornata a casa con un prodotto puzzolente, una schiuma da lasciare in posa sui capelli bagnati, gliene ho messa una montagna, ho coperto tutto con la cuffia di plastica, ho aspettato mezz’ora, le ho sciacquato la testa e poi, disgustata, ho rimosso col pettinino a denti fitti una decina di insetti morenti. Ho lavato a novanta gradi le lenzuola, passato il vapore su sciarpe e cappelli, fatto bollire pettini e spazzole. Dopo dieci giorni ho ripetuto il trattamento, tolto uova e piccoli pidocchi col pettinino, rilavato tutta la biancheria di casa. Sembravano spariti.
Quando dopo un mese l’ho vista grattarsi di nuovo ho sperato fino all’ultimo di sbagliarmi, invece erano tornati. La recidiva è stata angosciante e la terza volta, due mesi dopo, anche peggio. Paolo sembrava indifferente, lasciava a me ogni incombenza. La quarta volta l’ho accompagnata a tagliarsi i lunghi capelli biondi – eravamo entrambe in lacrime –, ma i pidocchi sono tornati anche coi capelli corti. La quinta volta li ha attaccati ai gemelli, la sesta a me. Passavo le notti a grattarmi la testa e avevo il collo pieno di puntini rossi, ma finché il dermatologo non mi ha detto, facendo un passo indietro, «Signora, lei ha i pidocchi» non ci volevo credere. I pidocchi a me? A Paolo non sono mai venuti. «Dipende dall’acidità del cuoio capelluto» ha detto la farmacista.
Dalla decima volta in poi – Maddi era ormai in quinta elementare – ho cominciato ad abituarmi. Non le mettevo più la schiuma chimica e tossica, ma un olio vegetale, e le passavo il pettinino a denti fitti tra i capelli ogni giorno. Quasi sempre trovavo uova, larve e pidocchi. Quelle battute di caccia erano diventate un momento nostro, e tanto più grosse erano le prede tanto più ero soddisfatta. Quei momenti di intimità con Maddi – restavamo chiuse a lungo in bagno per non farci scoprire dai gemelli – cominciavano a piacermi.
Avevamo un gergo: «Vieni che ti spulcio», «È ora di spulciarsi», e quando uscivamo insieme, in ogni istante di pausa – alla fermata del tram, in coda a una cassa per pagare – mi veniva spontaneo scrutarle il cranio, frugarle la radice dei capelli, sfilarle un uovo minuscolo.
«Sembri una scimmia» commentava Paolo.
Quando per quattro volte di seguito il pettinino non ha trovato nulla abbiamo festeggiato la fine della guerra con grandi manate a cinque dita e urla di gioia, ma adesso quasi mi mancano quei momenti solo nostri, le battaglie che abbiamo combattuto insieme.
Paolo ne è sempre rimasto fuori: una volta mi ha addirittura rimproverato di umiliarla con le mie «tragedie sui pidocchi», dicendomi bruscamente che non avrei dovuto occuparmene «in quel modo ossessivo». Ho pensato che avesse ragione, come sempre quando mi mortifica. Ne ho parlato con Maddi, le ho detto: «Non volevo umiliarti... è che i pidocchi mi snervano» e lei ha risposto alzando le spalle: «Se non lo fai tu chi lo fa?».
I bambini lo sanno come stanno le cose, sanno sempre tutto.
L’herpes mi è tornato nel solito punto.
Lo accolgo con freddezza.
Mi rifiuto di accettarlo tra le mie malattie ricorrenti, come rifiuto l’eritema solare, comparso durante la prima vacanza coi gemelli, in Liguria.
L’eritema solare a me, che da bambina mi abbronzavo tanto che dicevano «Sembri una negra». L’ho preso come un affronto, l’annuncio della fine della giovinezza.
Ormai l’eritema torna ogni estate, se non metto la protezione cinquanta, ma non mi ci affezionerò mai come ai pidocchi di Maddi e al mal di gola. L’eritema non sono io, è il buco dell’ozono, è il mondo fuori di me; il mal di gola invece è il vecchio mal di gola di bambina, profuma di gargarismi all’aceto, lo accolgo con affetto.
La farmacista carina coi colpi di sole ha il camice aperto, la maglietta azzurra scollata e molte catenine d’oro appese al collo abbronzato. Sembra sempre appena tornata dalle Maldive.
È implacabile: «L’herpes è segno di immunodepressione e stanchezza. È stressata?».
«Non più del solito» rispondo, cercando complicità. «C’è qualcuno che non è stressato, a Milano?»
«In effetti» concede lei. «Con questo smog, poi. Cosa ci vuol fare?»
È un mese che non piove.
Ho sempre pensato che a Milano sto bene, che è un posto da combattenti, da apolidi, una legione straniera. Che non saprei dove altro vivere. Ho fatto tutto qui: università, figli, matrimonio, lavoro. Milano mi somiglia. Parla poco, non ha tempo, sembra che non si affezioni a nessuno, ma non è così. Milano è come me, va di fretta e cerca di fare tutto meglio che può, nonostante se stessa.
Quando uno dei gemelli si ammala in vacanza, il pediatra gli guarda le orecchie e dice: «Se un bambino ligure avesse queste orecchie, lo manderei dall’otorino, ma i bambini di Milano sono ridotti così, cosa ci vuol fare?». E poi aggiunge, per consolarmi: «Ha mai visto come sono grossi i cefali del porto di Genova? Non penserà mica che l’acqua del porto sia pulita, quel che non ammazza ingrassa».
Esco dalla farmacia con una nuova pomata e dei dischetti trasparenti da applicare sul labbro. Il bar di via Foppa mette i tavolini sul marciapiede con qualsiasi tempo, anche con questo grigio compatto. È un bar d’angolo, proprio di fronte al semaforo.
Chissà quanto ossido di carbonio, penso mentre mi siedo a bere un caffè. È il mio quarto d’ora libero, l’unico della giornata, prima di prendere la metro per andare a Crescenzago. Ora lavoro vicino a dove abitavo quando sono arrivata a Milano, in una delle zone più tristi della città.
Il barista è sempre di buon umore. Cos’avrà da sorridere? Apre il bar alle sei del mattino e sta in piedi fino a sera. Mi porta il caffè e una vaschetta piena di bustine: zucchero bianco, di canna, dolcificante e persino fruttosio.
«A lei non fa paura lo smog, tutto il giorno qui davanti all’incrocio?» gli chiedo, menando gramo. La farmacista ha messo ansia a me, io la metto a lui.
«Lo sa che è più inquinata Venezia di Milano?» risponde con un sorriso tranquillo. È biondo, stempiato, con la faccia tonda. Cammina dondolando.
Non lo sapevo. «È sicuro? Anche se non ci sono macchine?»
«Sicuro, sicuro. L’ho letto sul “Corriere”. Anche a Parma e ad Asti c’è più smog che a Milano. Noi siamo tredicesimi.»
«Pensa un po’. Io mi stavo mettendo in testa che era l’inquinamento a farmi venire l’herpes» gli confido, toccandomi lo stigma sul labbro. Mi piace raccontare i fatti miei agli estranei, mi sento più compresa da loro che da chiunque altro. Aspetto che rida e mi rassicuri, invece ribatte: «Non mi stupirei. Anche se siamo tredicesimi, la Pianura Padana è il posto con l’aria peggiore d’Europa, cosa ci vuol fare?».
Anche lui è fatalista, come il pediatra e la farmacista.
Alza le spalle e fa per andarsene, poi si gira di nuovo: «Si figuri che a me è venuto l’herpes due giorni prima di sposarmi. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Santa degli impossibili
  4. Prologo
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Copyright