Abidjan, Costa d’Avorio. 26 novembre, ore 11.00.
Lago mi trovò addormentato sul divano, il viso schiacciato nel cuscino. Il guardiano disse che un taxi mi aveva scaricato davanti al cancello alle cinque del mattino e lui mi aveva portato in casa. Il vecchio mi trascinò fino al bagno, fece scorrere il getto della doccia e mi ficcò sotto. Restai in dormiveglia per un tempo indefinito. Avevo dei lividi sulle costole e un taglio sotto l’occhio. Non avevo idea di come me li fossi procurati. Mi sentivo uno schifo e vedevo immagini a ripetizione in cui non distinguevo realtà e sogno. Uscito dall’acqua, mi legai un asciugamano intorno alla vita e andai a sedermi in veranda. Mi calai sugli occhi un paio di Ray-Ban a specchio e Lago mi mise davanti una tazza di caffè.
«Valerio, mi spieghi che cazzo hai deciso di fare?»
Lunghe rughe gli segnavano la fronte e i muscoli delle braccia erano tesi. Nonostante la pancia di chi ha passato una vita a bere birra, il suo corpo era ancora forte. Quella mattina, il viso non era aperto dal solito sorriso corredato d’oro. Non lo avevo mai visto così arrabbiato.
«Sei stato in giro tutta la notte ubriaco marcio! I ribelli sono alle porte della città e il presidente ha fatto distribuire altre armi alle milizie. Te ne fotte qualcosa?»
Lo ascoltai ma afferrai poco. Ero concentrato sui messaggi che inviava il mio corpo: i muscoli infiammati, la schiena contratta, lo stomaco sconquassato e fitte che si propagavano dalla nuca alla fronte a ogni respiro. Avevo bisogno di silenzio. Cercavo di ricordare cosa avessi fatto la notte precedente, ma il telefonino squillò, penetrandomi i timpani.
Gettai un occhio: nove chiamate perse. Un numero che non avevo in rubrica aveva cominciato a chiamare la mattina presto. Lo sconosciuto, per quel che mi riguardava, poteva andare a fare in culo. Desideravo stare da solo e non parlare. Lago, invece, accese la radio e alzò il volume. Andò in onda il consueto bollettino di guerra finché il giornalista lanciò una breaking news che catturò la mia attenzione. Il cadavere di un uomo bianco era stato ritrovato alle prime luci dell’alba, nella stanza di un hôtel de passe, nel quartiere di Yopougon. Era nudo e con lui c’era una ragazzina. Morta. Lo speaker aggiunse che gli investigatori stavano indagando, compatibilmente con la situazione del paese. Quindi ritornò a parlare dell’attualità politica e militare.
«Ci senti?» riprese Lago. «Hai visto che è pericoloso andare a divertirsi di questi tempi?»
Tirò fuori un pacchetto di Dunhill e ne accese una. Da quando era cominciato il casino, dopo le elezioni, fumava sempre più spesso.
«Che ne pensi?» mi chiese dopo aver aspirato avidamente.
«Penso che tu abbia paura che il tuo datore di lavoro, che sono io, si faccia ammazzare come un coglione smettendo di contribuire al tuo benessere, cosa che farebbe immediatamente scappare le tue amanti...» risposi. «... Ah, e penso che non dovresti fumare. Hai superato i sessant’anni, mon frère. Le statistiche dicono che a queste latitudini dovresti essere già morto!»
«Sei una testa di cazzo, Valerio! Se muoio, di’ qualche bella frase al mio funerale. Fallo per mia figlia, fai finta di avere rispetto del suo vecchio. Volevo solo sapere cosa pensi di questa storia del morto...»
«Di bianchi che si divertono a scopare le ragazzine ce ne sono parecchi.» Ebbi un flash: dov’ero stato la sera prima? L’immagine di una bambina seminuda mi attraversò veloce. Era solo un incubo da ubriaco. Lago mi guardava, aspettando il seguito. Recuperai il filo del discorso. «Per quel che ne so, preferiscono caricarle in locali sicuri qui nei quartieri sud e poi scoparsele a casa propria, lontano da sguardi indiscreti.»
«Quello che volevi fare tu ieri?»
Riprese a parlare prima che potessi dirgli che non ricordavo niente.
«Devi ringraziare il tassista che ti ha portato al Toi et Moi. È del mio quartiere. Si ricordava di te ai tempi in cui... insomma, quando frequentavi mia figlia. Appena sei entrato nel club, mi ha chiamato. Ha detto che eri ubriaco fradicio. Gli ho chiesto di aspettarti. Mi ha richiamato dopo che avevi messo le mani addosso al buttafuori.»
Indicò il mio occhio. Cazzo, non aveva visto il resto. Quello mi aveva menato di brutto.
«Questo se ti stai chiedendo come mai sei conciato così male. Ho dato al tassista l’indirizzo di casa tua e gli ho promesso una mancia.»
«Nessuno fa niente per niente da queste parti, eh?»
Fece finta di non avere sentito, così tornai a parlare del morto.
«Solo un matto va in giro nelle banlieue nord di questi tempi. Il problema a Yopougon non è scoparsi le minorenni, il mercato è florido» dissi pensando alla moltitudine di bordelli che si affacciavano sulla rue Princesse. «Il problema è perché un bianco ci sia andato di notte in questo momento: se gli capita uno straniero a tiro non è detto che abbiano voglia di sprecare munizioni. Oggi è più facile che lo brucino vivo come volevano fare con me la settimana scorsa...»
«... quando quel vecchio che è tuo dipendente ti ha salvato la vita, vuoi dire?»
Scoppiammo a ridere. Stavo per chiedere a Lago se avesse altre informazioni sulla morte del tizio, quando il cellulare ricominciò a squillare. Sempre quel numero.
Tirai l’apparecchio al mio amico.
«Spegni o lo spacco!»
Lui invece rispose.
Faceva sempre quello che voleva, il vecchio. Annuì per qualche secondo e mi allungò il telefono.
«Parla» disse serio.
Lo maledissi.
«Sì.»
«Monsieur Montalé Valeriò?» chiese una voce maschile carica di accento africano.
«Non credo di avere il piacere, per cui puoi andare a farti fottere.»
«Non era nei miei piani per la giornata.»
«Allora richiama settimana prossima, se non hanno distrutto i ripetitori.»
Non si scompose. Disse un nome che non capii. Poi aggiunse: «Polizia investigativa».
«Non sono io il morto di ieri sera, non ti preoccupare. Amo le vostre donne, ma le preferisco più in carne.»
«Mi fa piacere sapere che è ancora tra noi e che apprezza i piaceri della vita, Monsieur Montalé. Dove si trova? Ho necessità di parlarle.»
«Fammi convocare in commissariato, sbirro.»
«Lo farei volentieri, ma temo che non arriverebbe vivo di questi tempi. Mi dica dov’è e la vengo a prendere personalmente.»
Bestemmiai ad alta voce, in italiano.
«Senti, ispettore. Sono molto occupato a riprendermi da una sbronza e seguire l’ultimo capitolo della vostra guerra del cazzo.»
«Monsieur Montalé... mi hanno detto che è un giornalista e che è una persona intelligente... un pregio raro tra i suoi colleghi. Quindi mi ascolti...» esitò, cercando le parole. Immaginai un uomo forte, dell’età di Lago, calmo e con senso dell’umorismo finché non perdeva la pazienza. E che ci stesse andando molto vicino. «Mi dia l’indirizzo. E quando ci incontriamo cerchi di essere meno spiritoso. Se mi permette l’espressione, lei sta davanti a una fogna piena di merda... Stia attento a non caderci dentro.»
Il tizio non aveva perso il suo aplomb. Curioso, di solito gli sbirri non amano essere presi in giro, le battute non le capiscono. Pensai che mi avrebbe trovato comunque, così gli diedi appuntamento a casa mia.
Un’ora dopo, ero seduto nei sedili posteriori di un’auto della polizia. Mamadou e Lago seguivano nella mia macchina. Accanto a me, un uomo non molto alto, i capelli radi e brizzolati, una sigaretta all’angolo della bocca e un viso rotondo da cui spuntavano peli bianchi. Aveva l’aria di non dormire da parecchio, ma era più giovane di quello che avevo immaginato al telefono. Poteva avere qualche anno più di me, ma la stanchezza gli conferiva un aspetto dimesso. Guardandomi, avrebbe potuto dire lo stesso, pensai.
Restai in attesa di spiegazioni che non arrivarono. L’ispettore Ibrahim Coulibaly sembrava solo interessato a sapere cosa pensassi di quel che stava succedendo in Costa d’Avorio. Lo accontentai.
«Quando non era al potere, il vecchio era marxista e si faceva chiamare “rifondatore”. Alla fine ha scatenato un conflitto etnico, rifondando soltanto il suo conto in banca. Il nuovo è un liberista, si presenta come un gentiluomo e promette di essere il presidente di tutti, ma è una vita che organizza colpi di Stato. Per ora, è solo l’uomo dell’ex potenza coloniale. È facile chiacchierare quando vuoi posare le tue chiappe nel palazzo presidenziale, la verità la sapremo tra dieci anni. Sei venuto a prendermi per chiedermi un’opinione politica?»
Non rispose.
Viaggiavamo sul ponte Houphouët-Boigny. Entrambi eravamo voltati verso il finestrino, a osservare l’acqua lenta della laguna riflettere i raggi violenti del sole. Una canoa filava, le pagaiate ritmate producevano piccole onde. Un uomo aveva attaccato un filo e un amo artigianale a una canna di bambù e, seduto su un sasso, aspettava il suo pranzo. Un altro stava vicino alla riva, a mani nude. Quando vedeva un pesce, si gettava rapido nell’acqua, cercando di afferrarlo. Una donna trasportava sul capo il proprio negozio, un secchio di banane mature. Per un attimo, ebbi l’impressione di una giornata normale, passata a parlare del più e del meno, mentre il resto del mondo fuori si ostinava a sopravvivere, nonostante tutto. La pistola che spuntava dalla cintura dei pantaloni dell’ispettore mi riportò alla realtà. Ero arrivato meno di ventiquattr’ore prima e l’Etiopia già stava tra i souvenir. Ero ubriaco e dovevo riprendermi in fretta, avevo promesso di recuperare al più presto un nuovo carico di droga. Ora, la visita inaspettata della polizia: non avevo nulla da nascondere, ma avere a che fare con gli agenti non mi era mai piaciuto. In Africa, quando uno straniero gli finisce in pasto, significa solo una cosa: sono cazzi amari. O paghi, o finisci dentro finché non tiri fuori i soldi. E a quel punto il prezzo iniziale si è moltiplicato.
Superammo il grande palazzo del Novotel. Tutto intorno si vedevano postazioni di artiglieria pesante dell’esercito regolare, affiancate da barricate gestite da sostenitori...