La pace insopportabile
  1. 420 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Una storia vera per John Le Carré. Un colloquio con una spia autentica, anche se anomala. Jean-Louis Jeanmaire, colonnello dell'esercito svizzero, durante gli anni Sessanta ha fornito ad un diplomatico russo informazioni sul sistema difensivo elvetico. E per questo è stato processato e condannato. Ma nè la prigione nè il tempo trascorso hanno modificato l'opinione che Jeanmaire ha di sé e del suo operato: non è stato tradimento, ma atto di dissuasione. Per scoraggiare ogni tentativo di invasione da parte sovietica.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804500049
eBook ISBN
9788852066580

LA PACE INSOPPORTABILE

Appendice, 16 gennaio 1991

Le rivelazioni sul caso Jeanmaire continuano. Purtroppo la fonte di informazioni più importante e più attesa – il rapporto della Commissione parlamentare inquirente del 1991 sul caso Jeanmaire – manca ancora all’appello al momento di andare in stampa. Alcune delle sue conclusioni sono già note, sia pur in maniera ufficiosa e incompleta, e gettano nuova luce (o forse nuove ombre) sugli interrogativi che ho sollevato.
A differenza del pubblico ministero Gerber, la Commissione fa risalire l’inizio del caso non al maggio 1975, come sostenuto da Gerber, ma all’ottobre 1974, quando il “rappresentante di un Servizio estero” fu inviato in missione speciale a Berna presso il capo della polizia federale, per informarlo del fatto che un alto ufficiale dell’esercito elvetico passava informazioni all’URSS e che costui era sposato con una cittadina svizzera nata in Unione Sovietica.
La fonte era un “funzionario sovietico”, ma la bozza del rapporto non specifica se sia ancora in servizio o abbia defezionato.
Il rapporto afferma che l’informazione fu immediatamente riferita al pubblico ministero Gerber. In occasione di ulteriori colloqui avvenuti il 29 ottobre e il 1° novembre 1974, lo stesso “rappresentante di un Servizio segreto estero” fece riferimento a un elenco di circa sessanta persone sospettate di avere contatti con il Gru in Svizzera e sottolineò la delicatezza della sua fonte che, data la propria posizione, non poteva né approfondire l’argomento né rispondere a eventuali domande, cosa che entrambe le parti in seguito parvero ignorare.
Le informazioni fornite dal rappresentante del Servizio estero indicavano in maniera specifica una “coppia di coniugi che nel 1964 vivevano a Losanna e che per almeno un anno avevano intrattenuto contatti con Vasilij Denissenko, attaché sovietico e Residente del Gru a Berna, e in seguito con i suoi successori”. I loro nomi in codice presso il Gru erano “Mur” e “Mary”. Sempre secondo la fonte, nonostante le sue origini la moglie non parlava russo e considerava propria madrelingua il francese.
La data più tarda indicata da Gerber come inizio del caso – il 16 maggio 1975 – si riferisce evidentemente alla visita di un altro emissario dello stesso Servizio segreto, cui seguì un’“attenta valutazione” – sono parole del rapporto – “in occasione della quale vennero alla luce nuovi casi di spionaggio in cui erano implicati cittadini svizzeri”. Fu sempre in quella data che le autorità svizzere, nella persona di Pilliard e Hofer, consegnarono all’emissario un elenco di domande per ottenere maggiori informazioni sulla “coppia tuttora non identificata”.
Il 2 giugno ci fu un nuovo incontro in cui il rappresentante del Servizio segreto estero produsse un nuovo documento, che conteneva maggiori dettagli sulla “coppia” sospetta. Il marito viveva a Losanna, ma lavorava a Berna. Faceva il pendolare, probabilmente in macchina e non in treno. Era nel settore “difesa antiaerea” ed era stato in Francia nel 1964 per specializzarsi in “installazioni antiaeree”.
Il 24 giugno la polizia federale ricevette la risposta al questionario, che confermava che la moglie considerava il francese come propria madrelingua, mentre il marito lo parlava come minimo bene. Sulla base di questi dati, conclude il rapporto, i coniugi Jeanmaire furono definitivamente identificati il 24 giugno 1975, ben otto mesi dopo la soffiata originaria.
La bozza del rapporto allude inoltre a un secondo Servizio segreto straniero che si sarebbe fatto avanti per confermare le informazioni fornite dal primo. Gli inglesi? Impossibile saperlo, così come è impossibile sapere se entrambi avessero ricevuto quelle informazioni dallo stesso Servizio, cosa non rara in quel settore.
Su un punto soltanto, tuttavia, il rapporto è chiarissimo: Jean-Louis Jeanmaire “non ebbe mai accesso a documenti top secret”.
Ho visto Jeanmaire per l’ultima volta il 16 gennaio e ho accennato al fatto che ero riuscito a rintracciare Denissenko. Vive a Mosca, gli ho detto, ma ora è ricoverato in ospedale per una malattia di fegato. Ho detto che forse sarei andato a trovarlo alla prima occasione. Sembrava che non avesse sentito: ha tenuto gli occhi bassi, si è guardato intorno nella cucina, poi, come un bambino cui è stato promesso un premio, mi ha rivolto un sorriso smagliante.
«Lei sì che è fortunato» mi ha detto.
«Non sono morto» dice Jeanmaire orgoglioso. «Mi avrebbero voluto morto, ma io non gli ho voluto fare questo favore.»
È sera e siamo soli nel suo appartamentino alla periferia est di Berna. Sta preparando la fonduta. Su uno scaffale della cucina ci sono le scodelle di acciaio che usava in carcere. Perché mai le avrà tenute?
«Per ricordo» risponde.
Nello stretto corridoio sono appesi il pugnale e la sciabola dell’alta uniforme degli ufficiali dell’esercito svizzero. Nel salotto sono appesi la riproduzione di un’alabarda medievale e la laurea in architettura del 1934. La fotografia con autografo del generale Westmoreland, che ricorda una visita amichevole a Berna, è dedicata al “generale del corpo di protezione antiaerea”, l’ultima carica occupata da Jeanmaire.
«Naturalmente alcuni colleghi non hanno ricevuto nulla» dice con malizia, facendo notare che quel riconoscimento era stato riservato solo a lui.
Ha deciso che è ora di bere qualcosa. Ormai beve poco, ma con lo stesso gusto per cui molti lo ricordano.
«Lo prendo con un po’ d’acqua» annuncia. Secondo lo stile prussiano, raddrizza la schiena, solleva il braccio, stappa il whisky che gli ho portato e lo versa nei bicchieri con estrema precisione. Aggiunge acqua al suo, quindi alziamo i bicchieri, beviamo un sorso guardandoci negli occhi, alziamo di nuovo i bicchieri e ritorniamo goffamente al tavolo, mentre Jeanmaire assapora il liquore e lo dichiara bevibile. Poi si rialza, questa volta per controllare il formaggio sul fuoco, spiegandomi come va rimescolato con fare a metà fra l’istruttore militare di provata esperienza e il giudice.
Sulla scrivania e sul pavimento ha ammucchiato giornali, cartelline e ritagli, appoggiati contro le pareti, radunati e contrassegnati da bandierine per la sua ultima campagna.
È un vezzo giornalistico far finta di non provare alcuna emozione per la gente. Ma io non sono un giornalista e non resto indifferente: Jean-Louis Jeanmaire suscita in me emozioni profonde, mi diverte e mi spaventa.
Jeanmaire non sembra affatto un personaggio misterioso e neppure una spia. Non sembra affatto svizzero, perché gli si legge in faccia quello che sente, anche se cerca di nasconderlo: sarebbe un pessimo giocatore di poker. Ha il viso largo e, per un uomo che ha fama di essere aggressivo, stranamente vulnerabile. Ha le sopracciglia di un clown arrabbiato: si alzano, si aggrottano, si increspano e si inarcano a ogni più piccolo cambiamento di umore. Anche con il corpo non sta quasi mai fermo: non è alto e una volta era delicato, ma le battaglie che ha combattuto lo hanno reso taurino. I gesti rapidi, appassionati, sembrano ancora più ampi in un ambiente piccolo. Di qualsiasi momento della sua vita parli – l’infanzia, l’esercito, la moglie, il tribunale o il carcere – fa sentire il bisogno di ambienti più grandi, di aria, di spazio.
«Non avevo accesso a informazioni top secret» sussurra con un’implosione emotiva tanto forte che il suo corpo sembra quasi non riuscire ad assorbirla. «Come avrei potuto tradire segreti che non conoscevo? Tutto quello che ho fatto è stato passare ai russi dati senza importanza, per dimostrare loro che era pericoloso attaccare la Svizzera!» Lo coglie un’ondata di rabbia. «C’était la dissuasion!» esclama. Punta un dito ammonitore, le sopracciglia aggrottate fino a unirsi sopra il naso. «Il mio scopo era dissuadere quei folli bolscevichi del Cremlino dal preparare un attacco contro il mio paese! Gli ho semplicemente fatto vedere quanto gli sarebbe costato! Che cos’è la dissuasione se l’altra parte non viene dissuasa? Denissenko questo lo capì. Lavoravamo insieme contro i bolscevichi.»
Abbassa la voce per sottolineare quanto sta per dire: «Non sono mai stato un traditore. Forse ho peccato di leggerezza, ma non sono mai stato un traditore».
Passa da un umore all’altro repentinamente. Non ha tempo. Cerca giustizia, in ogni attimo che gli resta a disposizione. Sa recitare, mimare, sa fare lo sbruffone, mostrarsi sprezzante, ridere. Ha l’energia di un uomo con la metà dei suoi ottant’anni. Ti si piazza di fronte come un pugile; un attimo dopo ti dà la schiena, sull’attenti, a piedi uniti, e si china cerimoniosamente ad accendere le candele sul piccolo tavolo della cucina. Le accende ogni giorno, in memoria della moglie defunta, dice; la stessa donna che non ha mai rimproverato per essere andata a letto con l’attaché militare nonché ufficiale dei Servizi segreti sovietici che sarebbe diventato la sua nemesi, il colonnello Vasilij Denissenko, detto “Deni”, di stanza a Berna all’inizio degli anni Sessanta, l’uomo che lo reclutò come sua fonte senza fatica.
Spegne il fiammifero con un gesto della mano. Ha le dita minute di un orologiaio. «Ma Deni era un bell’uomo!» protesta, mentre gli occhi chiari e assorti brillano di nuovo a quel ricordo d’amore, che fosse per la moglie, per Deni o per entrambi. «Se fossi stato una donna, ci sarei andato a letto anch’io!»
Quell’affermazione non lo imbarazza. Dopo tutto ciò che gli hanno fatto, Jeanmaire rimane pieno di affetto per gli amici, vivi o morti, per le donne che ha avuto e per i contatti russi di un tempo. La naturalezza con cui continua a fidarsi degli altri, lui che è stato tanto profondamente tradito nella sua fiducia, è sconvolgente. È impossibile ascoltarlo per un po’ senza provare il desiderio di proteggerlo. Deni era un bell’uomo, insiste. Deni era colto, affascinante, era un uomo d’onore, un gentleman. Deni era un eroe di Stalingrado, aveva ricevuto medaglie al valore, ammirava l’esercito svizzero. Deni non era un bolscevico: era un cavaliere, uno zarista, un ufficiale della vecchia scuola.
Potrebbe aggiungere che Deni era anche il Residente del Gru, il Servizio segreto militare sovietico, cugino povero del Kgb. Ma Jeanmaire non sembra curarsene. La prima volta che sentì nominare il Kgb, sostiene, fu catalogando i libri della biblioteca del carcere. Il Gru è ancora più remoto, per lui, che giura di non avere mai ricevuto neppure la minima preparazione su quelle organizzazioni in tutta la sua carriera militare.
E Deni fu fedele fino alla fine, ripete, battendo il piccolo pugno sul tavolo come un bambino che teme di non essere ascoltato; la fine sono dodici anni trascorsi in isolamento in una cella di tre metri per due, dopo centosettanta giorni di interrogatori civili e militari in stato di arresto, più cinque mesi di detenzione in attesa di giudizio e un processo militare a porte chiuse che durò appena quattro giorni e le cui conclusioni restano segrete.
«Quando mi arrestarono, Deni scrisse una lettera da Mosca alla “Soviet Literary Gazette”, descrivendomi come il più acceso anticomunista che avesse mai conosciuto. La lettera fu pubblicata dalla stampa svizzera, ma non vi fu mai fatto cenno durante il processo. Fu una cosa eccezionale, quella lettera. A Deni stavo molto a cuore.»
Non è proprio quello che Denissenko scrisse di lui, ma non importa. Descrisse Jeanmaire come un nazionalista, un patriota, che probabilmente è quello che Denissenko pensava anche di sé.
Ma l’accorato panegirico continua: Deni non lo spinse mai a fare nulla, non cercò mai di estorcergli nulla che non volesse offrire lui stesso. Ergo: Deni era un uomo d’onore. Non abbastanza perché Jeanmaire gli permettesse di pagare da bere o perché accettasse denaro da lui o gli lasciasse vedere la propria firma su una lettera, ma comunque d’onore. «Deni era un uomo di cuore, fraterno nel senso migliore della parola.»
Soprattutto, Deni era nobile e a questo termine Jeanmaire dà il valore di una medaglia. Jeanmaire è stato giudicato ancora prima del processo, oltraggiato, incarcerato. In una sorta di caccia alle streghe, è stato mandato all’equivalente moderno del rogo. Ora chiede soltanto, prima di morire, che il mondo gli restituisca la nobiltà che gli appartiene. Io spero che ciò avvenga, tutti noi ce lo auguriamo: chi avrebbe il coraggio di deludere un uomo dalla sensibilità tanto contagiosa e vulnerabile?
All’insinuazione che fosse geloso dell’amante della moglie, Jeanmaire reagisce perplesso.
«Gelosia?» ripete, mentre velocissime le sopracciglia si uniscono con aria di disapprovazione. «Gelosia? La gelosia è un vizio da uomini limitati, la fiducia invece…»
Abbiamo di nuovo ferito la sua vanità, la sua tragica, infantile, suscettibile vanità: Jeanmaire non è un uomo limitato, e ci tiene a farlo notare. Sua moglie era una donna bellissima, buona e pura oltre che, come Deni, fedele fino alla fine. Sebbene, nel caso della moglie, la fine giunse prima, perché morì quando lui era ancora in carcere. Il fascino di Deni, al di là di qualsiasi altra considerazione, fu pagato a caro prezzo.
Dal mucchio di ritagli Jeanmaire estrae la fotografia sfocata di questo grande uomo; devo sforzarmi per capire che cosa avesse di attraente. Che l’attrazione fosse tutta dalla parte di Jeanmaire e che Jeanmaire fosse il solo a non rendersene conto? Purtroppo gli ufficiali russi sono di rado fotogenici e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA PACE INSOPPORTABILE
  4. Dossier. Vita da spia. a cura di Paolo Bertinetti
  5. Copyright