L'incantatrice di Firenze
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L'incantatrice di Firenze

  1. 378 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'incantatrice di Firenze

Informazioni su questo libro

Un misterioso viaggiatore dai capelli biondi arriva a Sikri, sede della corte Mogol, e chiede udienza al sovrano Jalalluddin Muhammed Akbar, detto Akbar il Grande. Lo straniero afferma di venire da una sconosciuta, remotissima città di nome Firenze e di avere una storia tanto meravigliosa quanto veritiera da raccontare: una storia che lega i destini della misteriosa capitale d'Occidente da cui proviene a quelli della discendenza del monarca indiano. Inizia così un racconto che, unendo una pirotecnica inventiva a una minuziosissima documentazione, si snoda tra figure storiche gigantesche, una fra tutte Machiavelli, e indaga con magistrale sapienza i mille, inesplorati legami che uniscono una delle massime stagioni storiche europee, il Rinascimento fiorentino, a una delle corti più splendide d'Asia, immortalata all'apice della sua fioritura.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
eBook ISBN
9788852064920

Terza parte

16

Come se tutti i fiorentini fossero cardinali

Come se tutti i fiorentini fossero cardinali, i disprezzati poveri della città anticiparono le eminenze rossovestite chiuse nella cappella Sistina e accesero falò per celebrare l’elezione di un papa Medici. La città era così piena di fiamme e di fumo che da lontano pareva la stesse divorando un incendio. Un viaggiatore che al tramonto avesse preso questa direzione – questo viaggiatore, che ora procedeva in questa direzione, sulla strada che veniva dal mare, con gli occhi socchiusi, la pelle candida e i lunghi capelli neri che gli conferivano l’aspetto non di uno del posto che ritorna ma di un’esotica creatura uscita da qualche leggenda dell’Estremo Oriente, un samurai, forse, dell’isola di Chipango o Cipangu, cioè del Giapan, un discendente dei formidabili cavalieri kiushu che un tempo sconfissero l’esercito invasore dell’imperatore cinese Kubilai Khan – avrebbe potuto credere di arrivare sulla scena di una calamità, e certamente avrebbe potuto fermarsi di botto, trattenere il cavallo e alzare la mano imperiosa di un generale, una mano avvezza a essere obbedita, per valutare la situazione. Nei mesi che seguirono Argalia avrebbe ricordato questo momento abbastanza spesso. I falò erano stati accesi prima che i cardinali prendessero una decisione, ma la loro profezia si rivelò esatta e un papa Medici, il cardinale Giovanni de’ Medici, Leone X, fu effettivamente eletto quella sera e si alleò col fratello, il duca Giuliano, a Firenze. «In considerazione del fatto che erano tornati in sella quei bastardi, avrei dovuto restare a Genova e prendere il mare con Doria sulle sue navi da combattimento finché il mondo non fosse rinsavito» disse al Machia quando lo incontrò, «ma la verità è che volevo mostrarla a tutti.»
Ornamento di separazione
«L’uomo innamorato diventa uno stolto» disse l’imperatore a Mogor dell’Amore. «Mostrare al mondo la bellezza della tua amata a viso scoperto significa fare il primo passo verso la sua perdita.»
«Nessuno ha ordinato a Qara Köz di scoprirsi il viso» disse il viaggiatore. «Né lei ha ordinato alla sua schiava di farlo. Ha preso liberamente la propria decisione, e lo Specchio ha preso la sua.»
L’imperatore tacque. Attraverso il tempo e lo spazio, si stava innamorando.
Ornamento di separazione
Niccolò “il Machia”, ora un uomo di quarantaquattro anni, stava giocando a carte nella taverna di Percussina, nel tardo pomeriggio, con Frosino Uno il mugnaio, Gabburra il macellaio e Vettori il locandiere, i quali si insultavano l’uno con l’altro ma, prudentemente, evitavano di offendere il signore della borgata, benché lui sedesse piuttosto brillo a quel tavolo chiassoso e si comportasse come loro, battendo il pugno due volte se perdeva una mano e tre se vinceva, usando lo stesso turpiloquio degli altri, bevendo forte come ognuno dei presenti e dando a tutti del «caro pidocchio» quando entrò come una furia quello sboccato buon a nulla di Gaglioffo il boscaiolo, sconvolto, ansante e col dito puntato. «Cento uomini o più» strillò, indicando fuori dalla porta e boccheggiando. «Fottetemi in culo due volte se mento. Armati fino ai denti, con alcuni giganti a cavallo, e vengono da questa parte!» Niccolò si alzò in piedi, le carte ancora in mano. «Allora, amici miei, sono un uomo morto» disse. «Il granduca Giuliano ha dunque deciso di farmi fuori. Vi ringrazio per queste piacevoli serate che mi hanno aiutato a togliermi la muffa dal cervello alla fine di una dura giornata, e ora devo andare a salutare mia moglie.» Gaglioffo, piegato in due, aveva il fiato grosso e si teneva i fianchi per alleviare la fitta che gli trafiggeva il corpo. «Signore» ansimò, «forse no, signore. Non portano la nostra livrea, signore. Merdosi forestieri, signore, dalla merdosa Liguria, probabilmente, e anche da più lontano. E ci sono delle donne, signore, che viaggiano insieme a loro. Donne, signore, donne forestiere, che quando metti gli occhi su quel paio di streghe ti prende il desiderio di chiavarle come se avessi la febbre suina. Che io sia fottuto se mento. Signore.»
Questa gente era brava gente, pensò il Machia, questi pochi uomini suoi, ma in generale i fiorentini erano dei traditori. Era il popolo di Firenze che aveva tradito la repubblica e invitato i Medici a tornare. Il popolo che lui aveva servito da vero repubblicano, come segretario della Seconda Cancelleria, diplomatico itinerante e fondatore della milizia fiorentina, lo aveva tradito. Dopo la caduta della repubblica e la rimozione del gonfaloniere Pier Soderini, il capo del governo repubblicano, era stato rimosso anche il Machia. Dopo quattordici anni di leale servizio il popolo aveva dimostrato di infischiarsene della lealtà. I fiorentini erano tutti dei grulli avidi di potere. Avevano permesso che il Machia venisse portato nelle viscere sotterranee della città dove lo aspettavano gli aguzzini. Quella gente non meritava che ci si occupasse di lei. Non meritava una repubblica. Quella gente si meritava un despota. Forse erano tutti così, dappertutto, sempre eccettuando questi bifolchi con cui beveva e giocava a carte e a triche-tac, e pochi vecchi amici, Agostino Vespucci, per esempio: Ago, grazie a Dio, non lo avevano torturato, non era forte e avrebbe confessato ogni cosa, qualunque cosa, e poi lo avrebbero ucciso, a meno che non fosse morto sotto la tortura, naturalmente. Ma non era Ago che volevano, Ago era subalterno del Machia. Era il Machia che volevano ammazzare.
Non si meritavano un uomo come lui. Questi bifolchi sì, ma in genere il popolo si meritava gli amati e crudeli principi che aveva. Il dolore che gli era scorso attraverso il corpo non era dolore ma conoscenza. Era stato un dolore educativo che aveva rotto gli ultimi frammenti della sua fiducia nella gente. Aveva servito il popolo e il popolo lo aveva ripagato con la sofferenza, in quel luogo sotterraneo e senza luce, quel luogo senza nome dove uomini senza nome facevano cose senza nome a corpi che erano anch’essi senza nome perché là i nomi non contavano, contava solo la sofferenza, la sofferenza seguita dalla confessione a sua volta seguita dalla morte. Il popolo aveva voluto la sua morte, o almeno non gli era importato che vivesse o morisse. Nella città che aveva dato al mondo l’idea del valore e della libertà dell’anima umana non si erano curati del suo, di valore, e non gli era importato un fico secco della libertà della sua anima, né dell’integrità del suo corpo. Aveva dato loro quattordici anni di onesto e onorevole servizio ed essi si erano disinteressati della sua vita individuale e sovrana, del suo umano diritto di restare in vita. Di quella gente non si doveva tener conto. Era incapace di amore o di giustizia, e perciò non aveva alcuna importanza. Quella gente non contava più nulla. Non era primaria, ma secondaria. Solo i despoti contavano. L’amore del popolo era volubile e incostante e cercare quell’amore era una follia. L’amore non esisteva. Esisteva soltanto il potere.
Lentamente, gradualmente, gli avevano tolto la sua dignità. Gli era stato proibito di lasciare i territori di Firenze, ed era un uomo che amava viaggiare. Gli era stato proibito di entrare in Palazzo Vecchio, dove aveva lavorato per tanti anni e dove si trovava come a casa sua. Era stato interrogato dal suo successore, un certo Michelozzi, un leccapiedi dei Medici, il principe degli adulatori, a proposito di possibili malversazioni. Ma lui era stato un onesto servitore della repubblica e non riuscirono a scoprire alcuna traccia di atti illeciti. Poi avevano trovato il suo nome su un pezzo di carta nelle tasche di un uomo che non conosceva e lo avevano chiuso in quel luogo senza nome. L’uomo si chiamava Boscoli ed era un citrullo, uno dei quattro citrulli ideatori di una congiura contro i Medici così stupida che era stata smantellata ancor prima di cominciare. Nelle tasche di Boscoli c’era una lista con due dozzine di nomi: nemici dei Medici, secondo uno dei citrulli. Uno di questi nomi era Machiavelli.
Una volta che un uomo è stato in una camera di tortura i suoi sensi non dimenticano più certe cose, l’umida oscurità, il freddo fetore degli escrementi umani, i ratti, le urla. Una volta che un uomo è stato torturato una parte di lui non smette mai più di sentire il dolore. Il castigo noto col nome di “strappado” era fra i tormenti più atroci che si potessero infliggere a una persona senza ucciderla sul colpo. Le si legavano i polsi dietro la schiena, e la corda che li stringeva veniva passata sopra una carrucola penzolante dal soffitto. Quando l’uomo era sollevato da quella corda il dolore alle spalle diventava il mondo intero. Non soltanto la città di Firenze e il suo fiume, non soltanto l’Italia, ma tutta la munificenza di Dio veniva cancellata da quel dolore. Il dolore era il nuovo mondo. Un momento prima di smettere di pensare a qualunque cosa, e per non pensare a ciò che stava per accadere, il Machia pensò all’altro Nuovo Mondo, e al cugino di Ago, Amerigo, amico del gonfaloniere Soderini, Amerigo il selvaggio, il vagabondo che aveva dimostrato, insieme a Colombo, che il Mare Oceano non conteneva mostri capaci di spezzare in due una barca con un morso, e non si incendiava allorché arrivavi all’Equatore, e non diventava un mare di fango se ti spingevi troppo a occidente, e che, cosa ancor più importante di tutto il resto, aveva avuto l’intelligenza di capire ciò che quello zuccone di Colombo non aveva mai afferrato, e cioè che le terre sull’altra sponda del Mare Oceano non erano le Indie: con l’India non c’entravano niente, erano, anzi, un mondo completamente nuovo. L’esistenza di quel Nuovo Mondo sarebbe stata ora negata per ordine dei Medici, sarebbe stata cancellata per decreto e sarebbe diventata solo un’altra malaugurata idea – come l’amore o l’integrità o la libertà – destinata a crollare insieme al crollo della repubblica, trascinata nella distruzione da Soderini e dal resto dei perdenti, lui compreso? Fortunato lupo di mare, pensò il Machia, essere sano e salvo là a Siviglia, dove neanche il braccio dei Medici poteva raggiungerlo. Forse Amerigo era vecchio e malato, ma almeno era al sicuro e poteva morire in pace dopo tutti i suoi vagabondaggi, pensò il Machia; poi la corda lo sollevò per la prima volta e Amerigo e il Nuovo Mondo sparirono, e anche il Vecchio.
Lo hanno fatto sei volte e non ho confessato nulla perché non avevo nulla da confessare. Quando smisero di torturarlo tornarono a chiuderlo nella sua cella e fecero finta di dimenticarselo e di lasciarlo morire là dentro, lentamente, al buio, in mezzo ai topi. Poi, alla fine, e inaspettatamente, la liberazione. Verso l’ignominia, l’oblio, la vita coniugale. Il ritorno a Percussina. Passeggiava nei boschi con Ago Vespucci e cercava le radici di mandragora, ma non erano più ragazzi. Le speranze giacevano distrutte alle loro spalle, anziché, luminose, davanti a loro. Il tempo della mandragora era finito. Ago aveva tentato di far innamorare di sé la Fiorentina, una volta, mettendole nel bicchiere della polvere di mandragora, ma la furba Alessandra non si sarebbe mai lasciata catturare in quel modo, era immune alla magia della mandragora, e ideò per Ago un tremendo castigo tutto suo. Quella sera, dopo aver bevuto la pozione di mandragora, rinunciò alle schizzinose abitudini di una vita e consentì a quel povero disgraziato di Ago di accedere al proprio letto superbo; ma dopo che egli ebbe assaporato quarantacinque minuti della più schietta e paradisiaca beatitudine lo fece cacciar via senza cerimonie rammentandogli, prima che se ne andasse, la segreta maledizione della mandragora, che era questa: ogni uomo che avesse fatto l’amore con una donna sotto l’effetto della radice sarebbe morto entro otto giorni, a meno che lei gli salvasse la vita permettendogli di restare per una notte intera, «cosa di cui» gli disse, «non c’è proprio la minima possibilità, mio caro». Ago, da quel coniglio superstizioso che era, ossessionato dalla magia come chiunque altro, passò otto giorni convinto che la fine fosse prossima e cominciò a sentire la morte che gli si insinuava nelle ossa, lo accarezzava con le sue dita gelate, strizzandogli piano piano, piano piano, i testicoli e il cuore. Quando si risvegliò la mattina del nono giorno, constatando di essere ancora vivo, non provò alcun senso di sollievo. «La morte apparente» disse al Machia «è peggio della morte di chi è morto veramente, perché il morto vivente può ancora sentire la pena di un cuore spezzato.»
Niccolò ora sapeva qualcosa della morte apparente perché, anche se aveva evitato per un pelo di morire per davvero, era ormai un uomo finito, un uomo finito come lo era Ago, perché erano stati espulsi dalla vita tutti e due, dalla vita, dal loro lavoro, dai grands salons come quello di Alessandra Fiorentina, da quella che avevano tutte le ragioni di considerare la loro vera esistenza. Sì, erano due disgraziati con il cuore spezzato e, peggio ancora, erano sposati. Tutte le sere Niccolò guardava la moglie di là dal tavolo e non trovava niente da dirle. Marietta, questo era il suo nome; e poi c’erano i suoi figli, i loro figli, i tanti, tanti figli, perché sì, certo, anche lui si era sposato e aveva avuto figli come una persona rispettabile, ma questo era successo in un’altra epoca, l’epoca della sua noncurante grandeur, quando si scopava una ragazza diversa ogni giorno per mantenersi vigoroso e vitale, e aveva scopato anche la moglie, certamente, almeno sei volte. Marietta Corsini, sua moglie, che gli cuciva camiciole e asciugamani, e non sapeva nulla di nulla, che non capiva la sua filosofia e non rideva alle sue battute. Tutti gli altri lo trovavano divertente, ma lei lo prendeva alla lettera: credeva che un uomo intendesse sempre dire quello che diceva, e che allusioni e metafore fossero solo gli strumenti usati dagli uomini per ingannare le donne, per far credere loro che non sapevano cosa stava succedendo. Lui l’amava, era vero. L’amava come si ama un membro della famiglia. Come una sorella. Quando scopava con lei si sentiva un po’ a disagio. Si sentiva incestuoso, come se stesse scopando con la sorella. In effetti, quell’idea era l’unica cosa capace di eccitarlo quando andava a letto con lei. Sto scopando con mia sorella, si diceva, e veniva.
Lei conosceva i suoi pensieri, come ogni moglie conosce la mente del marito, e quei pensieri la rendevano infelice. Lui la trattava cortesemente e le voleva un gran bene, a modo suo. Madonna Marietta e i suoi sei figli, le sue bocche da sfamare. L’assurdamente fertile Marietta: la toccavi e rimaneva incinta, e dal pancione schizzava fuori un Bernardo, un Guido, una Bartolomea, un Totto, una Primavera e l’altro maschio, come si chiamava, Lodovico; non c’era fine alla paternità, così pareva, e adesso i soldi erano pochi. La signora Machiavelli. Eccola che entrava nella taverna di corsa, con l’aria di una a cui si stia bruciando la casa. Portava una cuffia con gale di pizzo e i capelli le spiovevano sulle spalle in ricciolini disordinati incorniciandole il viso a forma d’uovo con la sua bocca piccola e piena, mentre agitava le mani come un’anatra muove le ali; e davvero, a proposito di anatre, bisognava ammettere che aveva l’andatura dondolante di un’anatra. Sua moglie camminava come un’anatra. Era sposato con una donna che camminava come un’anatra. Non poteva neanche immaginare di toccarla un’altra volta nelle parti intime. Non c’era proprio alcun motivo di toccarla ancora.
«Niccolò mio» gridò con quella voce che, sì, somigliava un po’ troppo al verso di un’anatra, «hai visto chi sta arrivando per la strada?»
«Cosa c’è, mia cara sposa?» rispose lui, premuroso.
«Qualcosa di brutto per il paese» disse lei. «Come la Morte stessa a cavallo e i suoi orchi, e ai lati le sue regine diavolesse.»
Ornamento di separazione
L’arrivo a Sant’Andrea in Percussina della donna che sarebbe diventata famosa, o forse famigerata, come l’ammaliatrice Angelica, la cosiddetta incantatrice di Firenze, fece accorrere gli uomini dai campi e le donne dalle cucine, da cui uscirono pulendosi le dita impastate sui grembiuli. I taglialegna rientrarono dai boschi, il figlio del macellaio Gabburra uscì dal mattatoio di corsa e con le mani insanguinate, e i vasai lasciarono le fornaci. Frosino Uno, il fratello gemello del mugnaio Frosino Due, uscì tutto infarinato dal mulino. I giannizzeri di Stambul erano uno spettacolo da non perdere, tosti e coperti di cicatrici com’erano, e un quartetto di giganti svizzeri albini in sella ai cavalli bianchi era qualcosa che non si vedeva tutti i giorni in quell’angolo di mondo, mentre la figura imponente alla testa della cavalcata, con la pelle bianchissima e i nerissimi capelli, il pallido capitano che la signora Machiavelli aveva identificato con la Morte stessa, era una vista sicuramente allarmante, tanto che al suo passaggio i bambini indietreggiavano, perché, fosse o non fosse l’angelo sterminatore, chiaramente aveva visto morire troppa gente per il bene suo o di chiunque altro. Ma ammesso che fosse davvero l’Angelo della Morte, aveva anche un’aria stranamente familiare e parlava alla perfezione il dialetto della regione, e questo spinse la gente a domandarsi se la Morte si presentasse ogni volta nei panni di uno del posto, per così dire, usando il tuo dialetto, conoscendo i tuoi segreti e magari celiando con te nello stesso momento in cui ti portava via per consegnarti al mondo delle ombre.
Ma furono le due donne, le “regine diavolesse” di Marietta Corsini Machiavelli, a richiamare rapidamente l’attenzione di tutti. Cavalcavano come gli uomini, montando i loro animali in un modo che fece restare senza fiato il pubblico femminile per un motivo, mentre gli uomini restavano senza fiato per un altro, e sui loro visi risplendeva la luce della rivelazione, come se in quei primi giorni senza velo fossero capaci di succhiare la luce dagli occhi di tutti coloro che le guardavano e poi di irradiarla come se fosse la loro stessa luce, con effetti mesmerici che stimolavano la fantasia. Sul volto dei fratelli Frosino, gemelli pure loro, comparve un’espressione sognante mentre immaginavano un doppio matrimonio prima o poi, nel lo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’incantatrice di Firenze
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. TERZA PARTE
  7. Bibliografia
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright