Il Doge - Stefanino - Storia di un'amicizia
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Il Doge - Stefanino - Storia di un'amicizia

  1. 512 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Doge - Stefanino - Storia di un'amicizia

Informazioni su questo libro

Un volume che accoglie tre romanzi scritti da Aldo Palazzeschi nei suoi anni estremi che hanno visto la luce in pressoché esatta contestualità con la pubblicazione di Cuor mio (1968) e di Via delle cento stelle (1972), le due singolarissime testimonianze della definitiva chiusura dei conti con la poesia. Il Doge (1967), Stefanino (1969), Storia di un'amicizia (1971) segnano il ritorno di Palazzeschi alla sua vena più anarchicamente inventiva e con la loro partitura ludica e paradossale illuminano retrospettivamente l'intero "sistema" narrativo dell'autore. Operando un geniale rimescolamento di carte, Palazzeschi sembra prodigiosamente riscoprire la radicalità sperimentale della magica stagione dell' Incendiario e del Codice di Perelà nel momento stesso in cui, con incantevole leggerezza e con supremo understatement, prende congedo dalla vita e dalla letteratura.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804525660
eBook ISBN
9788852064883

IL DOGE

Nelle prime ore della mattina e dai punti strategici della città, gli altoparlanti annunziarono che alle dodici precise alla Loggia del Palazzo Ducale si sarebbe affacciato il Doge.
L’annunzio in questi termini circoscritto, non aggiungeva né accennava minimamente alle ragioni né il perché di un tale avvenimento che non produsse nei veneziani sorpresa alcuna ma solo una ridda di supposizioni immagini e commenti, voci discordi su quello che il Doge in tale circostanza avrebbe esposto, come si sarebbe comportato.
Diceva taluno che lo avrebbe fatto esclusivamente per tener viva un’antica e gentile consuetudine, naturalissima per chi detiene il compito di governare un popolo, mantenendo con lui il continuo ed affettuoso contatto, e rivolgendo alla cittadinanza un commosso, benedicente saluto quale auspicio di felicità, di generale benessere, di vita prospera sana e lunga per ognuno da quel luogo che è certamente, oltre che celeberrimo, fra le cose più belle che l’uomo abbia visto.
Altri invece, davano per sicuro che si sarebbe affacciato soltanto per annunziare la più orrenda delle sventure, forse la guerra e qualche cosa, forse, di più calamitoso ancora della guerra ma non dicevano che, si guardavano bene dal dirlo: una catastrofe senza esempio, senza nome e senza riparo, come a nessun popolo e in nessun tempo era mai avvenuto. I pessimisti non tardano a prender quota in un frangente come questo.
Ed altri ancora, in vena di poesia nel senso più elevato, affermavano quasi lo avessero visto, che sarebbe apparso per sposare il mare, impresa della massima semplicità per un uomo nel caso suo e col quale, da epoca remotissima e per un numero incalcolabile di volte erasi unito nel modo più felice in matrimonio, senza mai risentire stanchezza o sazietà di un tale vincolo, il naturale sconforto come avviene a qualche altro non solo, ma riuscendo a rispettare la fedeltà assoluta nel carattere sacro del patto, cosa che non capita ogni giorno né al primo venuto e che il Doge medesimo, in altra sede matrimoniale sacra altrettanto, non era riuscito a conservare al medesimo livello. E da quell’altezza dominante, d’impareggiabile splendore e fascino arcano, avrebbe gettato nel Bacino di San Marco il rituale anello che vi sarebbe caduto producendo una traiettoria luminosa come allorquando nelle notti d’estate le stelle vi cadono dal cielo.
Altri infine, di spirito familiare all’eccesso, casalingo del tutto e pacifico ad ogni costo, negati al volo, ma che per loro immensa fortuna sono portati a veder roseo sempre e dappertutto al fine pratico di non recare alla propria persona nessun genere di scosse o turbamento, il minimo disturbo, e in modo accentuato sull’ora che digeriscono, pronosticavano che una volta alla Loggia, il Doge si sarebbe limitato a dispensare sorrisi, sorrisi e baci, un numero infinito di baci col regal gesto della mano, e sorrisi in una quantità che sfugge a qualsiasi calcolo e controllo, tanto che ce ne sarebbero stati a dovizia per ciascuno, neppure un cittadino sarebbe partito a vuoto. Come il buon padre nella gioia della propria famiglia allorché viene festeggiato il suo giorno natalizio.
Le donne da parte loro, chiedevano con insistenza che rivelava un’impaziente bramosia, incontenuta nel modo più infantile e bizzarro, se col Doge si sarebbe affacciata anche la Dogaressa, e formulavano le più fantastiche, colorite previsioni sul conto di quella: come si sarebbe presentata e comportata davanti al popolo la prima donna di Venezia, discutendo minutamente, con scoppiettante vivacità sopra la forma ed il colore del suo vestito tessuto d’oro e trapunto di gemme, contando una per una le file di perle che partendosi dal collo sarebbero discese a coprirle la persona fino a terra; e tutte socchiudevano gli occhi davanti all’abbagliante scintillìo che simile ad una leggendaria imperatrice di Bisanzio ne avrebbe coronata la chioma lussuosa: brillanti, rubini, smeraldi, zaffìri, ametiste… E taluna, che con inconfutabile autorità si dichiarava aggiornata relativamente ai segreti e alle vicende di quell’augusta dimora, satura di grandezza e circonfusa del più impenetrabile mistero, fra due sospiri ed abbassando il timbro della voce aggiungeva come nonostante il bel sorriso che una volta davanti al popolo le appariva stampato sul labbro, la Dogaressa non sarebbe riuscita a nascondere gli occhi arrossati dalle lacrime per essere dotato il Doge, oramai chi lo ignorava a Venezia? oltre che di un formidabile ingegno e un coraggio a tutta prova, di una virilità fuor del comune e dell’usato, come soltanto ad uomo di eccezionale natura e del più alto lignaggio può essere concesso, eccessiva né più né meno, spaventosa senz’altro e per la quale, al suo insaziabile ardore in tal campo, le grazie ed i favori di una sola donna non producevano nemmeno vento. Ciò che lasciava affondare nel cuore della povera Dogaressa ogni giorno di più un implacabile assillo alimentandone la gelosia nella forma più crudele che una donna abbia sofferto.
Conoscendo il grande amore, la struggente curiosità e l’entusiasmo che per il loro Doge i veneziani hanno sempre avuto, una cosa soltanto ci sorprende in questo fatto rendendoci ammirati fino a toglierci il respiro non potendoci togliere il cappello come si usava nel secolo scorso quando tutti per un nonnulla si scappellavano e per il gusto di scappellarsi era buono ogni pretesto, un vero peccato, ma qualche cosa ci dovevamo togliere per un caso veramente straordinario, ed è che a nessuno fosse balenato nel cervello sia pure con un fugacissimo pensiero, di rivolgergli il minimo rimprovero, nel tono più deferente e affettuoso beninteso, devoto fino alla prostrazione se vogliamo, per il motivo semplicissimo di non essersi lasciato vedere durante troppo tempo, di aver tenuto celata la propria persona per un periodo così lungo, privando i propri sudditi di quella che rappresenta la gioia più viva per loro: vedere, ammirare e salutare il Capo dello Stato, e che noi giudichiamo come un segno di disciplina, d’amore e di rispetto da portarsi universalmente quale esempio.
Ma il tempo, che durante l’accidia ci si presenta nel passare intollerabilmente lungo, da parere eterno, diviene poi tutto il contrario una volta passato, tanto che sul finire di un’intera esistenza per lunga e tribolata che sia e sgangherata a tutta possa, ci appare un sogno, un sogno vago, fugacissimo e leggero, che possiamo definire un lampo, un soffio come quando si spenge la candela: pfu!, e per i veneziani, resta facile capirlo, era come non avessero veduto il Doge da qualche giorno. Ragione per cui alle nove di quella mattina la Riva degli Schiavoni già brulicava di popolo in attesa, e che passeggiando su e giù si esercitava in discussioni e previsioni di circostanza, appassionate e svariatissime come abbiamo riferito, e tutti col naso rivolto in su nell’impazienza che la regale Loggia venisse aperta al loro sguardo.
Una mattina di fine agosto e in quel preciso momento allorché la calura dell’estate ormai in declino, diviene per tale brezza marina un pungente tepore che simile a una carezza annunziando l’autunno precoce delizia la pelle del viso, e fa socchiudere gli occhi in una luce palpitante comunicandoti un senso di vertigine voluttuoso.
I marmi che alla città imperiale compongono un abito vetusto, rivelano la sensibilità pronta e delicatissima della loro anima rispecchiando le iridescenze dell’acqua sotto il magistero della luce che li fa cambiar di rilievo e di colore da un momento all’altro.
D’avorio e di corallo era il Palazzo Ducale irradiato dal sole e ai suoi piedi in quel silenzio il Bacino di San Marco un favoloso tappeto di smeraldo increspato d’argento su cui le gondole, i motoscafi e tante piccole imbarcazioni sfiorando l’acqua con ritmo di danza o lievemente scivolando, recavano i nuovi ospiti appartenenti a tutte le categorie di tutte le parti del mondo: a coppie a frotte a branchi in gruppi o file indiane, in comitive, carovane, compagnie… e dappertutto una quantità inverosimile di valigie, accatastate, allineate, soprammesse, formanti architetture variopinte, originali e grottesche. E valigie lungo la Riva portate a mano a sacco a braccia a spalle da uomini che procedendo in forma di sandwich fra due valigie si facevano largo fendendo la folla con palese difficoltà e ripetendo in ritmica cadenza un varda!… varda!… d’inconsapevole civetteria più che di precauzione o di consenso, chiedendo d’essere ammirati nel faticoso ruolo, giacché il loro consiglio, così pieno di saggezza, come accade troppo spesso alle cose di questa natura, tutti si guardavano dall’accoglierlo non spostandosi di un millimetro dopo avere visto. E a te vien fatto di pensare se il vero saggio sia quello che propone la virtù o l’altro che la respinge in allegria. Valigie che in prossimità dei grandi alberghi venivano caricate e scaricate dai motoscafi e dalle gondole sulle quali s’imbarcavano o sbarcavano i pellegrini della bellezza sposata questa volta, e con formula piena, all’originalità; seguìti dai domestici carichi di valigie, e mentre che osservandole con assuefatta consuetudine molti le guardavano senza neppur vederle, altri si domandavano che cosa ci potesse essere dentro a tante valigie così grandi e così belle: fastose e geniali toilettes di dive e dame che avrebbero figurato nelle serate dei festivals, del cinema della musica e del teatro di prosa; nei balli dei palazzi, notti di fiaba, e delle navi di passaggio; nei ricevimenti presso gli alberghi di lusso o nelle beatitudini di un panfilo ancorato alla riva, culla bianca e oro di un vecchio signore favolosamente ricco.
E i nuovi ospiti a coppie, a gruppi, a branchi, a sciame, in carovane compagnie o file indiane, osservavano voracemente quella folla senza poter capire neppure alla lontana di che cosa si trattava, la ragione che la teneva lì e che cosa ci stesse a fare, quello che un tale fatto in quel preciso momento potesse rappresentare; ma veniva presa come tutte le altre in genere, uno spettacolo creato per il turista espressamente, allo scopo di tenerne viva la legittima curiosità e l’interesse, risvegliando la sua indispensabile facoltà di osservatore il più delle volte poco sagace, appagandosi troppo spesso delle fallaci apparenze o del non bene interpretato sentitodire, qualunque siano le cose o possano sembrare, della loro tanto facile quanto infida superficie non potendone penetrare così alla lesta la parte interiore, indovinarne la precisa funzione e il valore, la reale posizione nella vita del paese, il significato nel tempo passato come nell’ora corrente; e tanto meno il crescente anelito per cui si produceva su quella Riva una siepe sempre più fitta di umanità, addirittura impressionante, tanto da sentirsi soffocare e su cui galleggiava un sussurro sempre più basso, un clamore represso e ribollente di carattere religioso lo possiamo definire, tanta era la soggezione che nel più alto grado ispirava l’evento come non altro eccezionale, oltre che di una solennità stupefacente, per la naturale curiosità che agitava gli animi di piena ragione, e per il tempo che si concedeva il lusso di passare con una comodità snervante oltre che offensiva in un caso di tale specie. E a seconda dei gusti e delle facoltà intellettive, del grado e delle persone, i turisti trovavano tutto ciò più o meno piacevole, di maggiore o minore interesse, combinato bene o male, e magari addirittura detestabile; mentre quelli che per quanto stranieri si dichiaravano informati con indiscutibile profondità, capillarmente sulle faccende del paese assicuravano i compagni di viaggio essere quella la casa di Dante Alighieri famoso esploratore del Polo Nord, e come tanta gente si trovasse riunita per poterlo salutare mentre si preparava a partire per una nuova spedizione. E mostravano al largo, con adeguata competenza e rigore, una nave sulla quale di lì a poco si sarebbe imbarcato col proprio seguito per andare a rompere i ghiacci polari il vecchio esploratore.
Altri invece, meno ferrati nei fenomeni del cosmo come in quelli riguardanti la storia del paese, troppo lunga per poterla abbordare, ma al corrente in modo preciso su quelli pratici della vita attuale, vero esperanto in azione, e preoccupati per il continuo rincaro dei generi di assoluta necessità, assicuravano come tutti si trovassero davanti a quel palazzo per una dimostrazione di protesta dovendo sollecitare dalle preposte autorità un aumento di stipendio che consentisse di vivere senza lesinar troppo sulle spese giornaliere, visto che le entrate diminuivano a mano a mano che il prezzo della vita seguitava a crescere. E un signore di nazionalità indefinibile il quale dichiarava di conoscere la lingua italiana meglio di molti italiani certamente, può anche darsi che avesse ragione, per tale qualità avendo potuto attingere informazioni dirette, insisteva presso i compagni di viaggio, i quali da quella folla desideravano solo uscirne al più presto possibile, invitandoli a desistere e pazientare, giacché da un momento all’altro a quella Loggia si sarebbe presentato il Papa con la moglie.
Ma gli uni come gli altri tutti col naso voltato in su e con diverso spirito di osservazione, mentre che dappertutto apparivano e sparivano, venivano caricate e scaricate, si facevano largo nella folla portate a braccia, a mano, a spalle, da uomini che procedevano in forma di sandwich fra due valigie, con ogni mezzo e in ogni direzione, in ogni forma e dimensione, d’ogni colore: valigie… valigie… valigie… E quando apparve all’orizzonte sopra una grossa barca un cumulo di valigie di proporzioni mai viste e di un unico colore: azzurre, scorgendole da lontano le donne incominciarono a gridare che vi si trovavano dentro le toilettes di Sofia Loren, informando gli astanti assetati di un tale genere di notizie, che la diva sarebbe arrivata fra poche ore e che quello era il suo colore ufficialmente, giacché aveva fatto in tutte le capitali d’Europa e d’America un’incetta di zaffìri chiari portando quella gemma all’altezza delle sorelle più illustri e altolocate, e facendone salire il mercato a cifre astronomiche, dato che di quella usava coprire la persona ed ogni veste; né più né meno come la Dogaressa era coperta di perle, e aggiungevano, fra le notizie strepitose, che la Dogaressa l’avrebbe ricevuta sicuramente e in forma privata, del tutto amichevole, essendo sua appassionata ammiratrice, tanto che in una sala del Palazzo e per lei esclusivamente, si faceva proiettare ogni suo film non solo, ma si dava oramai per cosa fatta che non appena il Doge avrebbe celebrato col mare la più stretta relazione alla quale possa giungere un vivente, tanto mai stretta che capita a più d’uno, una volta dentro e in funzione di non potersi muovere, uscendo insieme dalla Reggia e sopra una bissona tutta d’oro le due famose donne sarebbero andate insieme laggiù laggiù dove l’azzurro del cielo forma una cosa sola con l’azzurro del mare ed in tale unità, l’una coperta di zaffìri e l’altra di perle, si sarebbero confuse nella poesia di un sogno paradisiaco: celeste. E mentre sulla Riva non era più possibile a nessuno circolare tanto la siepe umana s’era addensata paurosamente, per potersi aprire un varco quelli che dovevano passare con le valigie dovevano fenderla con tutte le forze, e procedendo come sotto il carico della propria casa usano fare le lumache, nonostante che vadano piano le più forzute del regno animale, e dell’uomo senza paragone, chi di noi recandosi al passeggio, pur camminando piano si potrebbe portare la casa sulle spalle? O fare la casa più leggera o le spalle più robuste. E al tempo stesso che nel Bacino di San Marco, da ogni parte, sbucavano e apparivano nuove imbarcazioni cariche di valigie, i veneziani pensavano oramai logicamente che essendosi sparsa per il mondo la lieta novella, da ogni parte del mondo si vedevano apparire valigie… valigie… valigie…
Gli attimi erano divenuti secoli e sempre più lunghi, addirittura interminabili nel passare via via che si andava avvicinando il momento solenne e mentre sulla Riva sempre più basso si faceva il clamore fino a quando, come per un processo di totale congelamento placandosi gradatamente, quella folla cadde in un silenzio polare agghiacciante comunicando brividi di freddo in tutti i corpi stretti l’uno all’altro per potersi riscaldare, e rivolti a quella Loggia che assumeva nella fissità degli sguardi proporzioni mitologiche e inquietanti al punto da incutere, oltre un religioso rispetto, il più sacro terrore: il canto di un grillo, il sibilo di una zanzara, l’ala di un passero o di una rondine avrebbero rappresentato in quel silenzio un intervento perturbatore. E non appena il primo dei fratellini mori con una puntualità da pretto mestierante e un distacco che finisce per irritare, battendo col martello la campana lasciò spandere nell’aria uguali e lenti dodici tocchi, dall’uno al dodicesimo tutti rattennero il respiro sentendoseli battere nel cuore; e i corpi stretti l’uno all’altro come per una conduzione dell’elettricità divenuti intercomunicanti, avvertiva ciascuno i brividi dell’altro e il palpitare in quella massa divenuta un solo cuore palpitante. E l’orologio di Piazza, che col primo dei suoi fratelli battendo sulla campana dodici colpi l’aveva resa sempre più avida e contratta, tesa come l’arco sul punto di scoccare, per la mano del morettino numero due uguali e lenti, con un’indifferenza veramente stomachevole lasciò spandere nell’aria i secondi dodici.
Dopodiché gli attimi si seguirono in un anelito divenuto ossessivo, struggente, che impediva a tutti qualsiasi genere di azione, fino a quando un moto iniziale d’inquietudine si produsse in quell’unico corpo che riprendeva vigore impercettibilmente dopo una paralisi totale, un processo di ribollimenti e incrinature da cui prese ad elevarsi il cupo gorgoglio di voci ancora represse che apparivano sotterranee.
Perché un tale ritardo? Come mai una cosa simile? Dopo che gli altoparlanti avevano dichiarato con tanta insistenza ed altrettanta chiarezza dai punti strategici della città che il Doge si sarebbe presentato alle dodici? Alle dodici precise.
Cupo gorgoglio che sempre più elevandosi da quella massa contratta pareva gonfiare… gonfiare… gonfiare… fino al momento che in tanta calca oramai satura di ansietà non incominciò ad articolare qualche voce, voce che parve sul principio il bisbiglio di chi temendo essere udito è il primo a paventare di sé.
Osò taluno affacciare quale sua particolare convinzione che la cosa si presentava normalissima nell’accezione più rigorosa del termine, essendo una tattica diffusa nella strategia dei grandi personaggi e approvata universalmente quella di farsi aspettare, giacché quanto più lunga sarà stata l’attesa, noiosa, stancante, insopportabile da morirne, e tanto più l’arrivo col naturale sollievo recherà sodisfazione, non volendo ciascuno essersi annoiato e stancato a vuoto, o per cos...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Anna Nozzoli
  4. Cronologia a cura di Adele Dei
  5. Nota bibliografica a cura di Simone Magherini
  6. Nota ai testi
  7. IL DOGE – STEFANINO – STORIA DI UN’AMICIZIA
  8. IL DOGE
  9. STEFANINO
  10. STORIA DI UN’AMICIZIA
  11. Copyright