I Cosacchi
eBook - ePub

I Cosacchi

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Un dissoluto ufficiale russo decide di iniziare una nuova vita facendosi inviare nel selvaggio Caucaso. Qui, a contatto con la natura e con gli abitanti fieri e orgogliosi, sembra trovare il senso di una nuova esistenza. Un capolavoro poco conosciuto del grande scrittore, che reca evidenti tracce autobiografiche.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804307389
eBook ISBN
9788852065101

I COSACCHI

I

A Mosca tutto tace. Solo di rado si sente il fruscio delle ruote di una carrozza sulla strada innevata. Alle finestre non si vede più nessuna luce e anche i lampioni sono spenti. Dalle chiese si diffonde il suono delle campane che, aleggiando sulla città addormentata, annuncia il mattino. Per le vie non c’è un’anima. Di tanto in tanto un vetturino che fa servizio di notte sposta la sua slitta da un angolo di strada ad un altro, solcando con i pattini sottili la neve mista a sabbia, e quindi si addormenta nell’attesa di un cliente. Oppure una vecchietta traversa la via per entrare in chiesa, dove già qualche candela di cera, disposta asimmetricamente, arde di una fiamma rossiccia che si riflette sull’oro delle icone. Il popolo che lavora già si alza dopo la lunga notte invernale per recarsi al suo lavoro.
Ma per i signori invece è ancora sera.
Da una delle finestre di Chevalier, dietro alle imposte chiuse, in contravvenzione ai regolamenti si vede filtrare della luce. Davanti al portone del ristorante stazionano una carrozza, una slitta e delle vetture di piazza addossate le une contro le altre. C’è anche una trojka1 da viaggio in attesa. Il guardaportone, tutto imbacuccato e intirizzito, si addossa all’angolo dell’edificio per ripararsi.
“Ma che gusto ci proveranno a fare tutte queste chiacchiere inutili?” pensa tra sé il lacchè dall’aria insonnolita che se ne sta seduto nell’anticamera della sala da pranzo. “E proprio quando io sono di turno!” Dalla saletta attigua, sfarzosamente illuminata, giungono le voci di tre giovani che stanno ancora cenando. I tre sono seduti accanto al tavolo ancora ingombro degli avanzi della cena e di bottiglie semivuote. Uno di essi, basso di statura, magrolino e bruttino, ma elegantemente vestito, se ne sta seduto fissando sull’amico in partenza lo sguardo dei suoi occhi buoni e stanchi. Un altro, di alta statura, se ne sta quasi disteso accanto al tavolo ingombro di bottiglie vuote, giocherellando con il perno dell’orologio. Il terzo, con una corta pelliccia nuova nuova indosso, cammina su e giù per la stanza, ogni tanto si arresta, fa scricchiolare una mandorla tra le dita piuttosto grosse e forti, dalle unghie ben curate, e intanto sorride a qualche suo pensiero, con gli occhi scintillanti e il volto in fiamme. Parla con calore, accompagnandosi con dei gesti, ma si vede che non trova le parole adatte, e tutte quelle che gli vengono in mente gli sembrano inadeguate ad esprimere i sentimenti che gli si affollano in cuore. Ma intanto non cessa di sorridere.
«Ormai possiamo dirci tutto!» esclama il terzo, che evidentemente è in procinto di partire. «Non è che io voglia giustificarmi, ma vorrei che almeno tu mi capissi così come io mi capisco, e non come della gente volgare può considerare tutta questa faccenda. Tu, per esempio, dici che io sono colpevole di fronte a lei» aggiunge, rivolto a quello piccolino e bruttino, che continua a fissarlo con quei suoi occhi buoni.
«Sì, sei colpevole» conferma quello, e si direbbe che il suo sguardo esprima una bontà e una stanchezza ancora più accentuate.
«Io lo so perché tu dici questo» continua l’altro. «Secondo te, essere amati è una felicità altrettanto grande quanto amare, e l’averla raggiunta può essere sufficiente per tutta la vita.»
«Sì, più che sufficiente, anima mia! Anzi, ce n’è d’avanzo» conferma quello bruttino e piccolino, aprendo e chiudendo gli occhi.
«Ma perché non posso amare io stesso!» replica l’altro, come soprappensiero e fissando l’interlocutore quasi con rincrescimento. «Perché non posso? Non lo so, ma l’amore non c’è. No, essere amato è un’infelicità, una vera infelicità perché senti che sei colpevole di non dare e di non poter dare all’altro ciò che egli ti offre. Oh, Dio mio!» Così dicendo, ha un gesto della mano. «E se almeno ci fosse un po’ di razionalità in tutto questo, ma invece è proprio al contrario e tutto accade non come vogliamo noi, ma secondo una volontà a noi estranea. Proprio come se io avessi rubato quel sentimento. E questo lo pensi anche tu; non negare, tu devi pensare proprio così. Ma che tu mi creda o no, tra le tante azioni sciocche e indegne che sono riuscito a fare nel corso della mia vita, ebbene questa è la sola di cui non mi pento e non posso neppure pentirmi. Né all’inizio, né in seguito io ho mai mentito, né di fronte a me stesso né di fronte a lei. Mi sembrava di essere riuscito finalmente a innamorarmi, ma poi mi sono accorto che la mia era un’involontaria menzogna, che non si poteva amare a quel modo e che non potevo andare avanti, ma lei invece era andata avanti. Forse sono colpevole per non aver potuto? Che cos’altro mi restava da fare?»
«Be’, ormai è tutto finito!» concluse l’amico, accendendo un sigaro per scacciare il sonno. «Solo una cosa è certa: tu ancora non hai mai amato e non sai cosa significhi amare.»
L’altro voleva dire ancora qualcosa e si afferrò la testa fra le mani. Ma evidentemente non riusciva a esprimere quel che sentiva.
«Non ho mai amato! Sì, è vero, non ho mai amato. Eppure c’è in me il desiderio di amare, un desiderio tale che non ce ne può essere uno più forte! Ma in realtà esiste davvero un tale amore? Rimane sempre qualcosa di non chiaro, non concluso. Ma del resto che sto a parlare! Ho combinato dei bei pasticci nella mia vita! Ma ormai tutto è finito, hai proprio ragione. Sento che ormai sta per cominciare per me una nuova vita.»
«Nella quale combinerai immancabilmente altri pasticci» intervenne quello che se ne stava steso sul divano, giocando con l’orologio; ma l’amico in procinto di partire non lo sentì.
«Sono contento di partire, eppure provo anche una certa tristezza», seguitò a dire, quasi fra sé. «Ma da dove viene questa tristezza, non lo so.»
E continuò su questo tono a parlare soltanto di sé, senz’accorgersi che per gli altri quell’argomento non era certo così interessante come per lui. L’uomo non è mai così egoista come nei momenti di esaltazione spirituale: in quei momenti infatti gli sembra che al mondo non ci sia niente di più bello né di più interessante di lui stesso.
«Dmitrij Andreič, il postiglione non vuole più aspettare!» annunciò, entrando nella stanza, un giovane domestico in pelliccia e con una sciarpa attorno al collo. «I cavalli sono pronti dalle dodici, e ora sono già le quattro.»
Dmitrij Andreič gettò un’occhiata sul suo Vanjuša. In quella sua sciarpa, nei suoi stivali di feltro e nel suo viso assonnato egli sentiva la voce di una nuova vita che lo chiamava a sé, una vita di fatiche, di privazioni, di attività.
«Ed effettivamente è giunta l’ora di dirsi addio!» dichiarò, frugandosi intorno al colletto per trovare l’occhiello sbottonato del pellicciotto.
Nonostante che gli amici gli consigliassero di dare ancora una mancia al postiglione, egli si mise il berretto e si piantò in mezzo alla stanza. Si baciarono una volta, poi un’altra, quindi, dopo una breve pausa, una terza volta. Quello che era di partenza si accostò al tavolo, vuotò il suo bicchiere, prese per mano l’amico piccolo e bruttino e gli disse, arrossendo:
«Comunque ti voglio dire… che con te io devo e posso essere sincero, perché ti voglio bene… Tu l’ami, è vero? Io l’ho sempre pensato… È così?»
«Sì» rispose l’altro, con un sorriso ancora più mite.
«E forse, chissà…»
«Scusate, ma abbiamo l’ordine di spegnere le candele», intervenne il lacchè dall’aria assonnata che aveva ascoltato quelle ultime battute di dialogo e non riusciva assolutamente a capire perché mai i signori ripetessero sempre le stesse cose. «A chi ordinate che sia presentato il conto, a voi signore?» aggiunse, rivolto a quello alto e sapendo già da prima a chi andava presentato.
«A me» rispose quello alto. «Quanto fa?»
«Ventisei rubli.»
L’altro ci pensò su un momento, ma non disse nulla e si ficcò il conto in tasca.
Intanto tra gli altri due gli addii continuavano.
«Addio, sei un gran bravo ragazzo!» disse quello piccolo e bruttino dagli occhi buoni e miti.
Entrambi avevano le lacrime agli occhi, e così si avviarono all’uscita.
«Ah, già!» esclamò quello che partiva, arrossendo improvvisamente, rivolto a quello alto. «Occupati tu del conto di Chevalier, e poi fammi sapere.»
«Sta bene, sta bene» rispose l’altro mentre s’infilava i guanti. «Come t’invidio!» aggiunse poi, in modo completamente inaspettato mentre uscivano all’aperto.
Quello che partiva salì sulla slitta, si avvolse per bene nella pelliccia e disse scherzosamente: «Be’, allora vieni anche tu» e si fece persino da parte per lasciare il posto a quello che aveva detto che l’invidiava. Ma la voce gli tremava.
Quello alto disse: «Addio, Mitja, che Dio ti…». Ma in realtà egli non voleva altro se non che Mitja se ne andasse al più presto, e questo naturalmente non poteva dirglielo; così lasciò la frase in sospeso.
Per un po’ ci fu silenzio, poi qualcuno disse ancora. «Addio!» qualcun altro disse: «Andiamo!» e il postiglione fece partire i cavalli.
«Forza, Elizar!» gridò qualcuno degli astanti.
I vetturini e il postiglione si davano da fare schioccando le labbra e tirando le briglie per incitare i cavalli. La pesante slitta, incatenata dal gelo, cominciò a stridere sulla neve.
«È un gran bravo ragazzo questo Olenin» commentò uno dei due rimasti. «Ma chi glielo fa fare di andarsene al Caucaso come allievo ufficiale? Io non ci andrei per tutto l’oro del mondo. Domani pranzi al circolo?»
«Sì.»
E i due amici si separarono.
Olenin provava una sensazione di tepore, anzi di vero e proprio caldo per la pelliccia in cui era imbacuccato. Si accomodò sul fondo della slitta e si sbottonò la pelliccia mentre i tre cavalli dal pelo arruffato trascinavano la pesante vettura di posta per le vie buie, passando accanto a edifici che egli non aveva mai veduto. Ebbe l’impressione che soltanto coloro che si mettevano in viaggio passassero per quelle strade. Intorno tutto era buio, triste, silenzioso, mentre Olenin si sentiva l’animo così pieno di ricordi, di amore, di rimpianti e di dolci lacrime che quasi lo soffocavano…

II

“Li amo, li amo tanto! Che bravi ragazzi! Che bella cosa!” ripeteva Olenin fra sé, e aveva voglia di piangere. Ma perché gli veniva da piangere? Chi erano quei bravi ragazzi? E chi amava tanto? In realtà non lo sapeva bene neppure lui. Ogni tanto gettava un’occhiata verso qualcuna di quelle case e si meravigliava di quel suo stato d’animo così particolare, oppure si stupiva del fatto che il postiglione e Vanjuša – che pure gli erano totalmente estranei – fossero lì, accanto a lui, e insieme a lui si scuotessero e ondeggiassero all’impeto dei bilancini che facevano forza sulle tirelle ghiacciate, e di nuovo ripeteva tra sé: “Che bravi ragazzi, li amo tanto”, e una volta disse perfino: “Ma sì, benissimo!”. Egli stesso si domandò meravigliato a che proposito dicesse una cosa simile, e si chiese tra sé: “Non sarò ubriaco, per caso?”. È vero che, per parte sua, si era bevuto un paio di bottiglie, ma non era certo solo il vino a produrre un tale effetto su di lui. Gli tornavano in mente tutte quelle parole di amicizia, così cordiali, a quanto gli sembrava, che gli erano state dette timidamente e quasi per caso prima della partenza. Gli tornavano in mente le strette di mano, le occhiate, i silenzi, il suono di quella voce che gli aveva detto: addio, Mitja! quando lui era già seduto nella slitta. Gli tornava in mente anche la sua propria estrema franchezza. E tutto ciò aveva per lui un significato straordinariamente commovente. Aveva come l’impressione che, prima della sua partenza, non soltanto gli amici e i parenti, ma anche coloro che gli erano indifferenti e perfino coloro che nutrivano antipatia o ostilità verso di lui, si fossero improvvisamente messi tutti d’accordo per volergli più bene e perdonarlo di tutto, come avviene prima della confessione o davanti alla morte. “Chissà, forse non tornerò più dal Caucaso’’ pensava tra sé. Gli sembrava di amare i suoi amici, e di amare anche qualcun altro. E provava una gran pietà per se stesso. Ma non era stato l’affetto per gli amici a commuovere ed esaltare il suo animo tanto da fargli sfuggire quelle parole insensate che gli uscivano involontariamente di bocca, e non era stato neppure l’amore per una donna – egli non aveva ancora mai amato – a metterlo in quello stato. Era l’amore per se stesso, un amore ardente, giovane e pieno di speranze, per tutto ciò che c’era di buono nella sua anima – e in quel momento gli sembrava che in essa vi fosse soltanto del buono – che lo faceva piangere e mormorare quelle frasi sconnesse.
Olenin era un giovane che non aveva portato a compimento nessun corso di studi, non era mai stato impiegato (soltanto una volta si era fatto assumere per breve tempo in non so quale ufficio pubblico), aveva scialacquato la metà delle sue sostanze e, a ventiquattr’anni compiuti, non si era ancora scelto nessuna carriera né aveva mai fatto nulla. Egli era ciò che, nella buona società moscovita, si usa chiamare «un giovanotto».
A diciotto anni Olenin si era trovato così libero come potevano essere liberi soltanto dei giovani e ricchi russi degli ann...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Cronologia della vita e delle opere di Lev Tolstòj
  5. Avvertenza del traduttore
  6. I COSACCHI
  7. Note
  8. Copyright