Arrigoni e la bella del Chiaravalle
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Arrigoni e la bella del Chiaravalle

Milano, 1952

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Arrigoni e la bella del Chiaravalle

Milano, 1952

Informazioni su questo libro

Una bellissima ragazza poco più che ventenne viene trovata morta in una casa del popolare quartiere milanese di Greco, in zona Naviglio Martesana. Non ci sono dubbi: è stata assassinata. È facile risalire all'identità della vittima: Carolina detta Lina, in arte Wilma, una mondina che aveva abbandonato i campi per dedicarsi al mestiere più antico del mondo, svolgendo la sua nuova professione al Chiaravalle, una casa chiusa a due passi dal Duomo. Ma chi l'ha uccisa?

Il compito di scoprirlo spetta al commissario capo Mario Arrigoni, attraverso un'indagine che lo mette a contatto con il mondo torbido e triste della prostituzione, all'epoca ancora concentrata nei cosiddetti "casini".

Gli interrogatori portano davanti al commissario un variegato campionario di umanità: una splendida collega di Carolina, una pittoresca maîtresse, tenutari di case, ruffiani, giovani innamorati, imprenditori, professionisti, tutti legati a doppio filo con l'esistenza della vittima.

Dopo una serie di avvenimenti che mettono a dura prova anche la saldezza morale dell'integerrimo commissario, il caso si risolve grazie a un paio dei suoi famosi colpi di genio. Ma il finale liberatorio non è immune da ombre, che, ancora una volta, rivelano come spesso la cattiveria del mondo e il suo contraltare siano ineluttabilmente intrecciati.

Con Arrigoni e la bella del Chiaravalle torna, in una versione riveduta e corretta dall'autore, la seconda avventura di Mario Arrigoni e del commissariato di Porta Venezia. E anche in questo romanzo si ritrovano tutte le caratteristiche che hanno reso Crapanzano uno degli autori di noir più amati in Italia: la profonda umanità dei personaggi, lo stile dolce e avvolgente, il perfetto meccanismo giallo della trama e la splendida ricostruzione dell'Italia dei primi anni Cinquanta.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804650478
eBook ISBN
9788852067860

1

Alle sette di una bella mattina di maggio, Attilio Robotti uscì dalla Magneti Marelli di Sesto San Giovanni, dove lavorava come operaio specializzato. Aveva appena finito il suo turno di notte e si preparava a tornare a casa, alla guida del suo fiammante Guzzino rosso, un 50 cc che era una via di mezzo fra lo scooter e una vera motocicletta, di cui riecheggiava la forma, con ruote alte e serbatoio a vista. A cinquantacinque anni (era nato quasi alla fine del secolo, nel 1897), in perfetta forma, Attilio si concedeva ancora questo piccolo piacere, affrontare la strada, pur se a velocità moderata, col viso accarezzato o frustato dall’aria, a seconda della temperatura. E se faceva molto freddo, si proteggeva, come molti ciclisti e motociclisti, con fogli di giornale ben ripiegati sotto la camicia. Gli mancavano cinque anni alla pensione, e poi si sarebbe potuto dedicare a tempo pieno alle sue passioni, che erano la pesca e le partite a carte. Purtroppo, quella che era stata la passione più grande, la moglie Pina, era mancata tre anni prima, a nemmeno cinquant’anni di età.
Quel mattino, sapeva che rientrando avrebbe trovato a casa la nipote Lina, figlia di una sorella della defunta moglie. Lina, all’anagrafe Carolina Marchesetti, una giovane donna di venticinque anni, molto bella e sensuale, esercitava, anche se ufficialmente all’insaputa di tutta la parentela, il mestiere più antico del mondo, nelle case di tolleranza dislocate in diverse città d’Italia. Quando lavorava a Milano, approfittava della giornata di libertà per visitare le varie zie e cugine che stavano in città, terminando con la zia Pina, alla quale era particolarmente legata, e presso cui spesso passava anche la notte. La tradizione era continuata anche dopo la morte della zia, alla faccia dei malpensanti che non trovavano così normale il fatto che una bella giovane trascorresse la notte nella casa dell’attempato ma, a detta di molti, piuttosto malandrino zio.
Carolina era nata a Montalba Sforza, paesino di un migliaio di abitanti in provincia di Pavia, in una cascina situata in mezzo alle molte risaie che costellavano la zona e della quale erano la principale risorsa economica.
Ultima di sei figli, cinque femmine e un maschio, Lina aveva cominciato presto a sgobbare, seguendo le orme di madre e sorelle, come mondariso, o mondina che dir si voglia. Nome originato dalla “monda”, la pulizia dalle erbacce infestanti, una delle più importanti fasi della coltivazione del riso, insieme con la semina o il trapianto (se la semina avveniva in vivaio), e la trebbiatura finale. Il mestiere della mondariso era molto meno romantico e folcloristico di come vorrebbero farlo passare certi nostalgici del bel tempo andato. Durante il loro lavoro, che poteva durare anche alcuni mesi, per la maggior parte del tempo le mondine stavano a mollo nell’acqua, le gonne ben sollevate e legate in vita, con bisce e serpentelli fra i piedi e mosche e zanzare che le pungevano da tutte le parti. Certo, cantavano (una delle loro canzoni, Bella ciao, è diventata, con qualche modifica di testo, la canzone simbolo della Resistenza), ma più per la disperazione e la rabbia che per la gioia. Le loro erano prevalentemente canzoni di protesta sindacale o anticlericale, rivolte cioè contro quelli che agli occhi del popolo erano la manifestazione più tangibile ed esecrabile del potere: i padroni e i preti.
In risaia lavoravano donne di tutte le età, sottoponendosi a fatiche e orari inumani in cambio di una misera paga, integrata a volte da qualche chilo di riso, se il padrone (il “padron dalle belle braghe bianche” di un’altra famosa canzone popolare) era in vena di generosità.
Il “padron dalle belle braghe bianche”, anche quando non era più tanto giovane, aveva l’occhio lungo, e non sfuggivano alla sua attenzione le mondine più belle, alle quali spesso offriva la possibilità di migliorare le condizioni di lavoro e la paga... a fronte di prestazioni non propriamente previste dal contratto.
La bella Lina aveva tutte le qualità per catturare gli sguardi degli uomini: alta più della media, lunghi capelli neri e ricci, gambe tornite e slanciate, seno prosperoso e sedere a mandolino, non avrebbe sfigurato al posto di Silvana Mangano nella famosa immagine simbolo di Riso amaro. Ma nessuno ancora era riuscito a sedurla, con le buone o le cattive, perché aveva un carattere determinato e ribelle e, se proprio doveva starci, voleva decidere lei come e con chi. E lo decise nell’ottobre del 1943 sposandosi, a soli sedici anni, con Aldo Roventi, un bel ragazzone ventenne, un contadino alto e robusto che incuteva rispetto solo a guardarlo, nonostante zoppicasse a causa di una malformazione a una gamba non curata da bambino. Senza dubbio, a Lina Aldo piaceva molto, ma nella sua scelta aveva giocato un ruolo non indifferente il senso di protezione che trasmettevano la sua forza e il suo coraggio. Nonostante il difficile periodo, i due giovani trascorsero alcuni mesi quasi felici, anche perché, a causa della sua menomazione fisica, Aldo era stato esentato dal servizio militare e, perciò, dalla partecipazione alla guerra. Riuscivano dunque a campare discretamente, grazie alle paghe che entrambi portavano a casa.
Si era nel bel mezzo di una guerra che, dopo aver portato all’Italia distruzione e lutti, già lasciava intravedere il suo triste epilogo. Dopo l’armistizio del nuovo governo italiano con gli alleati, nel settembre del 1943, il Paese si era diviso in due: alla fine dello stesso mese era nata, con sede a Salò sul lago di Garda, la Repubblica Sociale Italiana. Uno stato voluto dai nazisti, che controllava tutta l’Italia del nord, fino alla famosa “linea gotica”, che tagliava orizzontalmente la penisola da Massa Carrara a Pesaro. A capo del governo della neonata repubblica si insediò, forse anche contro la sua volontà, Benito Mussolini, liberato da un commando tedesco dalla sua prigionia sul Gran Sasso dove lo aveva relegato re Vittorio Emanuele III, dopo il 25 luglio. La Repubblica Sociale si rivelò ben presto uno stato fantoccio nelle mani dei nazisti e nel quale i fascisti, chiamati ora anche “repubblichini”, erano ridotti al ruolo di obbedienti e, se del caso, feroci comparse.
Dopo l’8 settembre, molti soldati dell’esercito italiano avevano disertato e, insieme con le centinaia di giovani che avevano rifiutato l’arruolamento nelle forze armate repubblichine, si erano dati alla macchia andando a ingrossare le fila delle sempre più numerose brigate partigiane, dislocate principalmente nella parte settentrionale di un Paese ormai alle soglie della guerra civile.
Aldo Roventi, di noti sentimenti antifascisti, nonostante la sua menomazione e il parere contrario della giovane moglie, decise di aderire alla lotta partigiana e venne assegnato a un contingente operante in Val d’Ossola. Ma la sua partecipazione fu di breve durata: nel marzo del 1944, cadde in un’imboscata, fu catturato e subito dopo fucilato. In quei momenti, le notizie faticavano a circolare e Lina ignorò a lungo la sorte del marito: senza ancora saperlo, era diventata una delle più giovani vedove italiane.
Partito Aldo, sola nella cascina con i suoceri vecchi e malandati, ad appena sedici anni si trovò a dover provvedere a loro, oltre che a se stessa, senza poter contare sull’aiuto di nessuno, visto che anche i suoi familiari e parenti a mala pena riuscivano a pensare alla propria sopravvivenza. Scarseggiava tutto, le poche cose coltivate nell’orto bastavano per qualche giorno, il pane della tessera annonaria era poco e cattivo, gli alimenti in vendita alla borsa nera avevano prezzi proibitivi. Spezzarsi la schiena in risaia poteva anche non essere sufficiente, perché la miseria dilagante rendeva le richieste di lavoro così numerose e pressanti che i padroni erano nella situazione di poter fare ancora di più il bello e il cattivo tempo. Per Lina, poi, c’era un altro problema: la sua prorompente bellezza e il suo stato di giovane col marito chissà dove e chissà con chi la rendevano automaticamente la candidata ideale per le voglie e i capricci dei potenti della zona, dai padroni delle risaie agli squallidi gerarchetti del nuovo regime. Lina decise di fare buon viso a cattivo gioco e, per non patire la fame e difendersi dai mille assalti, finì a letto con il padrone della risaia, un quarantenne borioso e arrogante che la concupiva da tempo. Diventò la sua “favorita” in cambio di un lavoro sicuro per sé e la sua famiglia d’origine, qualche regalino e, soprattutto, molti chili di riso. Il pensiero di Aldo era sempre più lontano e sfocato, anche se Lina provava un forte senso di colpa nei suoi confronti. Nel dicembre del 1944, le fu comunicato, attraverso canali ufficiosi, che il suo giovane marito era caduto “sotto il piombo fascista”. Una già brevissima storia era, così, veramente conclusa.
Quando finalmente la guerra terminò, con i suoi inevitabili strascichi di morti e vendette, Lina, ormai ufficialmente vedova, cominciò a domandarsi se valeva la pena continuare con quella vita, faticando come un animale e dipendendo in tutto e per tutto dagli esigenti e pressanti capricci del padrone, senza la possibilità di sbocchi alternativi. “Se devo allargare le gambe per sopravvivere” pensò, “tanto vale farlo per qualcosa di più sostanzioso.” Non era l’unica ad avere avuto questa idea, anche dalle sue parti: tutti sapevano per esempio che mestiere faceva la Giovanna, una sua prosperosa compaesana ormai più che trentenne, che periodicamente tornava a casa nelle pause del suo lavoro portando ogni ben di dio ai suoi familiari e parenti, guerra o non guerra. Lina individuò in lei la persona che poteva darle le informazioni giuste per intraprendere la poco onorevole ma, a quanto pareva, redditizia professione della prostituta. La prima volta che la vide in paese, le si avvicinò e, senza tanti giri di parole, le disse che aveva deciso di fare la puttana in casino: poteva darle una mano? Giovanna si schermì, fingendo di non capire il perché di una simile richiesta, ma alla fine si arrese e la mise in contatto con la persona per cui lavorava, proprietario di diverse “case” in Italia, Milano inclusa.
Inutile dire che al signor Robeschini non parve vero di poter arricchire la sua scuderia con una puledra di tale bellezza, e l’accordo fu subito trovato, naturalmente dopo un “assaggio” delle qualità della ragazza da parte del tenutario, assaggio che si sarebbe spesso ripetuto nel tempo. Così, Lina iniziò la sua nuova carriera, e dopo quasi sei anni si era ormai fatta la sua fama. Era attesa e ricercatissima in tutte le città dove si fermava, riuscendo a guadagnare molto di più delle tariffe ufficiali, grazie ai ricchi extra che otteneva da tutti i clienti. Pur conducendo una vita senza privazioni e dando notevoli aiuti economici a tutta la sua famiglia, inclusi un sacco di nipoti e cuginetti, aveva anche messo da parte un bel gruzzolo. Non essendo stupida, sapeva che prima o poi la festa sarebbe finita e, del resto, non aveva intenzione di continuare a fare marchette per tutta la vita. Per questo, stava risparmiando per costituirsi un capitale che un domani le consentisse di intraprendere una qualsiasi attività rispettabile, come molte sue “colleghe” avevano fatto, aprendo profumerie, caffè e osterie.
Il suo carattere forte e coraggioso le permetteva anche di non dover sottostare allo sfruttamento di un “magnaccia”: i soldi che guadagnava erano solo suoi. Aveva anche ricevuto molte allettanti proposte per diventare la mantenuta di qualche facoltoso cliente, ma non aveva mai accettato. In primo luogo, perché non si fidava. Se poi quello cambiava idea? Ma soprattutto, ci teneva alla sua libertà, meglio continuare a salire e scendere le scale dei casini: era faticoso, non solo per le scale, ma dopo un po’ ci si abituava.
Quel luminoso mattino di mercoledì 7 maggio del 1952, mentre il sole splendeva in un bel cielo azzurro senza nuvole, Carolina Marchesetti giaceva sul pavimento della stanza da letto dello zio Attilio, immersa in una pozza di sangue e con il ventre squarciato.

2

La casa dove abitava Attilio Robotti, in via Emilio De Marchi, si trovava nella zona nord di Milano, nel quartiere di Greco, fino a qualche decennio prima comune autonomo col nome di Greco Milanese. Un rione ricco di sapore e di storia, attraversato dal Naviglio della Martesana, un tempo chiamato “Naviglio Piccolo” per le sue dimensioni minori rispetto al “Grande”. La Martesana, creata deviando le acque dell’Adda, raggiungeva Milano dopo un tragitto di 19 chilometri. Lungo il suo corso, soprattutto in città, fiorivano molte attività artigianali, compresi tre mulini collocati nella zona dove attualmente si trova via Edolo (allora chiamata, appunto, via dei Tre Mulini). Vi si trasportavano anche merci e passeggeri: se era famoso il “Barchett de Boffalora” che solcava il Naviglio Grande, non lo era meno sulla Martesana il “Barchett de Vaver” (cioè di Vaprio d’Adda).
Nel 1952, il Naviglio era ancora a cielo aperto lungo tutta la via Melchiorre Gioia (sarebbe stato coperto agli inizi degli anni Sessanta), lambendo, proprio al termine della via, la leggendaria Cassina di Pomm, un antichissimo albergo-osteria, così chiamato per il grande meleto che un tempo sorgeva nei dintorni. La Cassina di Pomm poteva vantare citazioni e apprezzamenti da parte di letterati come il poeta milanese Carlo Porta e lo scrittore francese Stendhal. Per non parlare di Alessandro Manzoni, che nei Promessi Sposi vi fa sostare Renzo Tramaglino durante la sua fuga da Milano, che completerà attraversando il vicino Ponte di Leonardo.
Col tempo, Greco si era trasformato da borgo rurale in quartiere operaio, serbatoio di manodopera per le fabbriche milanesi, Pirelli in primis, e della vicina Sesto San Giovanni. Non mancava al rione una connotazione artistica, rappresentata dalla “cittadina di Greco” Clara Petrella, una famosa soprano detta “la Eleonora Duse del bel canto” per le sue notevoli capacità interpretative oltre che canore.
Il piccolo appartamento di due locali, al primo piano di una classica casa popolare di ringhiera, era zeppo di gente. Nella prima stanza, quella che fungeva da cucina e soggiorno, con tavolo, stufa, divano letto, buffet e controbuffet, c’era il padrone di casa, Attilio Robotti, un uomo maturo ma con i capelli ancora tutti di un bel nero corvino, non si sa se naturale o “aiutato”. Era seduto su una sedia, le mani sul viso a nascondere le lacrime che gli rigavano le guance, mentre gli stava vicino, consolandolo con parole sussurrate e carezze, una donna bruna sulla quarantina. Intorno, poliziotti della Scientifica che rilevavano impronte e passavano al setaccio tutta la casa. La porta di comunicazione con la camera da letto era chiusa. Al suo interno, il medico legale e altri esperti della Scientifica stavano esaminando cadavere, letto, mobili, pavimento...
Il commissario capo del Porta Venezia, Mario Arrigoni, il suo vice Mastrantonio e il giovane agente Di Pasquale, dopo una prima ispezione all’interno, erano usciti sul ballatoio, in attesa di iniziare i primi interrogatori una volta terminati tutti i rilievi necessari. Facevano loro compagnia decine di persone affacciate alle varie ringhiere dei quattro piani dello stabile, incuriositi e al contempo sconvolti dall’evento che li aveva sfiorati così da vicino.
Era stato proprio l’agente Di Pasquale, verso le otto di quella mattina, a ricevere la telefonata di una donna, certa Maria Spaghi, che chiedeva l’intervento della polizia: in un appartamento di via De Marchi, dove era ospite di uno zio, sua cugina Carolina Marchesetti era stata trovata morta, immersa nel sangue che le copriva tutto il basso ventre. La scoperta era stata fatta dallo stesso zio, appena rientrato dal turno di notte in fabbrica. Subito, Di Pasquale aveva avvisato i suoi superiori e i tre si erano precipitati all’indirizzo indicato, dopo aver richiesto l’intervento della Scientifica e del medico legale.
Fu proprio il medico legale il primo a uscire dall’appartamento. Immediatamente, il commissario interpellò il dottor Mariotto, sperando di avere subito qualche informazione.
«Buongiorno, dottore. Mi può già dire qualcosa?»
«Calma, commissario Arrigoni. La sua solita fretta... non le sembra un po’ presto per dare responsi?»
«Certo, ma qualche idea ce l’avrà, la conosco. Come è morta? Quando? A occhio, d’accordo, non pretendo una dichiarazione ufficiale...»
«A occhio... ma io sono uno scienziato serio» ironizzò il Mariotto, uomo noto per lo spirito oltre che per la competenza professionale, «però qualcosa le posso dire. La donna, fra l’altro molto bella, direi poco più che ventenne, è stata uccisa con una serie di colpi al basso ventre, inferti probabilmente con un paio di forbici più che con un coltello. Vista la coagulazione del sangue e il rigor mortis, posso anche azzardare che il decesso è avvenuto fra la mezzanotte e mezzo e l’una e mezzo, non prima, ma forse anche dopo. Contento? E non prenda appunti, non è un referto ufficiale» puntualizzò sorridendo, visto che Arrigoni già cominciava a scrivere sul suo taccuino.
«Sono per me, sa che con la vecchiaia si perde la memoria, meglio prendere nota» rispose allineandosi al tono del medico legale, al quale lo legavano una lunga consuetudine professionale e un rapporto molto cordiale, quasi amichevole.
«La saluto, commissario, e per la memoria, può sempre prendere qualche pastiglia al fosforo. Vuole la ricetta?»
Dopo l’ultima battuta, Mariotto iniziò a scendere le scale, proprio mentre uscivano dalla porta anche gli uomini della Scientifica.
«Avete trovato qualcosa?» subito li assalì Arrigoni, che non avrebbe voluto fossero portati via, per ulteriori analisi, reperti il cui esame poteva essergli utile per cominciare l’indagine.
«Commissario, la signorina non abitava qui, perciò non c’era niente di suo nell’appartamento, se escludiamo i vestiti che aveva indosso e la borsetta. Se vuole, posso farle vedere che cosa c’è dentro, a patto che lei non tocchi nulla, se non infilandosi questi guanti....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Arrigoni e la bella del Chiaravalle
  4. NOTA DELL’AUTORE
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  19. 15
  20. Copyright