Amici assoluti
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Amici assoluti

  1. 406 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Berlino, 1969. In un clima di rivolta e di resa dei conti con il passato, l'inglese Ted Mundy salva la vita a un giovane tedesco di nome Sasha. Tra il primo, figlio di un maggiore dell'esercito britannico in India, e Sasha, visionario leader studentesco, nasce un'"amicizia assoluta". Un legame più forte dei vincoli familiari, capace di sopportare lunghe assenze e superare le più grandi prove della storia.
Perché Ted e Sasha si trovano ad agire come spie sui lati opposti del Muro, nemici all'apparenza, in realtà una coppia di agenti che fanno il doppiogioco grazie al vincolo di lealtà personale. Ma l'amicizia solida durante la Guerra Fredda, pare incrinarsi improvvisamente con il Nuovo Ordine Mondiale. Dopo la seconda guerra in Iraq, Sasha, sessantenne, ricontatta Ted per l'ultima volta: un miliardario dalle mani non troppo pulite incarica Sasha di mettere in piedi un ambizioso progetto di controinformazione. Obiettivo: colpire la superpotenza americana e gli interessi delle multinazionali. Ma chi è veramente il misterioso committente? E cosa vale l'esperienza dei due ex agenti di fronte ai nuovi giochi di potere?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804550075
eBook ISBN
9788852066467

Amici assoluti

1

Il giorno in cui il suo destino tornò a reclamarlo, Ted Mundy faceva sfoggio di una bombetta e si ergeva in equilibrio precario su una cassetta di legno in uno dei castelli del re folle, Ludwig di Baviera. Non era la classica bombetta: l’effetto era più da Stan Laurel e Oliver Hardy che da Savile Row. Non era neppure originale inglese, a dispetto dell’Union Jack in seta orientale che decorava il taschino della sua vetusta giacca di tweed. L’etichetta macchiata d’unto e di sudore all’interno del copricapo rivelava che era opera di Steinmatzky & Figli, di Vienna.
E dato che il cappello non era di sua proprietà – come si affrettava a sciorinare a ogni malcapitato forestiero, preferibilmente di sesso femminile, che restava vittima della sua sconfinata affabilità –, non era nemmeno uno strumento di mortificazione. «È l’emblema del mio rango, Madame» insisteva, ricorrendo alla parlantina per giustificarsi in un teatrale pezzo di bravura collaudato alla perfezione. «Un gioiello carico di storia, affidato temporaneamente a me da generazioni di ex beneficiari della mia posizione: chierici vaganti, poeti e sognatori, uomini di Chiesa, ma tutti, dal primo all’ultimo, devotissimi servitori del defunto re Ludwig, hah!» L’“hah!” era una sorta di involontario regresso alla sua infanzia tra i militari. «D’altra parte, voglio dire, qual è l’alternativa? Non si può certo chiedere a un inglese purosangue di portarsi dietro un ombrello come le guide giapponesi, le pare? Non qui in Baviera, santo cielo, no. Non a ottanta chilometri da dove il nostro caro Neville Chamberlain sottoscrisse il patto con il diavolo. Lei ne sarebbe capace, Madame?»
E se la sua ascoltatrice, come capitava spesso, era troppo giovane, o carina, per aver sentito parlare di Neville Chamberlain e per capire a quale diavolo venisse associato, allora, in uno slancio di generosità, l’inglese purosangue le forniva la sua versione per profani del vergognoso Patto di Monaco del 1938, senza esimersi dall’osservare come anche la nostra amata monarchia britannica, per non parlare – tornando sulla Terra – della nostra aristocrazia e del Partito conservatore inglese, preferissero in pratica un accordo qualsiasi con Hitler piuttosto che una guerra.
«Classe dirigente e autorità britanniche assolutamente terrorizzate dal bolscevismo, capisce?» sbotta, nell’elaborato stile telegrafico che, come “hah!”, s’impadronisce di lui quando è lanciato. «Poteri economici e politici americani niente affatto diversi. L’unica cosa che volevano tutti era che Hitler si scatenasse contro il pericolo rosso.» Di conseguenza, agli occhi dei tedeschi, l’ombrello arrotolato di Chamberlain continua a essere, “ancora oggi, Madame”, il vergognoso simbolo dell’eccessiva arrendevolezza britannica davanti al “nostro caro Führer”, l’invariabile appellativo di Mundy per Adolf Hitler. «Le dico francamente, in questa nazione, come inglese, preferisco bagnarmi da capo a piedi in caso di pioggia anziché portarmi dietro un ombrello. Comunque, lei non è venuta qui per questo, vero? È venuta a vedere il castello prediletto del folle Ludwig, non ad ascoltare un vecchio rompiscatole che inveisce contro Neville Chamberlain. Cosa? Come dice? Certo. È stato un piacere, Madame.» Facendo la parodia di se stesso, Mundy solleva di scatto la tesa della bombetta da clown e rivela un anarchico ciuffo di capelli brizzolati che sfugge dalla trappola come un levriero rilasciato dal box a inizio gara. «Ted Mundy, giullare alla corte di re Ludwig, per servirla.»
E chi pensano di avere incontrato, questi Billies – o “pellegrini”, come vengono definiti di solito siffatti clienti dagli operatori turistici inglesi –, ammesso che ci pensino? Chi è questo Ted Mundy, nei loro fugaci ricordi? Una specie di cabarettista mancato, ovviamente. Un fallito in qualche altro mestiere, che recita per professione la parte dell’inglese imbecille, con tanto di bombetta e bandiera sul taschino, tutto per tutti e niente per sé, cinquant’anni suonati da un pezzo, abbastanza simpatico, ma non gli avrei affidato necessariamente mia figlia. E quelle rughe verticali tra le sopracciglia, simili a sottili incisioni di bisturi, a che cosa erano dovute? Collera o incubi? Ted Mundy, guida turistica.
Mancano tre minuti alle cinque, è un pomeriggio di fine maggio e l’ultima visita guidata del giorno inizierà tra un momento. L’aria si sta facendo più fresca, un bel sole rosso di primavera sta lentamente affogando tra le cime dei giovani faggi. Ted Mundy è appollaiato sul balcone come una cavalletta gigante, seduto sulla balaustra con il corpo piegato sulle ginocchia e la bombetta inclinata sopra gli occhi per proteggerli dai raggi del sole al tramonto. Medita sulle notizie di una copia stropicciata della «Süddeutsche Zeitung», arrotolata come per darla da mordere al cane, che conserva in una tasca interna della giacca per i momenti di pausa tra un gruppo e l’altro. La guerra in Iraq è finita da sette settimane. Mundy, suo strenuo oppositore, sottopone gli articoli di taglio basso a un attento esame: il primo ministro Tony Blair parte oggi alla volta del Kuwait per ringraziare i kuwaitiani del fattivo contributo alla vittoria.
«Umf» grugnisce ad alta voce aggrottando le sopracciglia.
Nel corso del suo viaggio Mr Blair effettuerà una breve sosta in Iraq. L’interesse del primo ministro britannico si volge alla ricostruzione, non al trionfalismo.
«Lo spero bene, dannazione» borbotta Mundy, tetro più che mai.
Mr Blair non ha il benché minimo dubbio: presto le armi di distruzione di massa irachene saranno scoperte. Il segretario americano alla Difesa, Rumsfeld, sostiene invece che l’Iraq potrebbe averle distrutte prima dell’inizio della guerra.
«Perché non vi mettete d’accordo, razza di imbecilli?» mugugna Mundy.
Fino a quel momento la sua giornata ha seguito la solita routine complessa e inverosimile. Alle sei in punto si alza dal letto che divide con Zara, la sua giovane compagna turca. Attraversa in punta di piedi il corridoio e sveglia Mustafà, il figlio undicenne della donna, in tempo perché si lavi, reciti le preghiere del mattino e faccia colazione con pane, olive, tè e crema al cioccolato spalmata su una o due fette di pane che Mundy gli ha preparato nel frattempo. Il tutto in un’atmosfera di grande segretezza, nel massimo silenzio. Zara fa il turno serale in un kebab café vicino alla principale stazione ferroviaria di Monaco e non deve essere svegliata per alcun motivo. Da quando ha cominciato quel lavoro torna a casa alle tre di notte, accompagnata da un amico curdo che fa il tassista e abita nello stesso caseggiato. Il rito musulmano le permette di recitare una breve preghiera appena rientrata in casa prima dell’alba e di godersi poi otto ore filate di sonno, che è ciò che le occorre. Ma la giornata di Mustafà inizia alle sette, e anche lui deve pregare. C’è voluto tutto il potere persuasivo di Mundy, e anche quello di Mustafà, per convincere Zara a lasciare che fosse Mundy a occuparsi della devozione di suo figlio e, da parte sua, pensare solo a dormire tranquilla. Mustafà è un bambino silenzioso come un gatto, con una calotta di capelli neri, occhi castani spaventati e la voce rauca e dai toni a saliscendi dell’adolescente che la sta cambiando.
Dal loro caseggiato, uno squallido scatolone di cemento umido con tubature e cavi a vista sulla facciata, l’uomo e il ragazzo fanno un pezzo di strada in mezzo a una desolante terra di nessuno fino alla fermata dell’autobus: una pensilina coperta di graffiti e scritte, per la maggior parte volgari e offensive. L’isolato è quello che di questi tempi viene chiamato “un villaggio etnico”: curdi, yemeniti e turchi ci vivono ammassati tutti insieme. Altri bambini sono già arrivati, alcuni accompagnati dalla madre o dal padre. Per Mundy sarebbe logico affidare Mustafà alla combriccola, ma preferisce accompagnarlo fino a scuola in autobus e stringergli ostentatamente la mano davanti ai cancelli, e talvolta baciarlo formalmente sulle guance. Nel crepuscolo infantile precedente la comparsa dello spilungone inglese nella sua vita, Mustafà ha sofferto umiliazioni e paure a non finire. Ha bisogno di rigenerarsi.
Mundy impiega venti minuti per ritornare a casa a piedi, affrettando il passo con le sue gambe lunghe, e vi arriva diviso equamente fra la speranza che Zara stia ancora dormendo e la speranza che si sia appena svegliata, nel qual caso potrebbe fare l’amore con lui, dapprima un po’ assonnata, poi con crescente passione, prima che Mundy si sieda al volante del suo vecchio Maggiolino Volkswagen e si immetta nel traffico diretto a sud, per i settanta minuti che ci vogliono per raggiungere il castello di Linderhof, dove lavora.
Il viaggio è una scocciatura ma è necessario. Un anno prima tutti e tre i membri della famiglia vivevano da soli, separatamente, la loro disperazione. Oggi sono una squadra d’assalto con l’obiettivo comune di migliorare la loro vita insieme. La storia di come sia accaduto il miracolo è un affresco di ricordi che Mundy ripercorre mentalmente ogni volta che il traffico minaccia di farlo impazzire.
È in bolletta.
Di nuovo.
È praticamente in fuga.
Egon, il suo socio e condirettore della Scuola di inglese – un’impresa già in cattive acque –, ha depredato il loro conto in banca ed è fuggito con le rimanenze di cassa. A sua volta Mundy è stato costretto a scappare di nascosto da Heidelberg nel cuore della notte, con quel poco che è riuscito a stipare nella Volkswagen e i settecento (e quattro) euro in banconote di piccolo taglio più gli spiccioli che Egon, nella sua superficialità, ha tralasciato di rubare dalla cassaforte.
Giunto a Monaco alle prime luci dell’alba, Mundy lascia la Volkswagen targata Heidelberg in un angolo appartato di un parcheggio a torre, nel caso i creditori abbiano un mandato di sequestro. Poi fa ciò che fa sempre quando la vita rischia di soffocarlo: si mette a camminare.
E poiché per tutta la vita, per ragioni che risalgono alla sua infanzia, ha sempre avuto una naturale propensione per la diversità etnica, i piedi lo portano quasi istintivamente in una strada piena di negozi e caffè turchi che stanno giusto aprendo i battenti. La mattina è soleggiata, Mundy sente un buco nello stomaco, sceglie un locale a caso, quindi adagia con cautela la sua lunga sagoma spigolosa su una seggiola di plastica che si rifiuta di stare ferma sul selciato sconnesso e ordina al cameriere un caffè turco in tazza grande, mediamente zuccherato, e due panini ai semi di papavero con burro e marmellata. Ha appena iniziato a fare colazione, quando una giovane donna si siede al suo tavolino e, coprendosi parzialmente la bocca con la mano, gli domanda, con un esitante accento turco-bavarese, se vuole andare a letto con lei per denaro.
Zara non ha ancora trent’anni ed è incredibilmente, inesorabilmente bella. Indossa una leggera camicetta azzurra e un reggiseno nero; la gonna nera è abbastanza corta per mostrare le lunghe cosce nude. È magra in modo sospetto. Mundy pensa erroneamente alla droga. Più a lungo di quanto sarebbe disposto ad ammettere, coltiva anche una mezza intenzione di accettare l’offerta, un pensiero che poi lo farà vergognare. Ha passato la notte in bianco, non ha un lavoro, non ha una donna e, a parte quattro spiccioli, è al verde.
Ma quando osserva più attentamente la donna con cui pensa di andare a letto, le legge nello sguardo una tale disperazione e una tale intelligenza in fondo agli occhi, e una tale mancanza di dimestichezza come prostituta improvvisata, da indurlo a reprimere il proprio impulso e a offrirle invece la colazione, invito che lei accetta con diffidenza, a patto di portarne a casa metà alla madre ammalata. Mundy, a quel punto enormemente grato di essersi imbattuto in un altro essere umano in cattive acque, ha un suggerimento migliore: lei finisca pure la colazione, dopo di che andranno insieme a comprare qualcosa per sua madre in uno dei minimarket Halal di cui la zona abbonda.
Zara lo ascolta con il viso privo di espressione e gli occhi bassi. Pervaso da una disperata empatia nei suoi confronti, Mundy sospetta che si stia chiedendo se è solo matto o anche pericoloso. Si sforza allora di non sembrare né l’uno né l’altro, ma fallisce miseramente. Con un gesto che gli tocca il cuore, Zara tira con entrambe le mani la tazza e il piatto verso di sé, sul suo lato del tavolino, casomai lui cambiasse idea e intendesse ritirare l’offerta.
Così facendo, scopre la bocca. I quattro incisivi sono spezzati alla radice. Mentre lei fa colazione, Mundy scruta la via in cerca del magnaccia, ma a quanto pare la donna ne è sprovvista. Forse il suo protettore è il titolare del caffè. Mundy non lo sa, ma il suo istinto protettivo ha già preso il sopravvento. Quando si alzano per andare via, Zara si accorge che la sua testa arriva a malapena alla spalla dello sconosciuto. Allarmata, si allontana bruscamente da lui. Mundy adotta la sua andatura curva da uomo troppo alto, ma Zara continua a tenersi a distanza di sicurezza. A quel punto lei è diventata la sua unica preoccupazione. I suoi problemi personali sono trascurabili rispetto alle difficoltà di Zara. Al minimarket Halal, incoraggiata dai consigli insistenti di Mundy, la donna compra una vaschetta di carne d’agnello, tè alla mela, cuscus, frutta, miele, verdura, halva e un’enorme barra triangolare di cioccolato Toblerone in offerta speciale.
«Ma quante madri hai, in realtà?» le chiede Mundy, allegramente. Lei però non ride alla battuta.
Mentre fa la spesa è ancora tesa e non parla, a parte qualche commento in turco, coprendosi la bocca, per poi indicare perentoriamente alcuni frutti con il dito: «Non quello, l’altro». La velocità e la precisione con cui calcola i prezzi non mancano di stupire Mundy. Sarà anche un uomo dal carattere multiforme, ma non è mai stato un negoziatore. Quando si offre di portare i sacchetti della spesa – ormai ce ne sono due, entrambi pesanti –, lei glieli strappa di mano con strattoni feroci.
«Tu dormire con me?» gli chiede di nuovo, con fastidio, quando li ha al sicuro nelle mani. Il messaggio è chiaro: hai pagato per me, perciò prendimi e poi lasciami perdere.
«No» risponde Mundy.
«Che cosa vuole?»
«Accompagnarti a casa, al sicuro.»
Lei scuote vigorosamente la testa. «Non casa. Hotel.»
Mundy cerca di spiegare che le sue intenzioni sono amichevoli, più che sessuali, ma lei è troppo stanca per ascoltarlo e comincia a piangere senza cambiare espressione.
Mundy opta per una sosta in un altro caffè e i due si siedo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. AMICI ASSOLUTI
  4. Dossier. Vita da spia. a cura di Paolo Bertinetti
  5. Copyright