La zia subacquea e altri abissi famigliari
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La zia subacquea e altri abissi famigliari

  1. 396 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La zia subacquea e altri abissi famigliari

Informazioni su questo libro

"C'è un luogo riparato, una specie di cittadella inespugnabile o di baia segreta, dove il mio numero di telefono continua a essere 602146, mia nonna materna continua ad avere settantatré anni e io d'estate continuo a mangiare tacconi al pesce, in Abruzzo.

Fuori da questo luogo riparato, il mio numero di telefono è cambiato diverse volte e mia nonna materna è morta ultranovantenne. L'Abruzzo invece è sempre lì, ma non ci torno da una vita." Le parole che aprono La zia subacquea e altri abissi famigliari contengono già tutto l'incanto prodigioso e paradossale che percorre ogni pagina del libro. Se è vero, infatti, che solo il narratore ha una nonna che continua ad avere settantatré anni, un numero di telefono che non smette di essere 602146 e un Abruzzo tutto suo, è altrettanto vero che il luogo riparato, la baia segreta di cui parla Enzo Fileno Carabba esiste nel cuore di ogni essere umano.

La zia subacquea si regge proprio sull'equilibrio miracoloso tra quanto c'è di unico e irripetibile in ogni singolo individuo e quanto invece è universale e comune a tutte le esistenze. E l'argomento del libro è un tema apparentemente intimistico ma in realtà capace di squarciare il velo sugli abissi più profondi della letteratura di ogni tempo: il racconto in prima persona di una vita, la storia di una famiglia, di un uomo, dall'infanzia alla paternità. La scrittura è l'unico modo di salvare il proprio irripetibile patrimonio di affetti ed esperienze, prima che le cose finiscano e vadano "a nascondersi chissà dove, influenzando il futuro dall'ombra".

A guidare Carabba in questa personalissima ricerca del tempo perduto è la straordinaria capacità di usare l'ironia, che lo rende un autore unico nel panorama letterario italiano. Il suo umorismo non è satira né comicità fragorosa, ma un tono costantemente ironico, a volte stralunato a volte romantico, che ricorda certi film di Fellini o alcuni grandi autori americani o inglesi come Mark Twain, Gerald Durrell, o anche Oscar Wilde nelle sue commedie.

La zia subacquea e altri abissi famigliari è scritto in una lingua perfetta, elegante e raffinata, ma al tempo stesso calda e avvolgente, attraversata da improvvisi lampi che inducono il lettore alla commozione o al riso.

Perché, parafrasando Tolstoj, ogni famiglia si assomiglia, ma ogni famiglia è famiglia a modo suo.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804652373
eBook ISBN
9788852067853
Prima parte

L’IMMUNITÀ SEGRETA

Le discese estreme

C’è un luogo riparato, una specie di cittadella inespugnabile o di baia segreta, dove il mio numero di telefono continua a essere 602146, mia nonna materna continua ad avere settantatré anni e io d’estate continuo a mangiare tacconi al pesce, in Abruzzo.
Fuori da questo luogo riparato, il mio numero di telefono è cambiato diverse volte e mia nonna materna è morta ultranovantenne. L’Abruzzo invece è sempre lì, ma non ci torno da una vita.
A San Vito Chietino c’era uno scoglio in mezzo al mare – immagino ci sia ancora – che per via della sua posizione distante dalla riva veniva chiamato “scoglio di fuori”. Stava davanti a un trabocco che secondo Gabriele D’Annunzio, famoso poeta dalla vita inimitabile, è simile a un ragno gigantesco. All’epoca di D’Annunzio dovevano andare in giro ragni particolari.
Mio nonno si ricordava il giorno e l’ora in cui per la prima volta avevo raggiunto lo scoglio di fuori a nuoto. Era una cosa importante: quando uno raggiungeva lo scoglio di fuori (e tornava) poteva essere considerato un nuotatore.
L’estate successiva (stavamo là tre mesi) presi confidenza con lo scoglio di fuori: ci tornavo spesso. Infatti, volendo essere onesti, non era poi così lontano per un uomo nel pieno del suo vigore, come ero io a sette anni. Questo a livello fisico. Perché invece sul piano spirituale era un confine estremo e ci voleva coraggio per raggiungerlo.
Insomma, quell’estate andavo e tornavo dallo scoglio di fuori, da solo. Mio nonno (il nonno paterno, di cui porto il nome) diceva che nonostante fossi furbo come una volpe non dovevo esagerare con la confidenza.
Durante una di queste mie nuotate catturai un grosso peloso. La breve cattura avvenne in assenza di testimoni. Per quanto riguarda i pelosi, si trattava di granchi di scoglio splendidi e robusti, con una chela per tagliare e una per stringere. Creature leggendarie. Nonostante il nome, erano sostanzialmente glabri, a parte qualche pelo sulle chele. Si diceva che quelli grossi fossero in grado di piegare un accendino di plastica, anche se oggi mi rendo conto che non poteva capitargli spesso l’occasione. Per prenderli ci voleva arte. E non quell’arte che anche il più pauroso degli uomini può esercitare al chiuso di una stanza. Ci voleva un’arte fatta di audacia. Bisognava sorprenderli da dietro e bloccare le due chele con una mano sola, un’operazione difficile anche per gente esperta e vissuta come i diciassettenni. Addirittura un ventenne, scaltro e pieno di malizia a causa dell’età avanzata, ne era uscito con un dito rotto.
In quei fondali, negli appezzamenti più algosi, abitavano anche le grancevole, la cui fama è certo superiore ai meriti. Quelle sì che sembravano pelose, con tutte le alghine addosso, e anche un po’ fangose. Potevano essere più grosse dei pelosi ma avevano delle chele esili e lunghe, sproporzionate, inoffensive. Erano lente nei movimenti e nel comprendonio. Suscitavano nell’individuo sensibile una pena infinita. Pescarle era facile e non richiedeva virtù.
Gli adulti mostravano di preferirle, anche dal punto di vista gastronomico, che era poi l’unico punto di vista della maggior parte degli adulti. Ma questa preferenza dimostrava solo quanto fossero vittime di una moda incomprensibile.
Una volta, ormai grande, ho visto scritto sul muro di una scuola: “Quello che conta è ciò che a voi non interessa”. È proprio quello che sto cercando di dire.
Per quanto riguarda la cattura temporanea del peloso, andò così. Mi ero spinto allo scoglio di fuori nonostante il mare fosse un po’ mosso. Lo scoglio presentava una vasta estensione appena sommersa, a circa un metro dalla superficie. Lì c’erano delle strane impronte scavate nella roccia, che proseguivano nella zona emersa. Mio nonno, grande narratore, mi aveva riferito che erano il segno di un combattimento tra i centauri e non mi ricordo quali creature marine.
Proprio lì, nell’acqua bassa luminosa, si aggirava il peloso più grande che avessi mai visto. Però lo riconobbi: era un dio. Col mare mosso era più facile che gli esemplari di mole andassero in giro e si esponessero quindi a una presa da dietro. Così avvenne. Mi ritrovai la creatura leggendaria tra le mani. Solo che rivelò una forza perfino superiore alle aspettative. Spingeva indietro le chele cercando di aprire la mia mano. Le ondine, sballottandomi, si esaltarono fino a crescere, si nutrivano della mia emozione. E insomma non so come dirlo ma, appena mi staccai dallo scoglio e ripartii alla volta della costa italiana, cercando di nuotare con un braccio solo, il peloso, spingendo a tutta forza con quelli che potremmo chiamare i gomiti delle chele, si liberò. Era un dio meccanico? Lo vidi cadere verso il fondo, che in quel punto era alto, e non osai inseguirlo. Planava, con le chele e le zampe larghe, come un paracadutista acrobatico prima di aprire il paracadute.
Non ho visto mai più un peloso di quelle dimensioni, forse si sono estinti. Rimpiccioliva nella discesa. Sprofondando verso il passato mi guardava. Quello fu il nostro addio.
Se c’era un adulto che coglieva il valore dei pelosi, un valore sia morale che alimentare, questo adulto era mio nonno, originario di quei luoghi. Era anche una persona capace di ascoltare gli altri. Sembrava proprio contento di ascoltare, senza sovrapporsi. Questa singolare caratteristica generava in me una grande fiducia non solo nei suoi confronti ma anche – quando lui mi ascoltava – nel mondo in generale. Quando due ore dopo arrivò alla spiaggia di sassi, io corsi verso di lui per raccontargli la mia cattura. Avevo avuto tra le mani un dio.
Cominciai a dirglielo già mentre scendeva dalla scala di legno che dalla massicciata portava alla spiaggia e continuai quando fu arrivato. Quel momento non me lo posso dimenticare. Il nonno portava una maglietta azzurra. Ascoltava, sorrideva, era contento. Forse non credeva del tutto alle mie parole, questo dubbio mi è rimasto, ma certo sentì l’entusiasmo incontenibile che mi sprizzava anche dai capelli. E poi il nonno discendeva da un’antica tradizione politeista mediterranea.
Ci sono momenti solo tuoi. Momenti interni che recuperi attraverso discese estreme in regioni segrete della tua mente. Impossibili da trasmettere e condividere. Momenti che per nessun altro sono stati decisivi. Quello è stato uno di quei momenti. Un momento che non lascia traccia esterna, pensavo.
E invece no. Proprio l’anno scorso, molti anni dopo la breve cattura, sono rimasto folgorato nel trovare due fotografie che mi ritraggono mentre, con mimica e parole, torcendo una mano, come se la torsione donasse verità alle parole, racconto a mio nonno l’impresa. Lui in una foto guarda me e nell’altra sorride guardando verso il misterioso fotografo, che senza saperlo ha colto un momento interno.
Ma se osservo a lungo la seconda fotografia, mi sembra che stia sorridendo a me, adesso.
Tornavamo a pranzare in albergo, all’Hotel Garden. Mi presentavo con i capelli ancora bagnati di mare. C’era Florindo, un capocameriere che mi chiamava “signorino”. Cosa vuole il signorino? Io mi chiedevo se faceva sul serio o mi prendeva per il culo. Forse era solo un problema di incomprensione linguistica: la mia vita ne è costellata. Mia nonna Letizia era in guerra permanente con Florindo. Una volta lui le portò una mozzarella, ma posò il piatto con malagrazia. Allora la nonna disse: «Questo lo prende lei» e glielo rilanciò. Un lancio elegante, misurato, bisogna dire, di una ventina di centimetri, e la mozzarella atterrò al margine del tavolo.
Lui riprese il piatto e senza far parola si allontanò, con uno sguardo di fuoco. Avvenivano spesso scenette simili tra Florindo e mia nonna. Sicuramente si divertivano.
C’erano i tacconi al pesce. E i tacconi, in quell’angolo inespugnabile della mia mente, rimangono il mio alimento principale. È vero che non li mangio da una venticinquina d’anni. Se mi concentro i tacconi sono quadrati di pasta, li sento morbidi, elastici, abbastanza spessi. Galleggiano in un sugo scuro di pesce e pomodoro.
Mio nonno si faceva sempre portare un piattino a parte, coi peperoncini freschi, che aggiungeva a qualsiasi cosa. Era questo un segno di appartenenza a quell’antica civiltà mediterranea fatta di sole e di mare, lo intuivo. Un mondo addirittura anteriore a Roma e Atene. Questo retaggio profondo aveva conseguenze nella vita quotidiana. Esistevano norme segrete. Il numero di bagni in mare che facevo in un giorno aveva un valore. Le persone da poco facevano pochi bagni.
Nella nostra famiglia c’era anche una componente appenninica incarnata dalla nonna materna, Nadia. Parliamo di una civiltà ben diversa, fatta di monti e di boschi, più rude forse, più semplice, ma non per questo meno poetica, meno ricca o meno antica.
Diversa, questo sì.
Nascevano delle polemiche scherzose, a distanza, perché un altro mio piatto preferito era opera della nonna appenninica, settantatré anni permanenti, che d’estate stava in un paesino tra le montagne chiamato San Piero in Bagno. In certi periodi ci andavo anch’io e una volta durante una passeggiata eravamo stati inseguiti da un toro. Era enorme, avrebbe avuto difficoltà a passare da una porta. Non era stato creato per le porte normali. Al massimo per le grandi porte delle città leggendarie. Ma era così veloce che sembrava volare. “A San Piero / c’è soltanto un toro nero” aveva scritto il nonno Fileno, cioè il nonno paterno, abruzzese, alla nonna Nadia, appenninica, per sminuire quei luoghi. Ho poi appreso che il toro alato è una tipica figura etrusca, il che mi sembra conferisca dignità a tutto quanto. Il piatto della nonna appenninica consisteva nel bollire un pomodoro insieme alla pasta e poi schiacciare il pomodoro sulla pasta. Aggiungere burro, olio, parmigiano e poi servire in tavola. A tutt’oggi non ho trovato di meglio, e quando aprirò un ristorante lo chiamerò “Al pomodoro schiacciato”. Dato che invece la nonna Letizia quando era in città si prodigava in piatti più elaborati, si arrabbiava per questo mio entusiasmo.
Un’altra cosa che mi dava la nonna Nadia era l’uovo fresco, o uovo del contadino. La nonna paterna sosteneva che l’uovo fresco – anche se resta del contadino – dopo un po’ smette di essere fresco, mentre io avevo chiaro che “uovo fresco” era una caratteristica destinata a durare per sempre, come “pantaloni rossi” o “impresa eroica”. L’uovo fresco era un uovo di qualità superiore. E poi la suggestiva espressione “uovo del contadino” mi faceva pensare che fosse il contadino a farlo, anche se lo sapevo che c’erano di mezzo le galline. La nonna Nadia, una donna essenziale con sfumature di severità, non si sbilanciava in spiegazioni di troppo.
Invece la nonna Letizia, più loquace, mi ha dato molte spiegazioni, nel corso del tempo.
Sono due modi diversi di conoscere.
All’epoca in cui dicevo “cippone” invece di “piccione”, e “trighe” invece di “tigre”, quando le chiesi cosa fosse una troia, la nonna Letizia mi disse che era una che andava a letto con molti uomini. Io pensavo dormissero in molti nello stesso letto. E ancora oggi, d’istinto, collego la parola “troia” a un certo stato di sonnolenza. Per cui non posso ammettere che una ragazza sveglia sia una troia.
È così che a volte le spiegazioni mi hanno allontanato dalla verità portandomi in un mondo migliore.
Sempre la mia nonna paterna mi spiegò che tutte le pizzicagnole sono lesbiche e che il famoso presentatore Pippo Baudo è superdotato (lo disse ben prima che la questione venisse fuori pubblicamente, e ci siamo sempre chiesti come facesse a saperlo). E anni dopo la morte di mio nonno mi disse: «Sai, tuo nonno era un gran puttaniere». Lo certificò con un tono di rimprovero ma anche di affetto.
Ai tempi dell’Hotel Garden, i miei nonni dopo pranzo andavano a riposare nella stanza numero 46, prendevano sempre quella. L’ho sognata per anni con grande intensità, come una persona cara. Il che è strano perché nello stato di veglia non ho mai guardato con struggimento una porta. Mentre i nonni dormivano giravo i tacchi e, senza dire una parola alla porta 46 (non sapevo che l’avrei rimpianta, è sempre così nella vita), tornavo sul bordo del mare, a contemplare quella soglia mormorante che mi avrebbe chiamato per tutta la vita.
Ogni tanto chissà come i miei genitori apparivano da chissà dove e mi portavano a fare un viaggio in macchina in posti remoti, improvvisando tutto, a volte anche la direzione. Quei viaggi avventurosi sono conficcati bene nella mia mente. Attraversavamo montagne e torrenti in auto, una Volkswagen rossa decappottabile, oppure basandoci su certi infallibili punti di riferimento ci perdevamo nel deserto, dove mia mamma presa dall’entusiasmo inseguiva a piedi i topi del deserto, appunto. Erano viaggi movimentati. E il bello è che non sapevano neppure cambiare una ruota. Magari arrivavamo in posti di mare incredibili e un turco con la muta strappata pescava una cernia con un pugno. Una volta facemmo Firenze-Istanbul in due giorni, in Bulgaria non trovammo dove dormire perché non facevamo parte di un viaggio organizzato, durante il giorno non ci si fermava mai. Un’altra volta, in Egitto, puntammo verso un albergo sulla costa, la descrizione che avevamo letto sulla guida ci era piaciuta. Ma quando arrivammo trovammo solo rovine, perché era stato bombardato. Non si poteva neanche fare il bagno, dato che la spiaggia era minata. Però dei militari gentilmente ci indicarono il passaggio per evitare le mine e con un po’ di attenzione raggiungemmo il mare, un mare sfolgorante dove non c’era nessuno. Da allora, spiaggia minata è per me sinonimo di paradiso naturale. Quando coman...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontispiece
  3. La zia subacquea e altri abissi famigliari
  4. Prima parte. L’IMMUNITÀ SEGRETA
  5. Seconda parte. L’ONNISCIENZA INFANTILE
  6. Terza parte. LA NOTTE DEL BENE E DEL MALE
  7. Quarta parte. ADDIO E RINASCITA
  8. Quinta parte. OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE
  9. Sesta parte. ISOLE IN EMERSIONE RAPIDA
  10. Settima parte. LA MUSICA
  11. Ottava parte. NUOVI MIRACOLI E ALTRI LINGUAGGI
  12. Nona parte. AMORE
  13. Decima parte. DIDATTICA AVVENTUROSA
  14. Undicesima parte. I QUATTRO ELEMENTI
  15. Dodicesima parte. NOMADE E RACCOGLITORE
  16. Tredicesima parte. LA RESA DEI CONTI
  17. Ringraziamenti
  18. Copyright