Un cuore magico
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Un cuore magico

  1. 336 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Un cuore magico

Informazioni su questo libro

Le grandi suggestioni legate al tema del magico tornano in questa vicenda realmente vissuta in prima persona da Alberto Bevilacqua. La prima "magia" che illumina queste pagine è quella della poesia. I sensi incantati, il cui successo nasce anche da un messaggio che indica i modi, finora insondati, con cui si può vincere il male degli affetti e tradurre in atto il nostro diritto alla felicità, rappresentavano il primo atto di un'opera che trova qui la sua compiutezza. Il libro si concludeva con la scomparsa di Miriam, la giovane sensitiva che entrava nella vita del protagonista con i suoi eccezionali poteri e la sua intensa femminilità, per contribuire a risanarlo da una profonda depressione. In Un cuore magico, romanzo assolutamente autonomo, il protagonista passa dal ruolo di "incantato" a quello di "incantatore", e si scopre, a sua volta, padrone di poteri, di "un cuore magico" appunto, con cui attraversa l'umanità di oggi, che vive aspettando una salvezza, il bene di una parola che illumini.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804395645
eBook ISBN
9788852065729

QUINTA PARTE

1

E così mi butto in mezzo alla gente che mi chiede aiuto.
Affondo in un’umanità, a sua volta affondata in problemi e drammi, che non è semplicemente Italia, è il mondo: la speranza e la disperazione non hanno diversità né di patria, né di lingua.
Fanno anche lunghi viaggi per farsi soccorrere, portarmi la loro felicità da recuperare, e del loro viaggiare per giorni nella speranza, il segno è il rosso malato degli occhi, che sempre mi tocca come fosse una ferita aperta su di me.
Mi lascio guidare, nella scelta dei contatti, dal solito segnale che il mio corpo dà alla mente, raggiungendone il punto più remoto, l’anello di congiunzione col magico: il batticuore, intendo, che provo per un uomo, una donna, che abbiano una coscienza, comunque sia, un senso del meraviglioso, perduto e da ritrovare, simile al mio, un identico orrore per psicoterapie divenute ormai abitudinarie, e antidepressivi, farmaci inutili: “pasticche che non capiscono niente” come un giorno mi ha detto, con candore, una donna semplice.
Allora, quei casi umani diventano miei, miei i disturbi affettivi e le depressioni altrui, e il dolore, la follia, la grazia testarda dell’anima che spinge a credere che possa cambiare la realtà del male che la offende.
«Si può?» insistono. «Si può stare meglio?»
Con la gola stretta, una stanchezza del cuore che si è tramutata in stanchezza delle ossa.
È una moltitudine, e cresce:
«Si può?»
In un mondo che offre sempre di meno, nella vita sia dei sentimenti che delle verità.
Sì, è possibile. E in frequenti casi lo dimostro.
Quando non è sufficiente il mio intervento, li metto in contatto con i Sensitivi Maggiori che, in un recente passato, hanno aiutato me e mia madre. Ne ho esperimentato, in prima persona, l’attendibilità e l’efficacia. Strappo, così, vittime designate ai ciarlatani della magia artificiale: truffatori, affaristi, solo promesse e denaro in cambio di nulla.
Gli amici che hanno aiutato me, quando li interpello per qualcuno, sono pronti con il loro credo: “Ritrova il sorriso del corpo, della mente. Il senso del magico è anche ineffabile sorriso”.
Affronto, continuamente, le due facce opposte del dramma. Passo da chi la depressione ha reso assassino degli altri – e ci sono anche ragazzi, squilibrati, invasati, che hanno assorbito come spugne la degenerazione psichica dell’ambiente che non si è curato di loro – a chi, per depressione, ha ucciso se stesso, chiudendosi in una prigione di vuoto, di fallimento e frustrazione. Grondo di un’umanità tormentata, e spesso torno a casa stremato come quando, giovane cronista di nera al Messaggero di Roma, rientravo nelle pensioni all’alba con i vestiti impregnati dell’odore del sangue: per risse, omicidi, suicidi.
Ma quale letizia quando qualcuno che mi chiede aiuto raggiunge davvero la serenità, a volte persino quel tanto di felicità. Se ciò non accade con me, assisto alla scena dell’amico Sensitivo che, operata la guarigione, si stringe al petto la testa dell’uomo, della donna che egli ha accolto tramite mio. È come una rappresentazione sacra che arriva a un momento finale di indicibile bellezza, fra i più alti dell’amore umano.
Le due creature vivono il trauma positivo del passaggio del male dall’una all’altra che lo assorbe, lo vanifica, con un’immedesimazione totale. Poi i due si abbracciano in modo diverso, quasi fossero amici da sempre, ignorando quell’io sofferente e disfatto che si è dissolto nell’aria.
Quattro mesi di suspense: che ho subito e, al tempo stesso, cercato. Dai primi di gennaio ad aprile. Il periodo finora più sconcertante da quando è iniziato il mio “contagio magico”.
Ho annotato tutto: episodi, personaggi, esperimenti, le situazioni in cui ho persino rischiato la vita. Nella solitudine, la depressione tornava a farsi minacciosa, col pericolo di provare di nuovo la morbosità demoniaca di isolarmi e rompere ogni rapporto. Vivere le mille vite altrui poteva impedirlo, salvarmi?
Un mare di fogli scritti. Si sono infoltite certe cartelline, di cui ricordo le didascalie che citai all’inizio, tracciate e sottolineate con una matita rossa che sembra sangue:
“Il rito satanico e l’incontro con Franz.”
“Luisa M.: un caso di regressione fra i più singolari e difficili che mi sia capitato di affrontare.”
Comincia il rapporto fondamentale con Giulia J.
“Un breve ritorno dalle mie parti, a Po.”
“Il più alto atto d’amore con mio padre.”
“Dialoghi e incontri oltre la porta ultima: al di là del confine, vincibile, della morte.”
“L’assalto, la foresta delle donne.” Mentre perdo ogni illusione sugli amori concreti, è proprio Giulia J. che mi spinge ad aprire le porte di casa mia a una piccola folla di donne che…
Le sezioni di due capitoli, dunque: il primo che mi vede testimone attivo nel coinvolgimento degli altri, il secondo che riguarda prevalentemente l’Eros.

2

Cominciò con una rissa. Durante un rito satanico.
Per me, Satana è semplicemente una curiosità filologica: Shaitan è il nome caldeo dato al dio adorato dagli Yezidi della Mesopotamia inferiore, sorgente della tradizione sumera. La versione biblica degrada un dio che, in origine, non era affatto un angelo del male. I maghi demenziali che, nei secoli, hanno cercato la conoscenza lungo vie sinistre e oscure, ne hanno fatto una realizzazione della perversità, creandone al tempo stesso un fascino che ha ispirato terrore e giustificato le nefandezze della Santa Inquisizione, della stregoneria, della magia nera e delle arti malvagie.
Ho amato un Papa, Paolo VI, che mi ha concesso la sua stima e la sua amicizia. Per quanto potevano valere le mie parole, le mie lettere, l’ho supplicato di evitare il famoso pronunciamento sull’esistenza del Diavolo. Avrebbe aizzato, a mio avviso – ed è infatti accaduto – l’autosuggestione di cui si nutre il satanismo come religione di materia, trasgressione, turpe carnalità. I riti satanici si sarebbero moltiplicati nel mondo.
Nessun’altra epoca ha contato tante persone insicure, facilmente plagiabili. E dunque era fatale che esse andassero a infoltire le sette grossolane che – a fare da altare – pongono una donna nuda, affermando: “La donna è il naturale ricettacolo passivo e rappresenta gli inferi della Madre Terra”.
Io detesto ogni tenebra.
Detesto ogni Chiesa Nera e sono mosso da furore contro gli organizzatori del satanismo contemporaneo, più preoccupati di soddisfare certe inclinazioni erotiche e spremere denaro che di inscenare le loro cerimonie secondo le antiche tradizioni pagane. Hanno compito facile. Quanti uomini portatori di perversioni, violentatori in potenza, misogini senza dolore, voyeurs, trovano l’ambiente ideale in riti che assommano droghe, attività sessuale incontrollata, brutalità portata al massimo grado, evocazioni di spiriti diabolici. E quante donne contrabbandano, in quei luoghi orribili, le proprie voglie oscene: spudorata ninfomania, esibizionismo; le donne che quando tradiscono un uomo vanno cercando scuse psicologiche e sentimentali, trovano in Satana un alibi perfetto…
Di fronte a tanta umanità detestabile, provo pena per il povero dio sumero, sfruttato e violentato, lui per primo.
Mi sono lasciato trascinare al rito satanico con la precisa intenzione di scatenare la rissa.
Mi sono portato la pistola che, da quando la depressione mi ha assalito, tengo in un cassetto del mio tavolo di lavoro. Idolo psicometrico, l’avrebbe definita Miriam, come le due lampade, le penne che dispongo in un ordine propiziatorio. In realtà, anche la pistola è un’amica della mia solitudine, perché so che non la userò mai per uccidermi; essa serve solo per il gusto morboso di accarezzare l’idea, come accarezzo lei, che chiamo “la mia amante signora Luger con cui rimando sempre il momento dell’amplesso”, quando ogni mattina la scarico, ne lubrifico i congegni, la ricarico, con la pazienza che uso nell’allineare le penne facendone cabalistiche geometrie.
Con la pistola in tasca, e il mio furore, mi sono inoltrato nel sotterraneo, alla periferia della città.
Le donne, che ancora non distinguevo nel buio corridoio che immetteva nella sala del rito, sussurravano intorno:
“Il Bello! Il Maschio!”
Era l’uomo che mi faceva strada, e che avrebbe guidato la cerimonia. Passando, egli accarezzava via via i seni delle adepte assiepate ai lati in sua adorazione, con gesti di benedizione carnale. Colui che aveva venduto l’anima alle Potenze del Male, aveva piuttosto l’aspetto di un attore cinematografico e di un copulatore superdotato.
Mi stringeva la gola un odore misto di sudore, sangue, profumi femminili.
Per quanta sprezzante ironia uno possa ostentare, in circostanze simili, c’è sempre un momento in cui un terrore prevale sulla ragione, appunto perché “senza ragione”, come quello di un bambino assediato dai fulmini. Raggiunta la sala, di fronte agli arredi e alle candele nere, all’enorme simbolo fallico ottenuto da una croce col legno trasversale mozzato, mi sono ritrovato come nella “Casa dell’odio e del tradimento”, centro medianico del male nel Pellicano di Strindberg, il quale sostiene che il male, quando è troppo, si trasforma nell’Assoluto dell’allucinazione.
Da un lato, uomini e donne si atteggiavano come il demone dipinto sulla parete, col volto bianco e da scimmia, accerchiato da una muta di cani adoranti; l’immagine appariva ancora più mostruosa in quanto l’umidità aveva raschiato i colori. Dal lato opposto, donne nude, evidentemente signore della società bene, e numerose ragazze, anche molto giovani, in tuniche corte e trasparenti, aspettavano immobili nel buio: di essere possedute, forse, violentate.
Due presenze mi hanno sconcertato. Una ragazza dai grandi occhi chiari, e che parevano puliti da una testarda innocenza; quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho avuto l’impressione che un rossore di vergogna le avvampasse il viso, ma probabilmente era il riflesso di una torcia. E poi il profilo di un giovane, che ho afferrato in una frazione di secondo, mentre attraversava un lampo di luce per riaffondare nelle tenebre.
Il cuore mi si è fermato.
Possibile che fosse Franz, il fratello di Miriam?
Da quel momento, non faccio che ripetermi la domanda, e più mi rispondo che è impossibile, più si conferma la certezza che era lui, Franz…
Fece il suo ingresso la donna destinata a servire da altare. Era ben fatta, più alta delle compagne. Aveva grossi seni, le gambe lunghe e i polpacci forti, da ballerina. Ha sorriso invitante quando ha visto che i presenti si avvicinavano, contemplandole il corpo. L’hanno circondata mormorando una disgustosa parodia di una litania cristiana.
Le adepte l’hanno aiutata a distendersi supina.
È difficile trovare un raffronto alla rappresentazione che, da quell’istante, ha preso vita sull’altare trasformato in palcoscenico. Mi è balenato un ricordo: di quand’ero bambino, e c’era la guerra, a Po. La madre di mia madre diceva: “Ciascuno si porta la sua Iris nel cuore. È il peggio che non conosciamo di noi”.
Un grido:
“Arriva la Iris!”
La torturatrice di partigiani che amava farsi torturare, sessualmente, dai suoi stessi torturati.
Era un grido di tutto il Po. Gli uccellatori, servendosi degli specchi da segnale, mandavano lampi fitti nella vegetazione di ripa, e dall’una all’altra sponda; poi si udiva una voce, insieme vicina e lontana: “Lumén, lumén, ve’su!…”. L’invito alla lucciola, ossia ai clandestini, a uscire dalle case e a non farsi prendere. Anche i colombi nelle colombare, le rane nelle lanche percepivano quel mondo stravolto che minacciosamente spingeva in volo i gabbiani e i falchi di palude.
L’Iris compariva sugli argini con un corto grembiule bianco, da infermiera, sulle gambe lunghe e i polpacci forti, da ballerina. Noi bambini la seguivamo quando andava a spogliarsi nei campi, lasciando il grembiule appeso a un ramo, sapendo che la stavamo spiando col cuore in gola, e appunto per farsi spiare. Come della donna distesa sull’altare, anche di lei ascoltavo il respiro che saliva al di là delle siepi, il respiro della sua potenza che mi pareva si facesse più alto degli alberi, quasi fosse posseduta da cento dei suoi torturati.
Scatenava desideri sconosciuti – raccontavano gli uomini – chiamati le voglie zane, ossia contro l’ordine naturale.
L’Iris fu la prima di cui mi chiesi – con lo stesso sgomento, ora, per la protagonista del rito satanico – come facciano le donne ad assorbire quei falli enormi: con quale dilatazione, non dico degli orifizi, ma della coscienza. Come riescano a sopportarne le cariche brutali, divaricate sulle ginocchia, la testa inchiodata all’ingiù, nella posizione di chi aspetta di essere decapitata, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Un cuore magico
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. TERZA PARTE
  7. QUARTA PARTE
  8. QUINTA PARTE
  9. SESTA PARTE
  10. ULTIMA PARTE
  11. Copyright