
- 476 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La Tamburina
Informazioni su questo libro
Gli agenti del servizio segreto israeliano sono impegnati in una caccia senza esclusione di colpi a un pericoloso leader palestinese, che dal suo introvabile quartier generale dirige una rete terroristica brutalmente efficiente. A guidare l'inseguimento viene chiamato Kurz, un uomo di feroce energia e passione che, dopo aver messo insieme un esercito privato, tende all'odiata preda un'elaboratissima trappola, coinvolgendo un'attrice di dubbie qualità.
Da Bonn a Londra, da Monaco a Myconos, da Vienna a Gerusalemme, sino alle roccaforti segrete e ai campi di addestramento palestinesi, Kurz e i suoi uomini si spingono verso il cuore dell'organizzazione terroristica...
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Informazioni
Print ISBN
9788804342434eBook ISBN
9788852066559La tamburina
A David e JB Greenway,
Julia, Alice e Sadie...
per tempi e luoghi e amicizia
Premessa
Molti palestinesi e israeliani mi hanno dato tempo e aiuti durante la stesura di questo romanzo. Tra gli israeliani, voglio citare in particolare i miei buoni amici Yuval Elizur di «Ma’ariv» e sua moglie Judy, che hanno letto il manoscritto, hanno rispettato le mie opinioni, per quanto sbagliate, e mi hanno evitato molti gravi errori che vorrei tanto dimenticare.
Anche altri israeliani – in particolare funzionari in attività o a riposo della confraternita dei servizi segreti – meritano i miei ringraziamenti sinceri per i loro consigli e la loro cooperazione. Anche loro non mi hanno chiesto garanzie e hanno scrupolosamente rispettato la mia autonomia. Penso con particolare gratitudine al geniale Shlomo Gazit, già capo del servizio segreto militare e ora presidente dell’Università Ben Gurion del Negev a Beer Sheva, che ai miei occhi personificherà sempre il soldato e intellettuale israeliano illuminato della sua generazione. Ma ci sono anche altri di cui non posso fare i nomi.
Devo inoltre esprimere la mia gratitudine al sindaco di Gerusalemme, Teddy Kollek, per la sua ospitalità a Mishkenot Sha’ananim; ai meravigliosi coniugi Vester dell’American Colony Hotel di Gerusalemme; ai proprietari e al personale del Commodore Hotel di Beirut per aver reso possibile tutto in una situazione impossibile; e ad Abu Said Abu Rish, il decano dei giornalisti di Beirut, per la generosità dei suoi consigli, anche se non sapeva nulla delle mie intenzioni.
Dei palestinesi, alcuni sono morti, alcuni sono prigionieri, e gli altri sono presumibilmente quasi tutti senza tetto o dispersi. I giovani combattenti che si sono presi cura di me nell’appartamento dell’ultimo piano a Sidone e hanno chiacchierato con me negli agrumeti; i profughi logorati dai bombardamenti ma ancora indomiti dei campi di Rashidiyeh e di Nabatiyeh: a quanto mi risulta, la loro sorte non è molto diversa da quella dei loro equivalenti inventati di questo racconto.
Colui che mi ospitò a Sidone, il comandante militare palestinese Salah Ta’amari, merita un libro a parte e spero che un giorno si deciderà a scriverlo. Nel frattempo, vorrei che questo volume documentasse il suo coraggio e insieme i miei ringraziamenti a lui e ai suoi assistenti per avermi mostrato l’animo palestinese.
Il tenente colonnello John Gaff, G.M., mi ha informato dei banali orrori delle bombe fabbricate artigianalmente e si è accertato che non fornissi inavvertitamente le istruzioni per prepararle; il signor Jeremy Cornwallis di Alan Day Ltd., Finchley, ha dato un’occhiata professionale alla mia Mercedes rossa.
John le Carré
luglio 1982
Parte prima
LA PREPARAZIONE
1
Fu l’incidente di Bad Godesberg a fornire la prova, anche se le autorità tedesche non avevano assolutamente modo di saperlo. Prima di Bad Godesberg c’erano stati soltanto crescenti sospetti; moltissimi. Ma l’alta qualità della progettazione insieme alla mediocre qualità della bomba, trasformò i sospetti in certezza. Prima o poi, dicono nell’ambiente, un uomo finisce col firmare col suo nome. Il fastidio è nell’attesa.
Esplose molto più tardi del previsto, probabilmente con un ritardo di dodici ore buone, alle otto e ventisei di un lunedì mattina. Molti defunti orologi da polso, proprietà delle vittime, confermarono l’ora. Come in altri casi avvenuti negli ultimi mesi, non c’erano stati preavvisi. Ma non volevano essercene. Non ce n’erano stati né quando a Düsseldorf avevano fatto esplodere una bomba nell’auto di un funzionario israeliano venuto a comprare armi, né per la bomba-libro inviata agli organizzatori di un congresso di ebrei ortodossi ad Anversa, che aveva fatto saltare in aria la segretaria ad honorem e bruciato viva la sua assistente. E nemmeno per la bomba messa nel cestino per la spazzatura davanti a una banca israeliana di Zurigo, che mutilò due passanti. Solo per la bomba di Stoccolma c’era stato un preavviso, ma poi si venne a scoprire che proveniva da un gruppo totalmente diverso e non faceva quindi parte della serie.
Alle otto e venticinque la Drosselstrasse di Bad Godesberg era solo una delle tante fronzute oasi diplomatiche, lontana dai tumulti politici di Bonn, quanto può ragionevolmente sperare chi alloggia a un quarto d’ora di macchina di distanza. Era una strada nuova ma ormai matura, con giardini rigogliosi e nascosti, alloggi per le cameriere sopra i garage e griglie gotiche protettive sulle finestre di vetro verde. Per quasi tutto l’anno c’è in Renania l’umido e tiepido stillicidio della giungla; la vegetazione, come la comunità diplomatica, cresce quasi con la stessa rapidità con cui i tedeschi costruiscono le loro strade, e un po’ più in fretta di quanto riescano a preparare le loro mappe. Di conseguenza le facciate di certe case erano già per metà oscurate da fitte piantagioni di conifere, le quali, se mai cresceranno sino a raggiungere le loro giuste dimensioni, finiranno presumibilmente per sprofondare l’intera zona in un’oscurità da fiaba di Grimm. Gli alberi, comunque, si rivelarono singolarmente efficaci contro l’esplosione e, nel giro di pochi giorni, un’impresa di giardinaggio locale già la vantava come una delle loro caratteristiche.
Molte case avevano un aspetto dichiaratamente nazionalistico. La residenza dell’ambasciatore norvegese, per esempio, appena voltato l’angolo da Drosselstrasse, è un’austera casa colonica in mattoni rossi che sembra tolta di peso dai sobborghi in cui vivono gli agenti di cambio di Oslo. All’estremo opposto della strada, il consolato egiziano ha l’aria abbandonata di una villa di Alessandria che ha visto tempi migliori. Ne proviene una lugubre musica araba e le imposte sono sempre chiuse, come per difendersi dall’aggressivo calore nordafricano. Era metà maggio e la giornata si annunciava splendida, con i fiori e le nuove foglie che oscillavano insieme nella lieve brezza. Le magnolie avevano appena finito di fiorire e i loro tristi petali bianchi, quasi tutti caduti, diventarono in seguito parte integrante delle macerie. Con tanto verde, si sentiva appena il frastuono del traffico sulla strada principale. Il suono più udibile, sino all’esplosione, era stato il vocio degli uccelli, comprese certe grasse colombe che avevano preso in simpatia un glicine color malva, orgoglio dell’addetto militare australiano. Un chilometro più a sud, gli invisibili barconi del Reno fornivano un vibrante e maestoso ronzio, al quale gli abitanti finiscono per diventare sordi se non quando s’interrompe. Insomma era una di quelle mattine fatte apposta per assicurarti che, quali che possano essere le calamità di cui leggi sui serissimi e un po’ allarmistici giornali della Germania occidentale – depressione, inflazione, insolvenza, disoccupazione, tutti i mali consueti e in apparenza incurabili di un’economia capitalistica solidamente prosperosa –, Bad Godesberg era un luogo stabile e decente in cui vivere, e Bonn non era certo brutta come la si dipingeva.
A seconda della loro nazionalità e del loro rango, certi mariti erano già andati al lavoro, ma i diplomatici non sono altro che stereotipi dei loro Paesi d’origine. Un malinconico consigliere scandinavo, per esempio, era ancora a letto, con i postumi di una sbronza dovuta a tensioni coniugali. Un incaricato sudamericano, con una retina per capelli in testa e una vestaglia cinese di seta, residuo di una missione a Pechino, si era affacciato alla finestra per dare istruzioni su che cosa comprare al suo autista filippino. Il consigliere italiano si stava radendo completamente nudo. Gli piaceva farsi la barba dopo il bagno, ma prima di far ginnastica. Sua moglie, completamente vestita, era già da basso a sgridare una figlia tutt’altro che pentita e rea di esser rientrata tardi la notte prima: un dialogo di cui si dilettavano quasi tutte le mattine. Un delegato della Costa d’Avorio stava facendo una chiamata intercontinentale per informare i suoi padroni degli ultimi sforzi da lui compiuti per estorcere aiuti destinati allo sviluppo a un ministero del Tesoro tedesco sempre più riluttante. Quando poi saltò la linea, pensarono che fosse stato lui a riattaccare e gli mandarono un acido telegramma per chiedergli se voleva dimettersi. L’attaché inviato dal ministero del Lavoro israeliano era andato via da più di un’ora. Non si trovava bene a Bonn e, per quanto possibile, preferiva lavorare con gli stessi orari di Gerusalemme. E così via, con una quantità di squallide facezie sui comportamenti dei diversi popoli, che trovavano una solida base nella realtà e nella morte.
In ogni bomba che esplode c’è sempre un elemento miracoloso, fornito in questo caso dall’autobus della Scuola americana, che era appena arrivato e ripartito con la maggior parte dei figli più giovani della comunità, abituati a radunarsi, quando la scuola era aperta, in una piazzuola a meno di cinquanta metri dall’epicentro. Fortunatamente quel lunedì mattina nessuno dei bambini aveva dimenticato i compiti a casa o aveva dormito troppo o si era mostrato riluttante all’istruzione, e quindi l’autobus era partito puntuale. Il finestrino posteriore andò in frantumi, l’autista finì sul ciglio della strada, una bambina francese ci rimise un occhio, ma tutto sommato i piccoli se la cavarono bene, e questa fu poi considerata una grande fortuna. Un’altra caratteristica di queste esplosioni, o almeno delle loro conseguenze immediate, è un frenetico impulso collettivo a celebrare i vivi, anziché sprecare tempo piangendo i morti. Il vero dolore in questi casi comincia dopo, quando s’attenua lo shock e cioè, di solito, dopo parecchie ore, ma qualche volta anche prima.
Il rumore vero e proprio della bomba non era una cosa di cui la gente serbasse ricordo, almeno chi si era trovato nelle vicinanze. Di là dal fiume, a Königswinter, udirono un’autentica guerra e vagarono sconvolti e quasi assordati, sorridendosi a vicenda come collaboratori in un’operazione di salvataggio. Da quei dannati diplomatici, si dicevano, cos’altro ci si poteva aspettare? Perché non li spediscono tutti a Berlino, a spendere in pace le nostre tasse! Ma i più vicini, all’inizio, non udirono assolutamente nulla. Le sole cose di cui poterono parlare, quando di parlare furono ancora in grado, erano la strada che s’inclinava o un fumaiolo che decollava silenzioso dal tetto dell’edificio di fronte o lo scoppio che squarciava le loro case e tendeva la loro pelle, li aggrediva, li buttava per terra, faceva volare i fiori dai vasi e i vasi contro le pareti. Ricordavano il tintinnio dei vetri infranti e il timido fruscio delle foglie cadute sulla strada. E i guaiti delle persone troppo spaventate per urlare. Evidentemente, dunque, non era tanto che non avessero percepito il rumore, ma che l’esplosione aveva neutralizzato i loro sensi. Vari testimoni accennarono anche al baccano della radio, nella cucina del consigliere francese, che stava sbraitando la ricetta del giorno. Una delle mogli, convinta della propria razionalità, voleva sapere dalla polizia se era possibile che lo scoppio avesse alzato il volume della radio. In un’esplosione, risposero gentilmente gli agenti portandola via in una coperta, era possibile tutto, ma nel caso specifico la spiegazione era un’altra. Andati in frantumi tutti i vetri delle finestre del consigliere francese, e con nessuno all’interno che potesse spegnere la radio, niente era più in grado di impedirle di rivolgersi direttamente alla strada. La donna, però, non capì.
I giornalisti, naturalmente, arrivarono quasi subito e cominciarono a premere contro i cordoni, e i primi entusiastici resoconti uccisero otto persone, ne ferirono trenta e addossarono la colpa a una pittoresca organizzazione tedesca d’estrema destra, Nibelungen 5, composta di due ragazzi mentalmente ritardati e di un vecchio pazzo, neanche capace di far scoppiare un pallone. A mezzogiorno, la stampa era già stata costretta a ridurre il proprio carniere a cinque morti, uno dei quali israeliano, quattro feriti gravi e altri dodici ricoverati in ospedale per questo o quel motivo; e si era messa a parlare delle Brigate rosse italiane, senza avere, ancora una volta, nemmeno un briciolo di prova. L’indomani ci fu un altro dietrofront e l’attribuzione dell’impresa a Settembre nero. Il giorno dopo, a rivendicare il merito di questo atto di violenza, intervenne un gruppo che si presentava come Agonia palestinese e che si attribuiva anche precedenti esplosioni. Agonia palestinese comunque ebbe successo, pur essendo, più che un nome atto a identificare gli attentatori, una spiegazione della loro azione. In questo senso funzionò, e venne successivamente incluso nei titoli di molti ponderosi articoli di fondo.
Dei non ebrei che morirono, uno era il cuoco siciliano degli italiani, un altro il loro autista filippino. Tra i quattro feriti gravi, una era la moglie dell’attaché israeliano, nella cui casa era esplosa la bomba. Finì col rimetterci una gamba. L’israeliano morto era il loro figlioletto Gabriel. Ma la vittima designata, si arrivò generalmente a concludere, non era nessuna di queste persone, bensì uno zio della moglie ferita dell’attaché, che era venuto a trovarla da Tel Aviv: un talmudista moderatamente celebre per le sue opinioni da falco circa i diritti dei palestinesi sulla Cisgiordania. In parole povere, era convinto che non ne avessero e lo diceva a voce alta e con molta frequenza, contestando apertamente le opinioni della nipote, la moglie dell’attaché, che apparteneva invece alla sinistra israeliana e non era certo stata preparata dall’educazione ricevuta in un kibbutz ai rigidi lussi della vita diplomatica.
Se quel giorno fosse salito sull’autobus della scuola, Gabriel si sarebbe salvato, ma quel giorno, come tante altre volte, Gabriel non stava bene. Era un bambino agitato e iperattivo, che sino allora era stato considerato nella strada un elemento di disturbo, soprattutto nel periodo della siesta. Aveva in compenso, come sua madre, un certo talento musicale. Ora, con la più assoluta naturalezza, non c’era nessuno nella strada che potesse fare il nome di un bambino cui aveva voluto più bene. Un tabloid tedesco di destra, traboccante di sentimenti filoisraeliani, lo soprannominò “l’angelo Gabriele” – denominazione che, senza che i suoi redattori lo sapessero, s’addiceva ad ambedue le religioni – e per tutta una settimana riportò aneddoti inventati sulla sua santità. I giornali più autorevoli gli fecero eco. “Il cristianesimo” affermò un commentatore famoso – ripetendo una formula di Disraeli senza citare la fonte – “o era giudaismo completato o non era nulla.” Perciò Gabriel era un martire cristiano oltre che ebraico, e sapendo que...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- LA TAMBURINA
- Dossier. La tamburina. a cura di Paolo Bertinetti
- Copyright