I misteri della montagna
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I misteri della montagna

  1. 240 pagine
  2. Italian
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I misteri della montagna

Informazioni su questo libro

Non tutti hanno la capacità immediata di comprendere fino in fondo i segreti della montagna. Vedono le cime come blocchi turriti, pilastri di roccia scabri e senza valore, ammassi di pietre inutili sorti qua e là per capriccio del tempo. Basta, però, alzare lo sguardo ed essere sovrastati dall'imponenza del mare verticale, con i suoi milioni di granelli di sabbia, per sentire nascere lo stupore. Lo stupore che genera domande. Le domande che generano misteri: chi ci sarà lassù? Vi abita qualcuno? E, se esiste, come sarà fatto? Nei boschi, tra le rocce, dentro l'alba, sotto le foglie, sulle vette ancora inesplorate. Lì dormono i segreti della montagna. E Mauro Corona ci accompagna ancora una volta a scoprirli, tendendoci la mano, aiutandoci a salire. Ci esorta a giocare con il rimbalzo dell'eco, che vuole sempre l'ultima parola, ad ascoltare la voce del vento, che non sapremo mai da dove nasce. Ci conduce lungo i ruscelli a spiare le ninfe dai lunghi capelli d'acqua, ci indica il sentiero per raggiungere il grande abete bianco - adagiando l'orecchio al tronco, sentiremo il suo cuore battere. La montagna è viva, ha cinque sensi protesi a conoscere il mondo. E come tutti gli esseri speciali ha anche un senso in più: la percezione. Grazie a lei, può scoprire in anticipo le barbare intenzioni dei politici che vogliono ferirla, strizzarla, spremerla fino a distruggerla, pur di incassare moneta sonante. Ma la montagna resiste, perché ha un compito più grande: è stata creata affinché possiamo scrutare la nostra anima e diventare migliori. Scoprirla è scoprirsi. E se, in solitudine, saremo capaci di avvertire le presenze nascoste nel buio, avremo fatto il passo decisivo per capire che inseguire i misteri della montagna non vuol dire nient'altro che ricercare noi stessi, andando alle origini delle nostre paure. Il tempo delle curiosità non ha scadenza, dobbiamo solo farci trovare pronti per questa nuova, indimenticabile, avventura.

Domande frequenti

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Informazioni

I cinque sensi della montagna

La montagna ha i cinque sensi, come gli esseri umani. Forse anche sei e magari qualcuno in più. Di preciso non si sa, ma potrebbe essere.
Che ha i sensi è facile accorgersene. Basta frequentarla e osservarla con attenzione. La montagna se ne sta lassù, immobile nell’eternità della pietra, solenne regina del tempo, seduta sul mondo da miliardi di anni. Circondata da boschi e pascoli, laghi e torrenti, attende che tutto finisca. Sembra morta invece è viva, si muove. Mangia, beve, ascolta, vede, tocca e sente odori. Percepisce. Quel che può accadere lo intuisce prima. La percezione è il suo sesto senso.
Ne ha molti ancora, che non vuol rivelare, ma ogni tanto si tradisce mandandoli fuori. Il legame con altri mondi è uno di questi sensi. La montagna avvicina mondi e misteri con i quali comunica. È l’antenna che capta voci remote, sussurri lontani. L’uomo no. In verità, alcuni esseri umani riescono a varcare i confini di quei regni arcani, ma solo per qualche attimo. Sono molto sensibili e rari, quegli uomini, e durano poco. Spesso usano male il dono, sprecandolo nel silenzio. Lo sapessero porre a buon fine potrebbero aiutare i loro simili. Invece aiutano se stessi a farsi male, corrodendosi di autodistruzione. La solitudine affina le menti e allo stesso tempo le consuma. Anche questo appartiene ai segreti delle montagne.
Il Cercatore ha quasi sempre avuto a che fare con irregolari: gente che se ne fregava della vita e della legge. Un tempo frequentava un bracconiere venti anni più grande di lui. Fu un maestro come lo furono altri disgraziati. Uomini di valore, umili e ignoti, difficili da dimenticare. Tipacci nel senso buono, che marchiarono la sua gioventù impostandola in un certo modo. Quell’uomo fu importante come pochi. Per insegnare usava metodi spicci, a volte poco ortodossi, ma di sicura efficacia. Questo “bracciante di caccia”, che interpretava la passione come un lavoro da quindici ore al giorno, riusciva a indovinare la direzione che prendevano animali e uccelli. Non sbagliava colpo. Era un essere imperscrutabile, uno che bazzicava confini dove la massa umana non accede. Visse come se non fosse presente, annegando la vita in notti solitarie di alcol e fantasmi.
Una volta si trovava col Cercatore, seduto su un colle chiamato “dei larici”. Era un gobbone pieno di larici. D’autunno s’incendiavano che parevano di fuoco. I due aspettavano un vecchio cedrone che li faceva dannare da giorni. A un certo punto, nel cielo, invece dell’urogallo si profilò la poiana. Teneva tra le grinfie una biscia. Forse era la vipera, chi può saperlo. Il rapace si stava allontanando. Il Cercatore afferrò il binocolo per cogliere la scena da vicino. Senza scomporsi il bracconiere disse: «Non agitarti, verrà di qua». Invece andava di là, verso quel cielo incendiato di larici. Dopo un lungo volo, improvvisamente virò. Puntò dritta verso i due che guardavano dal colle. Passò a pochi metri sulle loro teste. Il Cercatore vide a occhio la serpe torcersi lasciando l’ultima vita negli artigli della poiana. Il rapace lanciò un’occhiata storta verso il basso, come a chiedersi: «Chi sono quei due?». Poi se ne andò lontana fino a diventare un puntino all’orizzonte e sparire. Lo stakanovista del fucile aveva visto giusto. Prendeva i camosci aspettando. Scoperto il branco, individuava il maschio vecchio e diceva: «Vado lassù perché quello andrà lassù». E il camoscio andava lassù.
Un’altra volta, lui e il Cercatore erano a galli forcelli in una remota plaga a nord di un monte dal nome di pietra solida: Duranno. Avevano condotto a buon fine la battuta e intiepidivano le ossa al tenue sole di aprile su materassi di mughi. Laggiù, in un lembo lontano di valanga, apparve un puntino scuro che andava qua e là. Era un forcello. Sul bianco della neve ridotta a marmo, lo si vedeva nitido come talpa su un lenzuolo. Faceva avanti e indietro gonfio di piume aspettando qualche femmina. Il Cercatore provò a farlo salire imitando il soffio di un rivale. Niente. Non si spostava. Seguitava il suo va e vieni indifferente a ogni richiamo. Il bracconiere pregò l’allievo di non insistere: «Fermati, viene su lui, non chiamarlo più» disse.
Passò mezz’ora. Il vento portava in alto le paglie sparse nelle radure scongelate. Un sentore rancido di erbe morte veniva alla luce con lo sciogliersi delle valanghe. L’odore acre saliva a solleticare le narici. Uccelli bardati a festa cantavano alzando il volume. Ogni tanto un cuculo solitario faceva sentire la voce.
Era la primavera dei monti dimenticati, la magia irripetibile di quegli anni. Da tanto tempo il Cercatore non vede quella valle. Non ci è più andato. In nessuna stagione. Vi sono ricordi laggiù che pesano come piombo. Più di tutto gli manca quella primavera di gioventù che veniva avanti. E andava a conoscere le montagne ai piedi delle quali, in aprile e maggio, i forcelli sentivano l’amore. Questo succedeva laggiù, nella valle dimenticata, dove un giorno sulla lingua della slavina faceva la ruota un gallo con la coda a lira.
Cercatore e bracconiere continuavano a fissarlo col binocolo. Osservarono il suo tormento per un’ora. Improvvisamente l’uccello si fermò come avesse udito qualcosa più in alto. Dopo aver scrutato il cielo, prese a camminare a testa alta rimontando la lingua di neve fino ad arrivare presso i due. Lo avevano a pochi metri. Era venuto a piedi, come previsto dal bracconiere che leggeva il pensiero degli animali. E che non lesse invece quello della grande Signora il giorno fatale in cui si mosse verso di lui. Eppure avrebbe dovuto capirlo, la vita che conduceva nell’alcol era ad alto rischio. La morte lo colse a tradimento in casa, sulle scale che menavano al piano alto. Nessuno sa se le stava scendendo o salendo. Ma questo è un dettaglio senza importanza. Dormiva lassù, sotto il tetto, come una rondine nel nido, in una camera piena di bottiglie vuote. Lo trovarono rannicchiato dietro la porta. Più che rannicchiato, incassato come un cuneo nella fessura del tronco.
Che c’entra lo stakanovista bracconiere coi cinque sensi della montagna? C’entra. La montagna manifesta i suoi poteri a gente come lui, iniziati inconsapevoli, esseri speciali, uomini e donne, con un piede in altri mondi. La solitudine e il dolore, che accompagnano sovente questi disgraziati, fanno emergere in loro istinti sconosciuti. Poteri che li portano ad avvicinare e comprendere il regno animale, vegetale, sotterraneo e dell’aria. A costoro, la natura rivela segreti che i normali neppure osano pensare. Ecco perché costoro c’entrano coi sensi affinati della montagna.
C’era una vecchia che la sera del Vajont, quando il monte Toc scivolò nel lago provocando duemila morti, per tutto il giorno brontolò che era venuta l’ora.
«Preghiamo» diceva ai nipoti. «Questa notte viene giù il Toc.»
I ragazzini vivevano con quella vecchia fatta di corame e pazienza, assieme al nonno, marito di lei, e una povera sordomuta, sorella del nonno. Uno dei bimbi era il Cercatore, al tempo della tragedia aveva tredici anni. Quella notte un pezzo del Toc si staccò e fece tutti quei morti. La vecchia aveva sentito giusto. Come avevano sentito gli animali domestici, cani, vacche e capre, che nelle stalle strappavano le catene mugolando di terrore. Così andò quella notte nella casa dei vecchi ricordi.
Le montagne hanno forza e la regalano senza chiedere nulla. Così come la regalano il mare, i deserti e il cielo. Le montagne sono state create affinché gli uomini possano conoscere la propria anima e diventare migliori. Non fossero distratti da cose superflue, potrebbero riuscirci senza fatica. Ma preferiscono rimanere come sono e forse conviene loro così. Le montagne conservano i ricordi di chi le ha frequentate e amate come l’acqua conserva la memoria delle cose bagnate nel suo andare. I torrenti levigano sassi e sponde e creano sculture raspando i tronchi nelle anse e ogni tanto alzano la voce. Segnano la montagna con scriminature argentate come se la pettinassero. La pioggia conosce ogni foglia che tocca, quando le foglie vanno per terra, lei le dimentica. Perché a quel punto diventa neve e si posa sui rami a dialogare con l’inverno.
Questi segnali che fanno vivere e battere il cuore ai monti si percepiscono appena. In un’epoca confusa e indifferente alla natura, gli uomini non sanno più coglierli. Invece sono vivi. Forse vogliono riservarsi di farlo in tempi migliori, quando torneranno ad ascoltare la grande madre. Ma bisogna andare per ordine e parlare dei sensi della montagna. Cominciamo col tatto.

Il tatto

La montagna ha mani lunghe con dita affusolate che sfiorano, toccano, carezzano. A volte mollano schiaffi. Più raramente, ma accade, impugnano clave e tirano colpi che possono annientare. Sono tante le dita della montagna e molte cose tastano e afferrano, tirano a sé o lanciano lontano, muovono o tengono ferme.
Le cime degli alberi sono punte di affusolate dita. Abili esecutori, gli alberi suonano lo strumento dell’anima, dando vita a concerti di flauti, pianoforti, violini, trombe. Certe giornate di primavera si possono vedere gli alberi suonare il vento e, stando attenti, ascoltare le voci che ne traggono. E così, nelle altre stagioni, si possono udire le sinfonie del bosco che muove le mani sugli strumenti della natura. Le dita degli alberi annusano l’aria, si piegano, oscillano nell’intento di toccarsi, come amanti che si cercano prima di stringersi e darsi un bacio.
Quando il cielo è grigio e comincia a fare freddo e l’ultima foglia è caduta, l’autunno cede il passo all’inverno. In quel momento misteriose nebbie s’allargano basse a coprire la montagna. Allora le dita degli alberi scrivono storie su quei fogli bianchi, come un bambino disegna i vetri appannati mentre fuori cade la neve. Storie che si possono leggere stando fermi in piedi o seduti su un sasso, fissando intensamente la punta di un albero. L’indice della pianta si muove qua e là, traccia parole, frasi, scrive pagine su pagine. Mentre i fogli pieni se ne vanno per il cielo a disfarsi e far piovere racconti sulla terra, quelli bianchi corrono agli alberi a farsi riempire di nuovo. Così si accumulano resoconti d’inverni e primavere, romanzi d’estati e autunni. Anni volati via, dissolti nei silenzi assolati dei monti e nei geli siderali che tutto stringono e induriscono. Non resta che attendere. Aspettare i giorni che verranno fino a quando tutto finirà.
La voce della montagna è strana, spesso dura come quella degli uomini. A volte è soltanto un respiro silenzioso come i suoi inverni. In quei momenti la pace entra nel cuore degli esseri umani direttamente, senza ausilio d’orecchi. Allo stesso modo, il tatto della montagna non di rado è delicato, leggero come un fiocco di neve. Le sue mani si muovono senza far male, mentre proiettano sul terreno figure in movimento piene di grazia. La montagna fa il gioco delle ombre cinesi. Intorno agli alberi saltano e ballano animali inesistenti, personaggi senza corpo, figure eteree scaturite dalle dita mobili della foresta.
Una volta, d’estate, il Cercatore si trovava su un pascolo d’alta montagna. Non c’era filo di vento, né alito d’aria, né fiato per muovere una paglia. L’erba corta e rada pareva fil di ferro tanto era inchiodata nell’immobilità senza tempo. I soffioni stavano fermi come bocche di cristallo e le punte dei larici sembravano spilloni conficcati nel cielo terso, fisse in una rigidità innaturale. Era un pomeriggio assolato e strano, circondato di mistero. La montagna stava riposando, dormiva con le braccia sotto la testa e nessuno veniva a disturbarla. Finché non arrivò il corvo. Un corvo imperiale, col ritmico puff puff delle ali, mosse quell’aria di vetro e si adagiò sul dito indice del larice. La punta lo accolse con un inchino. Pareva lo stesse aspettando. Da lassù le loro sagome si proiettavano sulla corta erba assetata. Il corvo puliva le piume del petto stirandole per lungo col suo forte becco. Ma laggiù, sul prato senza vento, l’ombra dell’uccello pareva beccasse insetti. La sua testa si muoveva come quando i volatili trovano cibo. Era un gioco di ombre sul prato, fantasmi dell’aria che venivano in terra. Visione che di lì a poco diventò reale.
All’improvviso, il corvo notò qualcosa. I suoi occhi di mirtillo brillarono prima di lanciarsi a beccare cavallette. La magia terminò inaspettatamente con quel volo e quel pasto. Ma pochi istanti prima, le mani della montagna sfioravano l’erba e l’aria, che adesso s’erano fermate. Il dito verde del larice aveva ospitato il corvo, il sole ne aveva proiettato le ombre sul prato facendole vivere senza corpo. Laggiù giocava soltanto colore scuro del nulla. Il tatto della montagna aveva mandato una carezza.
Ma esistono tante mani che la montagna usa per tastare, sfiorare, stringere. Una di queste sono i fiori e le erbe dei prati. I quali di notte, quando nessuno li vede, s’inchinano verso il basso a toccare, annusare, sfregare il viso nell’umido della terra. Per rigenerarsi, darsi forza, prendere slancio. Occorre piegare la testa se si vuole rialzarla con speranza. Si deve andare indietro a prendere la rincorsa per spiccare il balzo.
La montagna col suo tatto grandioso, delicato o potente a seconda dei casi, insegna a comportarsi. Basterebbe osservare. Manda in giro le sue mani infinite a fare opere e azioni che, se gli uomini imitassero, sarebbe una fortuna. I rami della betulla insegnano a non essere testardi, cocciuti e indomabili, bensì a cedere per non venir frantumati. Quando la neve cade, bagnata e pesante, la betulla sente che le sue braccia stanno per spaccarsi. Allora le abbassa con umiltà, scarica la neve e le rialza al loro posto. Agisce al contrario del carpino, che se le lascia spezzare per l’orgoglio di non cedere.
Quando le erbe dei pascoli drizzano il collo, e bevono i temporali e il sole d’agosto, oscillano alla minima brezza. In quel momento si spostano a destra e a sinistra a sentire chi hanno vicino. Assaggiano cose, scambiano saluti, stringono mani. Il tatto della montagna si manifesta in vari modi, in questo caso allunga le sue dita a capire se tutto è a posto. Basta stendersi nell’erba con le mani sotto la nuca per sentire sul corpo la sua curiosità. Quasi invadente, la montagna manda il tatto a conoscere chi si adagia su di lei. Si viene sommersi di fiori, steli, bacche, petali che si piegano sull’intruso a carezzarlo e fargli il solletico. Può essere all’inizio una sensazione fastidiosa, ma chi resiste qualche minuto verrà gratificato.
C’è un tatto misterioso fatto d’aria che si manifesta assai poco. Consiste nel soffiare direttamente sulle persone. Sono tocchi inequivocabili, di conseguenza inquietanti, che lasciano a chi li riceve una certa paura. Di solito sono dita d’aria a palpare il prescelto, ma possono essere anche solide come mani aperte che premono. Queste esperienze sembrano più che altro segnali, come se la montagna volesse avvertire di alzare la guardia, stare attenti a qualcosa che ci potrebbe capitare.
Poco tempo fa, il Cercatore si trovò a passare la notte in un albergo speciale, dotato di ogni lusso. È un sasso ciclopico, alto come un palazzo, che da un lato sporge parecchi metri evitando alla pioggia di entrare. Si trova al centro di un praticello nella remota Valle dell’Inferno, un intaglio di boschi e rocce che, a dispetto del nome, è un paradiso in terra. Accanto al masso, trilla con voce di moccioso la fresca acqua di un ruscello. Sopra il blocco la superficie è piatta e vi cresce un tappeto di mughe dal verde intenso. Un tempo, sotto quel roccione si riparavano dai temporali pastori e boscaioli. D’estate vi dormivano. Tracce di loro sono ancora lì a rivelarne il passaggio. Segni scarabocchiati malamente sulla pietra con tizzoni spenti, qualche cuore trafitto, nomi di uomini che amarono donne. Tutte persone ormai scomparse, traslocate all’altro mondo le cui anime vagano lungo la Valle dell’Inferno coscienti di essere in paradiso.
Allora, quella notte, il Cercatore si coricò sotto il grande masso, e successe una cosa alquanto strana. D’improvviso cominciò a piovere come se il cielo fosse rovesciato di colpo sotto sopra. Poco prima c’era la moneta lucente della luna che guardava giù, e illuminava i boschi rendendoli fasci d’argento. Con gli scrosci arrivò un vento di braccia solide che piegava gli alberi quasi a spezzarli. Sopra il masso le mughe si torcevano fino a sporgere dal bordo come frange di capelli su di un viso. Il tutto sarà durato sì e no venti minuti, poi vento e pioggia se ne andarono lesti com’erano arrivati e la luna comparve di nuovo a illuminare i picchi. Una quiete assoluta calò sulla radura, e un silenzio senza tempo dondolava nella polvere dorata del cielo. Solo ogni tanto qua e là, il Cercatore udiva un gocciolio sommesso, proveniente dai rami nudi, spegnersi sul terreno bagnato. Novembre stava per finire, foglie sugli alberi non ce n’era più. Stavano per terra in attesa di tirarsi addosso la soffice coperta della neve.
Fu dentro quel silenzio e quella pace che l’uomo sotto il masso venne toccato per due volte dal tatto della montagna. Si trattò di segni brevi, ma forti e nitidi da spaventarlo. Dal sacco a pelo tirò fuori un braccio per tastare la temperatura. Non faceva freddo. Per questo la neve stava ancora lassù, nelle remote lontananze del cielo, pronta a calare sulla valle in qualsiasi momento. Ogni tanto un barbagianni cigolava stentoreo come avesse la voce arrugginita. Forse era stanco. Si trovava vicino ma pareva cantasse ai confini del mondo.
In quell’attimo il Cercatore sentì sulla spalla destra un soffio netto come uno schiaffo. Fu aria gelida a toccarlo. Pensò a un colpo di vento ma non poteva essere. Era troppo corto, soprattutto localizzato in un sol punto. Si mise in ascolto. Intanto rifletteva sullo strano tocco ricevuto. Era come se un essere invisibile si fosse avvicinato alla sua spalla e vi avesse soffiato sopra. Il Cercatore aspettò prima di convincersi che era solo un buffo di vento. Ebbe ragione attendere. Di lì a poco, infatti, il fenomeno si ripeté. Stava ancora col braccio fuori quando il soffio tornò ad abbattersi sulla spalla. Allora si rizzò in piedi spaventato, col sacco a pelo in fondo alle gambe come pantaloni calati. Non dormì più. Aspettò l’alba in attesa che tornasse la carezza gelida ma non tornò.
L’indomani, ancora frastornato, salì a una forcella lontana per scalare un picco ancora vergine. Quando fu a un metro dalla cima, con la mano destra strinse una presa per risolvere l’ultimo passaggio. Mentre tirava, l’appiglio si mosse insieme a un blocco grande quanto un forno a microonde. Il sasso ruotò appoggiandosi alla spalla del Cercatore. Rischiò di cadere. Ora si trovava messo male. Se lasciava andare la pietra, gli finiva sui p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I misteri della montagna
  4. I segreti delle montagne
  5. L’eco
  6. Vento
  7. Ruscelli
  8. Il cuore degli alberi
  9. Le baite e i loro misteri
  10. Ritrovamenti
  11. Sconosciuta
  12. Spostamenti
  13. Sentieri
  14. I cinque sensi della montagna
  15. Percezione
  16. Epilogo
  17. Copyright