In una camera al secondo piano di un anonimo albergo nella colonia britannica di Gibilterra, un uomo snello e prestante, più vicino ai sessant’anni che ai cinquanta, stava camminando avanti e indietro con aria inquieta. I suoi lineamenti tipicamente inglesi, benché piacevoli e dignitosi, tradivano una natura collerica arrivata ai limiti della sopportazione. Uno studioso, si sarebbe potuto pensare osservando la sua postura, leggermente protesa in avanti, e la ciocca ribelle color sale e pepe che cercava di rimettere a posto di continuo con colpetti nervosi del dorso della mano. Non sarebbe venuto in mente a molti, neppure se dotati di una fantasia sfrenata, che l’uomo in questione potesse essere un funzionario dell’amministrazione statale britannica sottratto al suo ruolo in uno dei settori più insignificanti del ministero degli Esteri di Sua Maestà per essere destinato a una missione top secret di estrema delicatezza.
Il suo nome di copertura, che l’uomo ripeteva spesso tra sé, a volte anche ad alta voce, era Paul – non particolarmente difficile da ricordare – e il cognome era Anderson. Quando accendeva il televisore, sullo schermo compariva la scritta “Benvenuto, Mr Paul Anderson. Perché non viene a godersi un aperitivo omaggio nel salottino privato del nostro hotel!”. Il punto esclamativo, al posto di quello interrogativo, assai più appropriato, aveva il potere di risvegliare immancabilmente quel pizzico di pedanteria che lo caratterizzava. Dall’inizio della sua segregazione aveva sempre indossato l’accappatoio bianco in dotazione all’albergo, tranne quando si coricava, cercando invano di dormire, o nell’unica volta in cui era sgusciato a un’ora improbabile nella brasserie all’ultimo piano, inondata dalle esalazioni di cloro provenienti da una piscina situata sul tetto del palazzo di fronte. Come tutto il resto nella stanza che occupava, l’accappatoio, troppo corto per le sue lunghe gambe, puzzava di fumo stantio e di deodorante per ambienti alla lavanda.
Mentre percorreva la stanza avanti e indietro, lasciava che i suoi sentimenti fluissero liberamente, senza l’abituale controllo a cui li assoggettava nel corso della sua vita ufficiale, cosicché il suo viso, riflesso nello specchio a figura intera avvitato alla parete, a volte si contraeva in un’espressione di autentica perplessità, e altre ribolliva di rabbia. Di tanto in tanto parlava tra sé come per trovare conforto o per darsi coraggio. A volte la voce gli si alzava, ma che differenza poteva fare quando uno era rinchiuso in una stanza vuota senza nessuno che lo ascoltasse, a parte una foto colorata a mano raffigurante la nostra amata sovrana da giovane mentre montava a cavallo?
Su un tavolo dal piano di plastica giacevano i resti di un club sandwich arrivato già morto e di una Coca-Cola calda. Nonostante la privazione gli costasse una gran fatica, aveva deciso di non concedersi alcuna bevanda alcolica da quando aveva preso possesso della stanza. Il letto, nei confronti del quale provava un odio sconfinato, era abbastanza grande per accogliere sei persone, ma bastava che lui vi si stendesse perché la sua schiena gridasse vendetta. Sopra un copriletto di finta seta color cremisi spiccava un cellulare dall’aria innocente che, a quanto gli avevano assicurato, era stato criptato in modo da renderlo praticamente inaccessibile, e lui, nonostante la poca fiducia che nutriva nei confronti della tecnologia, non aveva motivo di dubitarne. Ogni tanto gli si avvicinava e lo scrutava con un misto di rimprovero, desiderio e frustrazione.
“Mi dispiace doverti informare, Paul, che per tutta la durata della tua missione non potrai comunicare con nessuno se non per ragioni operative.” La voce di Elliot, l’uomo che si era autonominato suo comandante sul campo, lo aveva avvertito con quel suo faticoso accento sudafricano. “Se per disgrazia un membro della tua famiglia dovesse trovarsi in qualche guaio durante la tua assenza, potrà sempre informare il tuo ufficio, che provvederà a stabilire un contatto con te. Sono stato chiaro, Paul?”
Come no, Elliot. E non solo su questo punto.
Quando raggiunse la finestra panoramica all’estremità della stanza, alzò gli occhi corrucciati a guardare la leggendaria Rocca che, con il suo aspetto rugoso, giallognolo e remoto, gli ricambiò lo sguardo con un’aria da vedova stizzita.
E di nuovo, un po’ per abitudine un po’ per impazienza, scrutò l’orologio da polso e lo raffrontò con i numeri verdi che comparivano sul display della radiosveglia accanto al letto. L’orologio era d’acciaio con il quadrante nero, un oggetto a lui estraneo, arrivato in sostituzione del Cartier d’oro che sua moglie gli aveva regalato in occasione delle nozze d’argento grazie a un’eredità proveniente da una delle sue numerose zie.
Ehi, aspetta un attimo! Paul non ce l’ha una moglie! Paul Anderson non ha né moglie né figli, Paul Anderson è un fottuto eremita!
“Non è che puoi andartene in giro con quello, caro Paul, non ti pare?” gli aveva detto un secolo prima una donna dall’aria materna, più o meno sua coetanea, nella villetta di mattoni rossi vicino all’aeroporto di Heathrow dove, insieme a una collega, lo stavano preparando al suo nuovo ruolo. “Soprattutto considerando le belle iniziali che porta incise. Dovresti giustificarti dicendo che l’hai soffiato a qualcuno sposato.” Lui era stato al gioco, deciso come sempre a comportarsi da bravo ragazzo, così era rimasto a guardarla mentre lei scriveva “Paul” su un’etichetta adesiva che aveva appiccicato su una piccola cassetta di sicurezza nella quale aveva riposto l’orologio d’oro insieme alla vera, entrambi destinati a restare lì per ciò che lei aveva definito “la durata”.
Come diavolo sono finito in questo squallido buco?
Mi ci sono lanciato io o mi hanno spinto? Oppure è stato un insieme delle due cose?
Per favore, descrivete in una serie di giri intorno alla stanza le modalità che vi hanno condotto all’improbabile viaggio da una beata monotonia a una cella di isolamento in una minuscola colonia britannica.
“E come sta la tua povera moglie?” chiede la matura e gelida regina dell’ufficio personale, di recente ribattezzato pomposamente e per ragioni misteriose “ufficio risorse umane”, dopo averlo convocato senza una parola di spiegazione nel suo prestigioso rifugio la sera del venerdì, quando tutte le persone perbene si stanno affrettando verso casa. I due sono vecchi avversari, e se hanno qualcosa in comune è la sensazione che, di gente come loro, ne sia rimasta poca.
“Grazie, Audrey, ma non la definirei esattamente povera” risponde con la voluta leggerezza a cui ricorre nel corso di questi incontri, così minacciosi per l’esistenza. “Meglio ‘cara’ che ‘povera’. Comunque, è in piena ripresa. E tu? Scoppi di salute, immagino.”
“Quindi, puoi anche lasciarla” dice Audrey, ignorando il suo interessamento.
“Oh, diavolo, no! In che senso?” ribatte lui, deciso a mantenere un tono lieve.
“Sarò più precisa. Ti interesserebbe trascorrere quattro giorni, magari cinque, all’estero e in totale segretezza in una località nota per la bontà del suo clima?”
“Grazie, si dà il caso che la proposta non sia priva di interesse. Attualmente nostra figlia vive con noi, quindi casca proprio al momento giusto, considerato anche che la ragazza di mestiere fa il medico” aggiunge in un impeto di orgoglio, accolto tuttavia dal totale disinteresse di Audrey, per nulla colpita dai successi della sua prole.
“Non so di cosa si tratti e non voglio saperlo” dice Audrey, rispondendo a una domanda che lui non le ha fatto. “Al piano di sopra c’è un giovane e dinamico viceministro di nome Quinn che vorrebbe vederti subito. Forse ne hai sentito parlare. È un nuovo acquisto, nel caso in cui la notizia non sia ancora arrivata nelle lande desolate del dipartimento Crisi logistiche dove stai tu. Viene dal ministero della Difesa, tanto per metterti sull’avviso.”
Di cosa diavolo sta parlando? Certo che è al corrente della notizia. Anche lui legge i giornali e guarda “Newsnight”. L’onorevole Fergus Quinn, per il mondo Fergie, è un attaccabrighe scozzese con pretese intellettuali, appartenente al branco del New Labour. In televisione è loquace, combattivo e inquietante. Inoltre, si vanta di battersi a fianco della gente comune contro la burocrazia di Stato, e questo è poco rassicurante, visto che anche lui è un burocrate di Stato.
“Vuoi dire adesso, in questo istante?”
“È quello che, secondo me, lui intende con l’avverbio ‘subito’.”
L’anticamera ministeriale è vuota, abbandonata già da tempo dallo staff. La porta di mogano, solida come il ferro, è socchiusa. Meglio bussare e aspettare, o bussare e aprirla? Azzarda timidamente entrambe le possibilità, finché una voce dice: “Non resti lì impalato. Entri e chiuda la porta”. Obbedisce.
La figura robusta del giovane e dinamico ministro è strizzata in uno smoking blu notte. Se ne sta appoggiato, con il cellulare all’orecchio, davanti al caminetto di marmo in cui brilla della carta stagnola rossa a simulare le fiamme. Anche dal vivo, così come in televisione, è tarchiato, con il collo massiccio, i folti capelli rossi tagliati corti e gli occhi rapaci in continuo movimento che spiccano nel viso da pugile.
Alle sue spalle, l’imponente ritratto di un funzionario imperiale del diciottesimo secolo vestito con un paio di brache. In uno sprazzo di malizia provocato dalla tensione, il paragone tra i due uomini, così diversi, gli appare irresistibile. Nonostante Quinn si dia molto da fare per accreditarsi come un interprete del volere popolare, entrambi hanno stampata in viso una smorfia di aristocratico scontento. Tutti e due hanno il peso caricato su una sola gamba e il ginocchio dell’altra leggermente piegato. Che il giovane e dinamico ministro stia per lanciare una spedizione punitiva contro gli odiati francesi? Oppure, in nome del New Labour, ha intenzione di denunciare la follia delle manifestazioni di piazza? Niente di tutto questo; limitandosi a un brusco “Ti chiamo dopo, Brad” sbraitato al cellulare marcia verso la porta, la chiude a chiave e si volta di scatto.
“Mi hanno detto che lei è un membro esperto del Servizio, è vero?” chiede in tono di accusa con un accento di Glasgow che deve essere stato scrupolosamente coltivato, dopo averlo scrutato da capo a piedi in una sorta di ispezione che sembra confermare i suoi peggiori timori. “‘Una mente fredda’, qualunque cosa significhi. Vent’anni passati a ‘gironzolare all’estero’, secondo l’ufficio risorse umane. ‘Assolutamente discreto, è molto difficile che perda le staffe.’ Non c’è male come rapporto, anche se bisogna guardarsi bene dal credere a tutto quello che si racconta qui dentro.”
“Sono molto gentili” commenta lui.
“Poi si è arenato, e ora è confinato tra quattro mura a girarsi i pollici. È stata la salute di sua moglie che l’ha bloccata, vero?”
“Ma solo in questi ultimi anni, signore” ribatte, vagamente seccato per quel “girarsi i pollici”. “E sono lieto di comunicarle che, attualmente, nulla mi impedisce di viaggiare.”
“Al momento di che cosa si occupa...? Me lo ricordi, per favore.”
Lui inizia un resoconto, enfatizzando le sue molteplici responsabilità e l’importanza del suo ruolo, ma l’altro lo interrompe subito.
“D’accordo. Ora le faccio una domanda. Ha mai avuto qualche esperienza diretta nel lavoro di intelligence? Personalmente, intendo” lo avverte, come se ci fosse un suo doppio che vuole escludere da quella ...