Motore 49 cc, sei marce, raffreddamento ad acqua. Freno anteriore a disco, freno posteriore a tamburo. Ammortizzatori idraulici. Velocità 49 km/h.
Non è un motorino, è una bomba. Basta togliere la membrana al carburatore e ti prende i settanta come niente.
Questo pensava Francesco, quattordici anni, mentre sfogliava una rivista di moto.
Stava seduto sul gabinetto.
Ci stava da almeno mezz’ora là sopra e il sedere cominciava a fargli male. Ma quel giornale lo rapiva. Non c’era niente da fare. Soprattutto le prove su strada. Ci si vedeva sopra quelle belve a due ruote a correre tra i birilli, a provare la ripresa da 0 a 100.
Quello voleva essere da grande: un collaudatore di motociclette.
«Oh, che ti è successo? Sei morto?»
La voce di sua madre dietro la porta.
«Esco. Esco.»
Francesco si alzò, si abbottonò i jeans, infilò la rivista nella tasca posteriore e uscì dal bagno. Sua madre era in cucina. Stava preparando l’impasto per la pizza. Francesco prese un bicchiere di succo di pera dal frigo e le si sedette accanto.
«Mamma io esco.»
«Dove vai?»
«Ma, non lo so. Forse vado da Enrico.»
«Ah…»
La madre continuava a lavorare la pasta, a strizzarla. Ogni tanto ci aggiungeva un goccio d’acqua. Guardava l’impasto con un’espressione di odio.
«Prepari la pizza?»
«Sì, ma sta venendo uno schifo. È piena di grumi.»
«Lo sai che i genitori di Enrico gli hanno regalato un’Aprilia GSW da cross?»
Mentiva. Al suo amico Enrico avevano promesso di comprare un’Aprilia se, e quel «se» era grande come l’oceano, fosse stato promosso a giugno, senza neanche una materia.
«Ah che bello!» gli rispose la madre distratta.
«Sì, lui è contentissimo. E poi non costa molto.»
«Quanto l’hanno pagata?»
«Tre milioni e ottocentomila chiavi in mano.»
«Ah. Allora sono ricchi i genitori del tuo amico.»
La madre di Francesco finalmente finì. Prese la palla di pasta e l’avvolse in uno straccio bagnato. La poggiò sulla credenza. Tirò fuori dal frigo i fagiolini e cominciò a sgusciarli.
«Guarda che non è molto. Esistono degli scooter che costano più di quattro milioni» continuò Francesco ostinatamente.
«Che fai ricominci?» sbuffò sua madre.
Francesco crollò sulla sedia affranto.
«Dai ma’, ti prego, comprami un motorino. Ti prego. Sto malissimo senza.»
«Basta Francesco, sei petulante. Te l’ho detto; è no. Quando avrai sedici anni e sarai più grande te lo compreremo. Non possiamo parlarne tutti i santi giorni…»
Francesco rantolò sulla sedia. Allargò le gambe e prese un grande respiro. Si alzò.
«Va be’, io esco.»
«Torna prima di cena.»
Francesco sì infilò la giacca a vento e i guanti. Fuori faceva freddo. Chiuse la porta di casa e scese le scale di corsa.
Due anni. Due anni non finiscono mai. Era l’unico a non avere ancora il motorino. Lui e quello sfigato di Enrico. Un poveraccio, ecco quello che si sentiva.
Poi quando avrò sedici anni tutti i miei amici avranno il 125 e io avrò il 50. Perché il mondo è così ingiusto?
Uscì dal portone del condominio correndo, tirò fuori dalla tasca una chiave e aprì il lucchetto che teneva legata la mountain bike a un palo della luce. La guardò con disprezzo. Solo un anno prima era la cosa più bella che aveva, ma ora… Era solo ferraglia fosforescente.
Ci montò sopra e cominciò a pedalare senza una meta precisa. Girò in una stradina laterale che si infilava tra due palazzoni in costruzione. Non c’era nessuno. Nessuno dei suoi amici. Decise di fare un po’ di cross. Continuò per la stradina che presto perse l’asfalto. Camminava tra i ciottoli, con la bocca faceva il rumore di un motore a due tempi raffreddato ad acqua e ogni tanto sgommava, immaginandosi di essere sopra una Aprilia GSW.
Scese dalla bicicletta, se la caricò in spalla e si arrampicò su per una scoscesa di terra. Arrivato in cima la mise giù. Davanti a lui si stendeva un campo abbandonato. Ai lati c’erano mucchi di mobili sfondati, televisori, reti, immondizia e altra roba. In mezzo all’erba e all’ortica si intravedevano le impronte lasciate dalle moto da cross dei ragazzi più grandi. In fondo, in lontananza, ce n’erano tre seduti su una panchina sfondata. Fumavano e sicuramente parlavano delle loro moto. Sembravano dei cavalieri medioevali seduti accanto ai loro fidi destrieri.
Sarebbe stato il massimo starsene così, con loro, seduto tranquillo, con la propria moto davanti, a chiacchierare.
Rimontò in sella. Si lanciò a tutta velocità lungo la pista di fango stando attento a non finire con le ruote della bicicletta nei solchi lasciati dai pneumatici. Fece un paio di salti ma senza soddisfazione.
Un rumore meccanico ruppe improvvisamente il silenzio. Lo strillo acuto di un motore al massimo dei giri. Una motocicletta gli stava venendo incontro a palla, saltando sulle cunette e riempiendo l’aria di un gas bianco e puzzolente. Francesco si buttò rapidamente da un lato e quasi finì lungo disteso nel fango. Il centauro gli passò accanto a pochi centimetri. Gli urlò:
«Levati da là con quella bicicletta, cretino.»
Poi scomparve oltre una duna. Francesco si girò su se stesso e spingendo la bicicletta si avviò verso il bordo del campo. Tornò sulla strada. Attraversò una grande arteria trafficata fino alla sala giochi. C’era poca gente e nessuno dei suoi amici. Solo un paio di ragazzi che conosceva appena. Fece un paio di giri con la formula uno e uscì.
Probabilmente i suoi amici erano andati in centro.
Che palle!
Si fermò davanti all’officina di Romano. Davanti, schierati in fila, diversi motorini, alcune moto di grossa cilindrata e un paio di moto da cross.
Francesco appoggiò la bicicletta a un palo e si mise a osservare i motori, le forcelle. Vicino a una Kawasaki lavorava un giovane, sui sedici anni, con un codino, un lungo naso aquilino e gli occhiali. Indossava una tuta blu sporca di grasso, gli scarponi scuri e su una guancia aveva una strisciata nera. Stava aprendo la testata del motore e infilando le guarnizioni.
«Ciao Marco!» gli disse Francesco sedendosi sopra un piccolo sgabello di legno.
«Ciao Fra. Sei venuto a rifarti gli occhi?» fece il giovane sorridendo. Aveva un bel sorriso, rovinato da un incisivo mancante.
«Mah, passavo di qua.»
«Allora che vuoi fare con quel gioiellino? Guarda che se la portano via se non ti spicci.»
«Ma non lo so. Non sono più tanto sicuro che mi piaccia. Forse mi dovrei prendere un KTM, è più compresso.»
«Fai come ti pare. Ma una moto così robusta e con un assetto come quello non la trovi. Te lo dice Marco che di moto ne capisce.»
«Tu dici…» fece Francesco riflettendo.
Stimava molto Marco. Lo aveva visto un paio di volte correre sul campetto. Farsi più di duecento metri su una ruota sola. La sapeva portare la moto.
Tirò fuori da una tasca della giacca a vento un pacchetto di gomme.
«Vuoi una?»
«No grazie.»
Francesco rimase ancora un po’ a guardare Marco lavorare. Poi si alzò, si tirò su i jeans ed entrò nell’officina.
All’interno era buio. Solo un lungo neon scarico rischiarava un po’ l’ambiente. A un lato un grosso bancone pieno di attrezzi e una vecchia radio che suonava musica leggera. Al centro della stanza, smontata in mille pezzi, troneggiava una Harley Davidson gigantesca. Era coperta di borchie argentate e cuoio nero. Sul serbatoio era disegnata una donna nuda che si trasformava in una torcia.
Da un gabbiotto di vetro, adibito a ufficio, uscì un uomo grasso e pelato. Sopra il naso rotondo poggiavano un paio di occhiali di tartaruga. Le lenti spessissime gli trasformavano gli occhi in due puntini neri. Indossava la tuta da lavoro.
«Ciao Romano.»
«Ciao Francesco. Hai visto che bestiaccia?» disse il meccanico indicando l’Harley.
«Questa è una mille e tre…»
I due si conoscevano bene. Da mesi Francesco era un frequentatore assiduo di quell’officina.
«Boh, credo di sì.»
«Senti posso vederla….» chiese d’un fiato il ragazzo.
«Vai, vai. Tranquillo.»
Romano uscì dall’officina e Francesco rimase solo. Si avvicinò a un angolo. Accanto a un mucchio di copertoni usati ci stava una moto coperta da una vecchia trapunta di lana marrone.
La scoprì.
Eccola. La sua moto.
Diventava ogni giorno più bella.
La sua Aprilia GSW.
Con quei parafanghi viola, il serbatoio metà rosso e metà viola. Con quei giganteschi ammortizzatori, con le molle dure e grosse. Il faro piccolo e giallo. Le frecce snodabili. Per non parlare poi delle ruote con quei tasselli che sembravano dei baci Perugina. Veniva voglia di masticarli. Era alta e affidabile. Era semplicemente il massimo.
«Lo sai chi se la vuole comprare? Quel ragazzo… come si chiama? Quello che lavora al bar La Palma.»
La contemplazione fu spezzata dalla voce bassa e rauca di Romano. Era in piedi, dietro di lui, con le mani sui fianchi. Anche lui la guardava soddisfatto.
«Come?» disse Francesco ritornando tra i vivi.
«Sì, se la compra il garzone del La Palma.»
«Veramente?»
Il peggiore dei suoi incubi si era avverato.
Se la sarebbe comprata qualcun altro. Odiò il garzone del bar La Palma. Lo conosceva. Bruno Martucci detto il Pagnotta. Francesco ignorava l’origine di quel soprannome. Se lo ricordava bene però. Brutto. Una specie di torello brufoloso, con la fronte bassa e sempre sudato. Uno di quelli che menano, che non ti lascia dire una parola e già ti ha massacrato di botte. Se lo vide davanti, sulla sua moto, a fare il coglione su e giù per il campetto.
A impennare.
Un incubo. Il peggiore della sua vita.
«Nooo!» mormorò tra sé Francesco in preda alla disperazione.
«Gli ho detto che poteva prenderla, ma prima dovevo chiedere a te che cosa volevi fare. Ci sei prima tu. Allora la vuoi?»
«Sì… Sì, la voglio io» disse Francesco sconsolato.
«E i tuoi?»
Francesco si girò di nuovo verso l’Aprilia. Vide il luccichi...