I turcs tal Friûl… i turchi in Friuli.
Vecchia storia. Zona di confine, ponte tra Est e Ovest, crocevia di popoli, il Friuli aveva subito diverse visite non proprio di cortesia: tra il 1463 e il 1499 orde di ottomani razziarono e distrussero interi villaggi, la cui unica colpa era quella di trovarsi al confine orientale, sulla strada per Venezia. Erano turchi e lì puntavano, guidati dai vari Iskanderbeg di turno, ma per tenersi in esercizio devastavano e distruggevano lungo il cammino, non si sapeva mai, era un ottimo allenamento. Si salvarono soltanto le città dotate di mura come Udine, Pordenone, Cividale. Poi Venezia, lontana sullo sfondo, preda ambita ma utopica, difficilmente raggiungibile a conti fatti, riusciva sempre a negoziare una qualche tregua con loro, e quelli tornavano indietro. Devastando e distruggendo una seconda volta, tanto per non deludere le aspettative. Avanti e indietro per quasi mezzo secolo. Sei, sette, forse otto incursioni – c’è chi ne conta una anche agli inizi del secolo. Una vera e propria Autostrada del Sangue, con corsie privilegiate di incendi, razzie, stupri, sgozzamenti, decapitazioni, all’urlo ferino di “Bre bre!”.
Nelle chiese le iscrizioni marmoree recavano ancora memoria di quegli scempi. A Tricesimo, si poteva leggere il resoconto dei fatti dell’ottobre 1477: “li Turchi rompe lo campo al Isonzo… stracorse brusando la Patria per tutto”. A Pravisdomini si trovavano i fatti del novembre successivo, in una specie di breaking news formato pietra: “li Turchi corsero il Friuli”. A Casarsa si proseguiva con i fatti del settembre 1499, e l’amara constatazione che in vent’anni niente era cambiato, anzi: “A dì 30 settembre furono li Turchi in Friuli”.
Era già successo.
… furono li Turchi in Friuli… corsero… brusando…
Perché non poteva succedere di nuovo?
In fondo la storia funzionava come una lavatrice. Cicli e ricicli. A volte centrifugava, altre volte no.
Stavolta centrifugava, eccome. L’incubo si ripeteva. Sotto una nuova forma, più moderna.
Era da Tarcisio, immerso in questi pensieri, quando arrivò Moroder. La telefonata con il pm l’aveva svuotato. Aveva chiesto un tajut del suo preferito.
Alla vista del suo vice attaccò senza mezzi termini: «Orfeo, è una guerra, anche se non sembra».
E non riuscì a fermarsi nemmeno davanti al muto sgomento del suo vice. «Siamo sempre stati abituati a guerre con eserciti più o meno regolari, truppe di terra, aria, acqua, sbarchi, scontri, tutto l’ambaradàn classico del generale Patton. Qua invece è tutto più… come dire… sfumato…»
E giù un sorso di Ribolla Gialla.
Non era sicuro che il vice lo stesse seguendo. Ci mise il carico da novanta. «È la Terza guerra mondiale, Orfeo.»
Da quando era arrivato, Moroder non aveva aperto bocca.
«Il nemico è in casa, Orfeo.»
L’altro sbiancò di colpo. Balbettò: «… dice sul serio, ispettore?».
Impossibile non turbarsi con quelle parole. Lo stesso Santoliquido, implacabile mastino napoletano, aveva dovuto concedergli il beneficio del dubbio. Per forza. Con quella roba lì non si scherzava. Maneggiare con cura.
«Che si fa, ispettore?» Altro non riuscì a dire il povero Moroder.
Furlan buttò giù l’ultimo sorso di Ribolla. A costo di sembrare brutale o insensibile, aveva bisogno dei suoi tempi. Tempi da contadino. Mai farsi assalire dalla fretta. La fretta è roba da città.
«Non so te, ma io vado a schiarirmi le idee per Ferragosto. Ci aggiorniamo il 16 mattina» concluse Furlan, ruvido come un cardo di campo.
Salì sulla Guzzi parcheggiata fuori dal commissariato. Un colpo di pedale e via.
Dunque, borbottò tra sé, il casco pigiato quasi a togliergli il fiato. Proprio un foreign fighter? Non poteva essere…
Eh, cos’altro poteva essere?
Per quanto si spremesse, niente.
Gli venne allora in soccorso il saggio consiglio di suo nonno Eliseo: contare fino a dieci prima di intraprendere una qualsiasi azione – seminare, arare, ma anche parlare, pensare, trarre delle conclusioni… Vista la gravità della situazione però forse era il caso di contare oltre. Oltre le dieci dita delle mani, aggiungendo come minimo quelle dei piedi.
Procedendo a cinquanta, massimo sessanta chilometri orari, non gli mancava certo il tempo per contare. E tra un conto e l’altro – venti, trenta, quaranta… hai voglia a sciorinare mani e piedi – la sua mente non rimase alla finestra: vagliò ogni possibilità, ricostruì ogni fatto a lui noto, in cerca di un indizio.
Il sole evaporava all’orizzonte. Ma con lui non evaporavano le inquietudini della giornata.
Intanto i paesi sfilavano uno dopo l’altro. Pallide ombre. Era già a Gorgo. E dopo Gorgo fu la volta di Paludo. E poi Pertegada. E Aprilia Marittima. E Bevazzana, l’ultima frontiera.
Un airone si alzò in volo da un canneto.
Stressato e deluso, sudato come un panno fradicio, al grande rondò d’ingresso Furlan imboccò la strada per Pineta.
Delle rosticcerie amava l’aria di famiglia, quando entravi superando la tenda di perline fruscianti e quel fruscio era l’apriti sesamo che ti conduceva in un altro mondo e in quel mondo era come se ci si conoscesse da una vita, e poi il crepitio della friggitrice, sulle prime saltellante, ma poi lento, quasi a spegnersi in una calma zen, e il lampo argenteo della stagnola con cui venivano avvolti, come protetti, i tuoi manicaretti, e perfino il nome, rosticceria, così pieno e rotondo, a rievocare girarrosti, spiedi, leccarde, griglie, pirofile, padelle, pentole, mestoli, forchettoni.
Nei suoi va e vieni da Cividale ne aveva adocchiata una lungo via dei Pini, un po’ prima di imboccare l’Arco del Bragozzo dove c’era il loro appartamentino.
Smontò dalla Guzzi.
Entrò.
«Cosa le do?» gli chiese uno scaldabagno in grembiule al bancone. Sul braccio destro, quello con cui serviva, il tatuaggio rosseggiante di un gambero – di mare, non di fiume, non c’erano dubbi.
Davanti a Furlan, separato soltanto da un sottile vetro divisorio, il paradiso in terra, l’estasi a portata di papille. Vassoi di crocchette di patate, teglie di lasagne al forno, melanzane alla parmigiana, e ancora merluzzi impanati, fritti misti, polpetti in umido, galletti arrosto, polpettoni, frittate, crespelle…
“Tutto” stava per rispondere.
Alla fine scelse crocchette di patate, mezzo galletto arrosto, frittata agli asparagi e panna cotta ai frutti di bosco. Ah, e una familiare di Moretti gelata.
Stomaco e cervello in Furlan comunicavano per strane e segrete vie. In quel momento, seduto in quella rosticceria, servito da un grizzly in grembiule con il tatuaggio di un grosso gambero di mare sul bicipite destro, l’ispettore aveva la sensazione di colmare non soltanto il vuoto dello stomaco, ma anche, e soprattutto, quello del cervello. Mangiando, non solo si placavano la salivazione e i morsi della fame, ma la mente stessa si schiariva.
Tra un boccone e l’altro Furlan rimuginava. Rimasticava tutti gli sviluppi dell’indagine. Detestava occuparsi di lavoro mentre mangiava, ma non aveva altra scelta.
Dunque, in un’indagine si mettono in fila i fatti. Uno dopo l’altro. E allora mettili in fila, uno dopo l’altro, sti benedetti fatti! Da brava lumachina quale sei, Drago. Non ti ricordi cosa diceva sempre nono Eliseo? Se si nasce quadrato, non si può fare la vita del cerchio, si ripeteva Furlan addentando le crocchette.
Si fece dare una biro. Sfilò la tovaglietta di carta bianca da sotto il piatto. Bianca? Ormai era unta e bisunta, cosparsa di briciole, impanatura, olio, strutto, macchie varie. Individuò la parte più pulita, o meglio quella meno sporca. Mezzo boccone di galletto si fermò in gola, non voleva scendere. Si assestò un pugno in pieno sterno e il traffico riprese.
Buttò giù un elenco dettagliato – mai sottovalutare gli studi di ragioneria.
Italiano
24 anni
consumatore e spacciatore di droga
nessuna voglia di lavorare
futuro incerto
cervello idem
scompare per un certo periodo (dai dati a disposizione circa sei mesi)
riappare
muore crivellato di colpi di kalashnikov
il viso cancellato
calli da arma da fuoco
materiale in arabo a casa.
Certo, il materiale andava ancora tradotto, ma comunque dall’elenco non emergeva il profilo di un giovane patito di “X Factor”. Per dire. Sembravano altre le sue passioni.
Furlan ingoiò la sua panna cotta in una sola cucchiaiata.
Ferragosto
“Ferragosto… Ma cosa vorrà poi dire? Ferro di agosto? Agosto di ferro? Mah…”
Intanto lui, Ferragosto, incurante del significato del proprio nome, sfolgorava. L’estate più calda del nuovo millennio non dava tregua.
Nessuna brezza sollevava il bordo degli ombrelloni. Nessun refolo di vento attenuava i bollori.
“Ferragosto… mah, io sono più da mezze stagioni…”
Sprofondato nella sdr...