La pietra di luna
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La pietra di luna

  1. 546 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La pietra di luna

Informazioni su questo libro

Yorkshire, estate 1848. Per il suo diciottesimo compleanno Rachel Verinder riceve dallo zio Herncastle un preziosissimo diamante giallo, forse il più grande al mondo. Si dice che adornasse la statua della divinità indiana della luna. Che sia stato trafugato da ladri sacrileghi. E che ne seguano le sorti sotto mentite spoglie tre sacerdoti, pronti a uccidere per riportarlo in India. Si tratta solo di leggende? La sera in cui Rachel lo sfoggia per la prima volta, il diamante le viene rubato… Indizio dopo indizio, vengono svelati gli oscuri segreti che i personaggi nascondono. Grazie a una magistrale tecnica di narrazione corale, La pietra di luna rappresenta il modello di tutta la futura letteratura poliziesca e, grazie a una raffinata descrizione di ambienti e allo studio sui personaggi, Wilkie Collins si conquista un posto tra i grandi autori vittoriani accanto a Dickens e Thackeray.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
Print ISBN
9788804676812
eBook ISBN
9788852080869

LA STORIA

PRIMO PERIODO

Lo smarrimento del diamante (1848)

Avvenimenti narrati da Gabriel Betteredge, maestro di casa al servizio di Lady Julia Verinder

1

Nella prima parte di Robinson Crusoe troverete scritto a pagina 129:
«Compresi a questo punto, sia pure troppo tardi, la follia di iniziare un’opera senza averne calcolato il costo e senza aver rettamente valutato la nostra forza per condurla a buon fine.»
Soltanto ieri ho aperto il mio Robinson Crusoe a questa pagina. Soltanto stamattina (21 maggio 1850), è venuto da me il nipote della mia padrona, il signor Franklin Blake, e mi ha fatto questo breve discorsetto:
«Betteredge,» ha detto il signor Franklin «sono stato dall’avvocato per questioni di famiglia e, tra le altre cose, abbiamo parlato dello smarrimento del diamante indiano avvenuto due anni fa a casa di mia zia, nello Yorkshire. Il signor Bruff è d’accordo con me nel ritenere che, nell’interesse della verità, tutta questa storia dovrebbe essere messa per iscritto, il più presto possibile.»
Non avendo ancora capito dove volesse andare a parare e pensando che, per amor di pace e di quiete, fosse sempre preferibile stare dalla parte dell’avvocato, dissi che la pensavo così anch’io. Franklin proseguì:
«Per questa storia del diamante» disse «alcuni innocenti sono stati, come ben sapete, ingiustamente sospettati. E in futuro, mancando una relazione su quanto è accaduto, alla quale possano richiamarsi i nostri posteri, può ancora soffrirne la loro memoria. È dunque evidente che questa strana vicenda della nostra famiglia deve essere raccontata. E io penso, Betteredge, di aver trovato con Bruff la maniera giusta per raccontarla.»
Era certo una bella soddisfazione per entrambi. Ma non riuscivo ancora a capire che cosa c’entrassi io.
«Abbiamo certi avvenimenti da raccontare» proseguì Franklin «e abbiamo persone che a questi avvenimenti parteciparono e che ora sono in grado di raccontarli. Stabilite queste semplici premesse, l’idea è che ognuno di noi dovrebbe scrivere per suo conto la storia della pietra lunare, arrivando fin dove giunge la sua esperienza personale e non oltre. Per prima cosa dobbiamo dire in quale maniera, cinquanta anni or sono, il diamante finì nelle mani di mio zio Herncastle, allora militare in India. Questa storia, che può servire da prefazione, è già nelle mie mani, nella forma di un vecchio documento di famiglia che riferisce i particolari necessari con l’autorità di un testimone oculare. La seconda cosa è raccontare come il diamante finì due anni fa nello Yorkshire a casa di mia zia e come venne smarrito poco più di dodici ore dopo. Ora nessuno meglio di voi, Betteredge, sa che cosa succedeva in casa in quel periodo. Prendete quindi la penna in mano e mettetevi a scrivere.»
Fu così che venni informato di quella che sarebbe stata la mia partecipazione personale a questa faccenda del diamante. Se siete curiosi di sapere come mi comportai in quella circostanza, mi pregio di comunicarvi che feci quello che al mio posto avreste fatto probabilmente anche voi. Dichiarai in tutta modestia di non essere all’altezza del compito che mi era stato affidato, pur essendo segretamente persuaso di essere abbastanza in gamba per svolgerlo, a patto che le mie capacità potessero avere una buona occasione per manifestarsi. Ritengo che il signor Franklin avesse letto sul mio viso i miei pensieri segreti. Rifiutò infatti di prestar credito alla mia modestia e insistette perché offrissi una buona occasione alle mie capacità.
Da quando il signor Franklin se n’è andato sono trascorse due ore. Non appena mi ha voltato le spalle, mi sono precipitato al mio scrittoio per iniziare il racconto. E da allora (a dispetto delle mie capacità) me ne sto qui del tutto impotente; vedendo ciò che vide Robinson Crusoe nel brano che citavo prima, e cioè la follia di iniziare un’opera senza averne calcolato il costo e senza aver rettamente valutato la nostra forza per condurla a buon fine. Vi prego di tener presente che avevo aperto casualmente il libro a quella pagina soltanto il giorno prima di impegnarmi avventatamente in questa impresa; e permettetemi una domanda: se questa non è profezia, che cos’è?
Non sono un uomo superstizioso; ai miei tempi ho letto una catasta di libri e, a modo mio, sono anche uno studioso. Benché abbia superato i settanta, ho una memoria di ferro e gambe altrettanto buone. Vi prego dunque di non considerarmi un ignorante quando esprimo l’opinione che non è mai stato e non sarà mai più scritto un libro paragonabile a Robinson Crusoe. A questo libro, generalmente associato a una pipa riempita di tabacco, mi sono rivolto per anni e ho trovato in esso un amico prezioso in tutte le necessità di questa esistenza mortale. Quando sono depresso: Robinson Crusoe. Quando ho bisogno di un consiglio: Robinson Crusoe. Nel passato, quando mia moglie mi tormentava, e adesso, quando ho bevuto un goccio di troppo: Robinson Crusoe. Ho consumato sei Robinson Crusoe, a forza di farli sgobbare al mio servizio. In occasione del mio ultimo compleanno, la mia padrona me ne ha regalato un settimo. Per festeggiare la cosa ho bevuto un goccio di troppo, e Robinson Crusoe mi ha rimesso a posto. Il prezzo è quattro scellini e sei pence, è rilegato in blu e per giunta c’è anche un’illustrazione.
Comunque, non sembra questa la maniera giusta per iniziare la storia del diamante, vero? Si direbbe che io stia vagando Dio sa dove alla ricerca di Dio sa che cosa. Ora, se non vi dispiace, prenderemo un foglio bianco e ricominceremo da capo, con i miei più rispettosi saluti.

2

Qualche riga fa ho parlato della mia padrona. Ora il diamante non sarebbe mai entrato in casa nostra, dove andò smarrito, se non fosse stato regalato alla figlia della mia padrona; e la figlia della mia padrona non sarebbe stata in vita per ricevere questo dono se la mia padrona non l’avesse messa al mondo con pena e travaglio. Di conseguenza, se cominciamo con la mia padrona, siamo abbastanza sicuri di cominciare con sufficiente respiro. E questa, permettetemi di dirlo, è una bella consolazione quando si ha per le mani un lavoro come il mio.
Se sapete qualcosa del bel mondo, avrete certamente sentito parlare delle tre belle signorine Herncastle: Adelaide, Caroline e Julia, l’ultima delle quali era la più giovane e, a mio giudizio, la migliore delle tre sorelle; e come vedrete tra poco io ho avuto numerose occasioni per giudicarle. Entrai infatti al servizio del vecchio Lord loro padre, e ringraziamo Iddio di non averlo avuto di mezzo in questa faccenda del diamante, era infatti l’uomo, nobile o plebeo, con la lingua più lunga e il carattere più brusco che io abbia mai conosciuto. Dicevo dunque che entrai al servizio del vecchio Lord come paggio personale delle tre onorevoli signorine, all’età di quindici anni. E lì vissi finché Julia non sposò il defunto Sir John Verinder. Era un ottimo uomo, che aveva solo bisogno di qualcuno che lo dirigesse; e, detto tra noi, trovò questo qualcuno, e ciò che più importa ci prosperò e ci ingrassò e visse felice e morì tranquillo, a partire dal giorno in cui la mia padrona lo portò in chiesa a sposarsi sino a quello in cui gli fece emettere l’ultimo respiro e gli chiuse gli occhi per sempre.
Ho dimenticato di dire che io accompagnai la sposa nella casa del marito e in queste terre. «Sir John,» disse lei «io non posso fare a meno di Gabriel Betteredge.» «Signora,» disse Sir John «neanch’io posso fare a meno di lui.» Era così che si comportava con lei, e fu così che entrai al suo servizio. Per me era indifferente dove andavo, pur di rimanere con la mia padrona.
Vedendo che essa s’interessava al lavoro dei campi, alle fattorie e a tutto il resto, cominciai a interessarmene anch’io, tanto più che ero il settimo figlio di un piccolo agricoltore. La mia padrona mi mise alle dipendenze del fattore e io feci del mio meglio e diedi soddisfazione, e di conseguenza venni promosso. Qualche anno dopo, poteva essere un lunedì, la mia padrona disse: «Sir John, il vostro fattore è uno stupido vecchio. Dategli una pensione generosa e mettete al suo posto Gabriel Betteredge». E il martedì, mettiamo, Sir John disse: «Signora, il fattore ha ricevuto una generosa pensione e Gabriel Betteredge ha preso il suo posto». Avrete sentito parlare spesso di coniugi infelici. Questa coppia è un esempio del contrario. Sia un monito per alcuni, un incoraggiamento per altri. Intanto continuo il mio racconto.
A questo punto, direte, ero a posto. Una carica di fiducia e di rispetto, un villino tutto mio nel quale abitare, i giri della proprietà per passare il tempo al mattino, i conti nel pomeriggio e la sera la mia pipa e il mio Robinson Crusoe: cos’altro potevo desiderare per essere felice? Ma voi sapete che cosa voleva Adamo quando era solo nel giardino dell’Eden, e se non ne fate una colpa ad Adamo, non fatela neanche a me.
La donna sulla quale posai gli occhi era quella che sbrigava le faccende domestiche nel mio villino. Si chiamava Selina Goby. Sui criteri di scelta di una moglie, sono d’accordo col defunto William Cobbett: «Accertati che mastichi bene il suo cibo e che quando cammina ponga il piede a terra ben fermo, e sei a posto». Su questi due punti, Selina Goby era perfetta, e questa era una buona ragione per sposarla. Ne avevo però anche un’altra, l’avevo scoperta da solo. Selina nubile mi costringeva a pagare un tanto la settimana per il suo vitto e i suoi servizi, Selina mia moglie non avrebbe potuto addebitarmi il suo mantenimento e avrebbe dovuto servirmi gratis. Fu da questo punto di vista che esaminai la cosa. Economia, più uno spruzzo d’amore. Com’era mio dovere, esposi questo progetto alla mia padrona negli stessi termini in cui l’avevo esposto a me stesso.
«Ho pensato bene a Selina Goby, signora,» dissi «e credo che mi costerà meno sposarla che mantenerla.»
La mia padrona scoppiò in una sonora risata e disse di non sapere che cosa la scandalizzava di più, se il mio linguaggio o i miei principi. C’era, immagino, qualcosa che aveva stuzzicato il suo senso dell’umorismo, ma per coglierlo bisogna essere persone di qualità. Io, personalmente, non capii nulla, tranne il fatto che ero autorizzato a esporre il progetto a Selina. Così andai da lei e glielo esposi. E cosa disse Selina? Gesù!, come dovete conoscere poco le donne se me lo chiedete. Disse di sì, naturalmente.
Man mano che il momento si avvicinava, e già si parlava di farmi una giubba nuova per la cerimonia, incominciai ad avere qualche perplessità. Ho parlato con altri uomini su come avevano reagito quando si erano trovati nella mia stessa interessante situazione, e hanno tutti ammesso che, circa una settimana prima che succedesse, avevano segretamente desiderato di non farne nulla. Personalmente feci qualcosa di più: mi alzai addirittura in piedi, per così dire, e cercai di squagliarmela. E non gratis! Ero troppo onesto per aspettarmi che mi si lasciasse libero gratuitamente. Risarcire la donna quando l’uomo si squaglia è una delle leggi d’Inghilterra. Per rispetto alle leggi, e dopo averci pensato molto bene, offrii dunque a Selina Goby un letto di piume e cinquanta scellini purché mi sciogliesse dall’impegno. Ora voi non ci crederete, ma è la pura verità; fu talmente pazza da rifiutare.
Dopo di che per me, ovviamente, fu la fine. Mi procurai la giubba nuova, pagandola il meno possibile, e mi occupai anche di tutto il resto, spendendo il meno possibile. Non fummo una coppia felice, ma neanche infelice. Una via di mezzo, piuttosto. Non capisco bene il perché ma, con i migliori dei motivi, non facevamo che intralciarci a vicenda. Quando io volevo andare di sopra, ecco che mia moglie veniva da basso; e quando mia moglie scendeva, ero io che volevo salire. Ma la vita coniugale è così, almeno secondo la mia esperienza.
Dopo cinque anni di malintesi sulle scale, piacque alla saggissima Provvidenza di liberarci l’uno dell’altra portandosi via mia moglie. Rimasi così con la mia piccola Penelope e nessun altro figlio. Poco tempo dopo morì anche Sir John, e la mia padrona rimase con la sua piccola Rachel e nessun altro figlio. È servito a ben poco quello che ho scritto finora sulla mia padrona, se ora è necessario dirvi che ci si prese cura della mia piccola Penelope, sotto l’occhio vigile della buona signora, che la si mandò a scuola, che le si diede un’educazione, che se ne fece una ragazza in gamba e che, quando fu abbastanza cresciuta, la si promosse cameriera personale della signorina Rachel.
In quanto a me, continuai a fare il fattore fino a Natale 1847, quando ci fu un cambiamento nella mia vita. Quel giorno la mia padrona s’invitò a bere una tazza di tè nel mio villino. E osservò che, da quando ero arrivato come paggio ai tempi del vecchio padrone, ero stato al suo servizio per oltre cinquanta anni; dopo di che mi porse un bel panciotto di lana, fatto con le sue mani, per tenermi caldo nel rigido inverno.
Presi questo magnifico dono senza riuscire a trovare le parole per ringraziare la mia padrona dell’onore che mi aveva fatto. Ma con mio grande stupore, scoprii che il panciotto non era un onore ma un’esca. La padrona si era accorta che stavo diventando vecchio prima che me ne fossi accorto io, ed era venuta nel mio villino per adescarmi (se posso usare questa parola): voleva che rinunciassi al mio faticoso lavoro nei campi come fattore per prendermela comoda sino alla fine dei miei giorni come maestro di casa. Mi battei al limite delle mie possibilità contro l’indegnità di questa sinecura. Ma la mia padrona conosceva il mio punto debole e presentò la cosa come un favore personale che le avrei fatto. Dopo di che la discussione finì con me che mi asciugavo gli occhi come un vecchio balordo e, con il mio nuovo panciotto di lana, le dicevo che ci avrei pensato.
Poiché, dopo la partenza della mia padrona, ero spaventosamente agitato all’idea di doverci pensare, ricorsi al rimedio che non mi aveva mai deluso nei momenti di dubbio e di emergenza. Accesi la pipa e presi in mano Robinson Crusoe. Non avevo passato neanche cinque minuti con quel libro straordinario quando trovai (a pagina 158) queste consolanti parole: «Noi oggi amiamo ciò che odieremo domani». E vidi subito con chiarezza la mia situazione. Oggi ero deciso a rimanere fattore, ma domani, come diceva Robinson Crusoe, sarei stato tutto per l’altra soluzione. Bastava prendermi domani nell’umore di domani, e la cosa era fatta. Messomi l’animo in pace, andai a dormire quella sera come fattore di Lady Verinder e mi svegliai il mattino dopo come maestro di casa di Lady Verinder. E tutto in piena tranquillità e grazie a Robinson Crusoe!
Mia figlia Penelope è appena venuta a guardare sopra la mia spalla per vedere che cosa ho combinato finora. Dice che è scritto bene e che ogni parola è vera. Ma mi fa un’obiezione. Sostiene che ciò che ho scritto fin qui non ha nessun rapporto con ciò che volevo scrivere. Mi hanno chiesto di raccontare la storia del diamante e invece sto raccontando la mia. È curioso e non so spiegarmelo nemmeno io. Mi chiedo se a quei signori per i quali lo scrivere libri è una professione e un mestiere non capita mai, come a me, di vedere la propria personalità intromettersi nell’argomento che si sono scelti. Se questo gli capita, io li comprendo. Ma intanto, eccomi con una nuova falsa partenza e con un altro spreco di buona carta da scrivere.
E adesso che si può fare? Niente, per quanto io sappia, se non che voi ve ne stiate calmi e che io cerchi di ricominciar...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Dorothy L. Sayers
  4. La pietra di luna
  5. Prefazione
  6. Prefazione a una nuova edizione
  7. PROLOGO. La presa di Seringapatam (1799). Estratto da un documento di famiglia
  8. LA STORIA
  9. SECONDO PERIODO. La scoperta della verità (1848-1849). Gli avvenimenti narrati in più racconti
  10. SECONDO RACCONTO. Fornito da Matthew Bruff, avvocato in Gray’s Inn Square
  11. TERZO RACCONTO. Fornito da Franklin Blake
  12. QUARTO RACCONTO. Dal diario di Ezra Jennings
  13. QUINTO RACCONTO. La storia ripresa da Franklin Blake
  14. SESTO RACCONTO. Fornito dal sergente Cuff
  15. SETTIMO RACCONTO. Una lettera del dottor Candy
  16. OTTAVO RACCONTO. Fornito da Gabriel Betteredge
  17. EPILOGO. Il ritrovamento del diamante
  18. Copyright