Una storia nera
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Una storia nera

  1. 252 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Una storia nera

Informazioni su questo libro

Roma, 7 agosto 2012. Il giorno dopo la festa di compleanno della figlia minore, Vito Semeraro scompare nel nulla.

Vito si è separato da qualche tempo dalla moglie Carla. Ma la piccola Mara il giorno del suo terzo compleanno si sveglia chiedendo del papà. Carla, per farla felice, lo invita a cena. In realtà, anche lei in fondo ha voglia di rivedere Vito. Sono stati insieme per tutta la vita, da quando lei era una bambina, sono stati l'uno per l'altra il grande amore, l'unico, lo saranno per sempre. Vito però era anche un marito geloso, violento, capace di picchiarla per un sorriso al tabaccaio, per un vestito troppo corto. "Può mai davvero finire un amore così? anche così tremendo, anche così triste." A due anni dal divorzio, la famiglia per una sera è di nuovo unita: Vito, Carla, Mara e i due figli più grandi, Nicola e Rosa. I regali, la torta, lo spumante: la festa va sorprendentemente liscia. Ma, nelle ore successive, di Vito si perdono le tracce.

Carla e i ragazzi lo cercano disperatamente; e non sono gli unici, perché Vito da anni ha un'altra donna e un'altra quasi figlia, una famiglia clandestina che da sempre relega in secondo piano. Ma ha anche dei colleghi che lo stimano e, soprattutto, una sorella e un padre potenti, giù a Massafra, in Puglia, i cui amici si mobilitano per scoprire la verità a modo loro.

Sarà però la polizia a trovarla, una verità. E alla giustizia verrà affidato il compito di accertarla. Ma in questi casi può davvero esistere una sola, chiara, univoca verità?

Antonella Lattanzi, voce unica nel panorama letterario contemporaneo, costruisce un meccanismo narrativo miracoloso - un giallo, un noir, una storia d'amore - popolato di creature splendidamente ambigue. Attraverso una macchina linguistica prodigiosa e un ritmo incalzante e cinematografico, percorre in funambolico equilibrio il crinale che separa bene e male, colpa e giustizia, amore e violenza. E rivela, uno dopo l'altro, i segreti che ruotano attorno ai suoi personaggi, fino a far luce su quello che è successo davvero la notte in cui Vito è scomparso.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
eBook ISBN
9788852079375

1

Dopo

Prese il telefono, «Pronto Manuel» disse. «Manuel, pronto, sono io. Ho paura Manuel.»
«Perché» chiese Manuel con una voce che le fece pena, prima di conoscerla Manuel non aveva mai avuto una voce così.
«Ho paura Manuel, c’è qualcuno» ripeté incollata al cellulare. «Ti prego, ho troppa paura.»
«Stai calma, dimmi dove sei.»
«Sul pianerottolo», silenzio. «Che devo fare. Ti prego Manuel», sospirò, «dimmi cosa devo fare.»
«E Mara?» disse Manuel, sospirò, «dov’è Mara?»
«Qui con me» sussurrò, ansimò nel cellulare. «Manuel?»
«Sì.»
«Ho paura Manuel.»
«Andate via di là, subito… prendete un taxi, vediamoci al bar vicino a Castel Sant’Angelo, ti ricordi?» disse Manuel. Arrivarono al bar nello stesso momento, lei scese dal taxi con le gambe pesantissime, sudata, la bambina, Mara, addormentata tra le braccia, la borsa stretta in una mano, lui parcheggiò lo scooter. Ormai era notte, le macchine sfilavano veloci accanto al Tevere, si vedeva questo Castel Sant’Angelo potente, illuminato, ma era buio, era agosto, faceva troppo caldo, nemmeno si poteva respirare, e c’era un’aria di sconfitta. «Chi poteva essere», lei non gli lasciò nemmeno togliere il casco, si avventò su di lui, mollò di colpo la borsa, cadde a terra, gli aprì le braccia, lo costrinse a un abbraccio, si chiuse le sue braccia intorno al corpo, intorno a lei che teneva tra le braccia Mara. Poi si staccò, gli strinse forte il polso, Manuel non riusciva a slacciare la sicura del casco, «Aspetta» le disse. Lei continuò, «Che devo fare Manuel». E allora lasciò la presa.
Manuel finalmente si poté slacciare il casco, lo chiuse nel bauletto, sotto il casco il caldo gli aveva appiccicato i capelli alla fronte, alle tempie, alla nuca, si terse il sudore, raccolse la borsa di lei, la tenne in mano penzoloni, prese la bambina in braccio, visto così era strano, un uomo in camicia scura e pantaloni blu con una bambina addormentata, la testa sulla sua spalla, e una borsa da donna che gli dondolava sulla gamba. Le passò il braccio libero intorno alle spalle, l’accompagnò verso il bar aperto tutta la notte allargandosi con la mano il colletto della camicia, si soffocava, le aprì la porta, la fece entrare. «Dài tesoro, parliamo dentro, entra, su», si guardò le spalle. Si sedettero a un tavolino, lui poggiò la borsa sulla superficie metallica che rifrangeva le luci al neon del bar, sistemò con cura la bambina su una panca accanto a loro, la mise comoda più che poté. Allora prese le mani di Carla, la guardò. «Mi dispiace tanto» disse a voce alta, «ma secondo me c’entra Vito, anzi non secondo me, di sicuro c’entra lui.»
E lui c’entrava sempre, in tutto, da quando Carla aveva dieci anni, adesso ne aveva trentotto, lei di anni se ne sentiva settanta, sospirò. Rimasero seduti al tavolo del bar davanti al lungotevere, era l’agosto del 2012, un agosto nei canoni, caldo, diceva il tg (no, era fuori dai canoni, diceva Carla, un caldo che non si era mai visto, da impazzire), loro stavano chiusi nel bar e mentre parlavano guardavano ogni tanto attraverso la vetrata, sguardi furtivi e continui, c’era una polvere strana quella notte in tutta Roma, come quelle che porta lo scirocco, e sul lungotevere si alzava e rimescolava a ogni macchina che passava, si distingueva chiara, illuminata dai lampioni contro il nero della notte, gli autobus ne smuovevano di grossa e sabbiosa, poi la tagliavano in corsa e le passavano in mezzo, le macchine ci scomparivano dentro e riapparivano, i motorini se la prendevano in pieno, diventavano marrone sabbia a ogni passaggio. Era troppo caldo ed era notte ma ogni tanto ne passavano, di macchine, autobus, motorini, persone. Eppure per fortuna, oltre la vetrata, davanti al bar e anche nelle vicinanze, almeno per quanto potevano capire da lì dentro loro due, almeno fino a quel momento, per fortuna appostato là fuori non si vedeva nessuno.
«E non c’entra solo Vito, Carla, mi dispiace dirtelo» disse Manuel, gli scoppiò lo squillo del cellulare in tasca, gli scoppiò un colpo al cuore, prese il cellulare. Carla lo guardava grigia, lui guardò il telefono, «Tranquilla, niente», guardò di sfuggita il barista, una bruciatura in rilievo su tutta la guancia, rimise a posto il cellulare. «E non c’entra solo Vito» continuò, «ma quelli della sua famiglia, e non solo la famiglia ma pure gli amici di suo padre.» Carla alzò le mani in segno di resa, poi le strinse contro la tazza di camomilla che le aveva ordinato lui, nonostante il caldo. La camomilla fumava soffi lunghi e chiari verso l’alto. «Ma se suo padre, il Generale» disse lei, «ormai dal letto non s’alza più da cinque anni. Manuel per favore, pure tu, come può essere.»
«Ma che dici Carla, che c’entra alzarsi o non alzarsi», la bambina, Mara, nel sonno sospirò. Anche Carla gettò un’occhiata al barista, quando quello si girò a guardarla lei distolse frettolosa lo sguardo. «È gente brutta quella, losca» disse Manuel, «sei tu che me l’hai detto, quelli capiscono solo la violenza. Mica c’entra se il padre sta in piedi o sottoterra per quella gente là. Rimangono amici finché non diventano nemici.» Carla ascoltava, ma faceva una faccia come sentisse queste cose per la prima volta. «Ma non può essere» disse, «sono settimane che Vito si comporta bene, l’abbiamo detto un po’ di volte, no?, ha smesso, è finita. Manuel ascoltami, c’è qualcos’altro, c’è qualcosa che non va.» Manuel si passò una mano sulla faccia, gli vennero fuori due occhi piccoli e un paio di occhiaie gonfie come ci fosse dentro acqua. «Ma Carla, tesoro, me l’hai detto tu» si scusò lui, scosse la testa, «Vito, la sua famiglia, il suo esercito di amici. Con quelli non finisce mai.» E Vito quante volte l’aveva detto a lei: Giuro che ti ammazzo Carla, ti sgozzo come un porco, e ammazzo pure i nostri figli.

2

Prima

Il 6 agosto 2012 Maria Addolorata detta Mara, la figlia più piccola di Carla, compiva tre anni. Due anni prima, ottenuto il divorzio, Carla aveva affittato per lei e Mara una casa in via Prenestina, più lontano che poteva da quella in cui avevano vissuto tutti insieme fino ad allora. Era un vecchio comprensorio pensato per i dipendenti delle ferrovie e ormai abbandonato a se stesso, fatto di palazzi bassi, un cortile interno, ingressi su diverse strade. Nicola, il figlio grande, ventun anni, e sua sorella Rosa, diciannove, avevano preso in affitto due stanze in un appartamento di studenti a due isolati da casa della madre, lui faceva l’aiuto cuoco in un locale di piazza Navona, lei la cameriera nello stesso posto. Tutti e quattro nel piccolo bilocale di via Prenestina non si poteva stare, e poi Nicola sognava di far venire a vivere con lui anche la fidanzata, e Rosa si elettrizzava davanti all’indipendenza. Mara, Nicola, Rosa: erano tutti figli di Vito Semeraro.
Quel 6 agosto era una giornata troppo calda, piena di un sole ingrato, era mattina presto e Rosa e Nicola salirono sul tram numero 5. Gli toccava il primo turno, oltre l’aiuto cuoco e la cameriera ogni tanto facevano anche le pulizie nel locale dove lavoravano. Mentre salivano sul tram Nicola notò di sfuggita un’Audi stagliarsi contro la sopraelevata di via Prenestina, casa di Carla era proprio lì all’incrocio, sembrava la macchina del padre.
Nicola si girò verso sua sorella, «È lui?» le chiese, ma lei aveva le cuffie, «A Rò, è lui?», la strattonò. Lei si tolse le cuffie con un sorriso, Rosa aveva sempre questo sorriso in faccia, una specie di pennellata rozza come i clown, non si poteva capire se era vero, guardò dove le indicava Nicola e strinse gli occhi.
Diventava sempre brutta, di colpo, quando aveva paura. Bruttissima. Poi però dalla macchina uscì un uomo basso, quasi un nano, si grattò la coscia piegandosi in modo innaturale, si allontanò zoppicando verso il Pigneto; la macchina con dentro una donna molto ben vestita – allora finalmente poterono vedere – diede gas, scomparve. Rosa si strinse ai sostegni del tram con un sospiro di sollievo, «Ma se l’altro giorno ci aveva detto che partiva, come poteva essere lui. È a Massafra» disse, «ti ricordi? Anche tu Nico che pensi sempre alla catastrofe». «Ma tornava oggi» disse Nicola, «poteva essere lui», e si girò di spalle. Il tram partì scuotendosi e rimbalzando sulle rotaie, c’era una puzza di sudore, e un caldo, da un momento all’altro alle persone si scioglievano le facce e si fondevano coi sedili rossi.
Erano stati entrambi dal padre un paio di giorni prima, a pranzo. Mentre mangiavano, Vito aveva chiesto a Rosa, Mi passi un panino per favore?, lei gliel’aveva passato ma si era ricordata che una volta, per un panino tipo quello – Vito aveva guardato la busta del negozio, Perché hai cambiato panificio? aveva detto a Carla, Eh? Parla, stronza, chi te l’ha venduto, sei andata a fare la stronza con qualcuno, eh? – suo padre aveva perso la pazienza con sua madre, l’aveva sollevata come lei fosse posseduta dal demonio e lui un esorcista, e l’aveva scagliata contro il muro. Poi si era girato verso i figli e li aveva guardati di un amore, di una misericordia smisurati. Perché c’era sempre questo: il loro padre non aveva mai davvero torto, sembrava sempre che tutto quello che faceva – fosse il bene che dava ai figli, Vito i suoi figli non li aveva mai toccati con un dito, o le botte che dava a Carla da quando Rosa e Nicola ricordavano –, che tutto quello che Vito faceva fosse solo per amore.
Era ormai primo pomeriggio quando lei lo chiamò, lui era in macchina, tornava da Massafra, paese d’origine suo e di tutti i suoi. Dopo il divorzio lei non gli aveva mai più telefonato, lui vide il nome della sua ex moglie splendere dal cellulare e gli tremarono le mani, gli capitava spesso di vedere Carla ammantata di luce, o di un alone scuro. «Prima ti ho chiamato per fare gli auguri a Mara, perché mi hai attaccato?» chiese lui, i denti stringevano, sfregavano uno contro l’altro.
«Sei libero stasera?» fece lei durissima, una voce che non sembrava lei, «tua figlia ti vuole alla sua festa.»
La voce di Vito quasi si ruppe, disse solo «Sì».
«Ci vediamo a casa di mio fratello, casa mia si è allagata, si è rotta la caldaia», un sibilo di odio al posto della voce.
«Hai bisogno di aiuto?» disse lui. «Se vuoi passo a vedere di aggiustarla.»
«Magari dopo cena, grazie», la voce di Carla si addolcì contro la sua stessa volontà. «Ciao, Vito.»
«A tra poco», e Vito spinse sul pedale.
La madre si chiuse la porta di casa alle spalle, il bracciale che le aveva regalato Manuel non s’incastrò nello stipite per un soffio. Si issò la figlia in braccio e prese i sacchetti dentro cui aveva sistemato l’occorrente per la festicciola e la cena di Mara. Madre e figlia s’infilarono insieme nell’ascensore, la madre mise giù i sacchetti e la bambina, la bambina si sollevò sulle punte tentando di arrampicarsi sulla madre, la madre spinse il cinque. Quella mattina aveva svegliato la figlia con un pacco, dentro c’era un puzzle di spugna coi pezzi molto grandi, di quelli che si montano per terra, buon compleanno amore, e Mara ancora si svegliava, lenta, la faccia impastata di sonno, gli occhi semichiusi, il pigiamino rosa delle Winx, il calore del sonno dei bambini e l’odore, pure, dei bambini. Carla li aveva sempre invidiati i suoi figli quando erano piccoli, qualcuno ti accudisce, ti dice cosa fare, ti organizza le giornate, si prende cura di te, e quei fiammeggi di gioia incontrastata, senza paura, nemmeno cognizione, del futuro, in certi pomeriggi senza compiti o in certe domeniche sfrenate al parco, ogni volta, ogni giorno, l’odore di sua figlia le ricordava che si poteva essere sereni, non gravati dalle cose, goditi questo tempo avrebbe voluto dirle ma si sa, è impossibile spiegare ai bambini quanto sono fortunati a essere bambini.
Giuro che ti ammazzo Carla, ti sgozzo come un porco, e ammazzo pure i nostri figli – quante volte Carla l’aveva sentito dire dal suo ex marito. Giuro che ti ammazzo se ti vedo sorridere al tabaccaio che ti vende i biglietti della metro. Giuro che ti ammazzo se metti un vestito, o una gonna, per uscire. Giuro che ti ammazzo se hai un’amica – col tempo le cose erano peggiorate –, se vedi tuo fratello, se parli coi tuoi genitori. Poco prima del divorzio – era estate, Rosa era a Massafra, avrebbe passato due mesi dalla famiglia paterna, Nicola era in campeggio con la sua fidanzata, poi avrebbe raggiunto la sorella –, Vito di notte chiudeva Carla a chiave in camera da letto. E la mattina, prima di andare a lavorare, la chiudeva a chiave in una parte della casa: le lasciava solo il bagno e la cucina, ché Mara era appena nata e poteva aver bisogno di qualcosa. Ma se ho un’emergenza con la bambina? supplicava lei, se non sta bene? Che faccio. Ti prego, Vito. Torno io ogni due ore, non ti preoccupare. Tu oltre a me non hai bisogno di nessuno. Le toglieva anche il telefono.
Carla strepitava ancora un po’ ma poi, come fosse lei stessa la bambina di pochi mesi che teneva tra le braccia, pian piano si quietava. Le veniva tanto sonno. Tra una poppata e l’altra dormiva con la sua bambina, si svegliava di colpo balenando in piedi piena di sonno solo quando sentiva girare la chiave nella toppa.
E allora scodinzolava verso Vito, sinceramente felice di vederlo, sinceramente felice che ci fosse qualcuno, di nuovo, a proteggerla, e che non fosse più soltanto lei a doversi occupare di Mara, che ci fosse chi pensava a lei, a Mara. Poiché, quando non era questa specie di diavolo che si infilava di forza in suo marito, per lei Vito tornava il ragazzo di cui si era innamorata da bambina. Le faceva venire ancora il batticuore.
Ti ammazzo come un porco, e ammazzo pure i nostri figli, ma quei figli per fortuna non li aveva mai toccati, e Vito era un marcantonio alto due metri, due braccia così, due gambe così, finché un giorno, tornando un attimo a casa come sempre a intervalli di due ore, trovò Carla nuda che si faceva il bagno nella vasca, e Mara che piangeva, si convinse che da qualche parte c’era un altro uomo e, nuda, sporse Carla a testa in giù dalla finestra. La signora del piano di sotto chiamò la polizia. Ma Vito non aveva nessuna paura della polizia. Erano decenni che le forze dell’ordine arrivavano, periodicamente, a casa sua. Ma poi non c’erano mai gli estremi per far niente. Devi aver cura dei tuoi figli, le disse quando la rimise giù, era di nuovo Vito, le diede un bacio, la coprì col lenzuolo, Ti ho portato dei fiori, disse, Scusa, disse, Ci vediamo tra due ore, e se ne tornò al lavoro.
Madre e figlia arrivarono al quinto piano, la figlia ancora aggrappata ai polpacci della madre, «Esci, su», ma quella non voleva camminare, tentava di arrampicarsi addosso a Carla, le ostruiva l’uscita e si mise a lamentarsi, ai piani inferiori qualcuno bussò tre colpi forti sulla porta dell’ascensore, «Ascensore!» urlò; Carla imprecò. Prese Mara in braccio, prese i sacchetti, uscì pesante dall’ascensore, «Ascensore!» urlarono di nuovo, si cercò le chiavi con movimenti scomposti nelle tasche, finalmente aprì.
L’appartamento di suo fratello Franco era piccolo quanto il suo, solo due piani più su, ma era la casa di un single e sembrava molto più grande, molto più bella. E c’era anche più luce, forse quei due piani in più la esponevano meglio, o no, ma Carla ogni volta che entrava lì – e ci entrava spesso, per dar l’acqua alle piante, per controllare che fosse tutto a posto, per pulire un po’ –, ogni volta che entrava lì le sembrava una distesa di sole. Franco non c’era mai.
Adesso era in Vietnam, lavorava come operatore per una documentarista romana che aveva vissuto dieci anni sola in un paesino del Messico, spesso si doveva spostare per seguire lei che inseguiva i suoi progetti in giro per il mondo.
In realtà nemmeno Carla avrebbe voluto fare la casalinga e poi la sarta. Quando era piccola era brava a disegnare, da grande voleva fare la pittrice, i suoi genitori erano giornalisti, erano morti qualche anno prima, com’era potuto succedere che i suoi genitori le avessero dato il permesso di sposarlo, com’era potuto succedere che non l’avessero strappata dalle grinfie di quel mostro, quand’era piccola i mostri non esistevano e non sarebbero mai potuti esistere. Molto piccola, si può dire, prima della famosa festa di capodanno in cui per insondabili congiunture lei e Vito si erano conosciuti. Lei aveva dieci anni, lui quindici, chissà come amici di amici avevano invitato nella loro villa di Terracina sia la famiglia di lei che quella di lui, la madre e il padre di Vito al tempo non si spostavano da Massafra “nemmeno se stànno i bombardamenti”, chissà perché quella volta avevano intrapreso il viaggio, proprio quella volta c’erano anche i Romano, e non c’erano altri ragazzi, c’erano solo Carla e Vito, vai a vedere, il destino, il fato, pensava Carla mentre sistemava le buste sul tavolo e iniziava a tirar fuori tutto e Mara non...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una storia nera
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. Copyright