Genova, 10 gennaio 1917, pomeriggio
Le strade della città sono illuminate da una luce tiepida, una pioggia fine inizia a cadere, gli uomini e le donne per strada alzano gli occhi al cielo, si stringono nei cappotti e aumentano il passo, le nuvole dal mare non promettono niente di buono. Chi può prende una carrozza. Tra poco sarà ora di cena.
Una bambina aspetta che suo padre torni dal lavoro. Lo aspetta sempre, ogni sera. Quando i lampioni si accendono, la bambina corre in cucina, appoggia la fronte al vetro della finestra che dà sulla strada principale, quella che suo padre percorre tornando a casa dal lavoro, e cerca di scorgere la sua sagoma tra quella degli altri passanti.
Questa sera, però, la bambina ha un motivo in più per aspettare il padre: è il suo compleanno, compie undici anni, e suo padre le porterà un regalo, l’atlante che desidera da tempo e forse anche una bussola – la bambina, infatti, ha deciso che quasi certamente da grande farà l’esploratrice. Alle sue spalle, la madre Lorenza, Clara la vecchia cuoca e la servetta venuta dal paese terminano i preparativi per la cena. C’è odore di buono in casa, di cibo e di festa. Questa sera con il padre arriveranno anche le nonne, i cugini e gli zii, forse suo zio Egidio, il fratello di suo padre, le regalerà come le aveva promesso una confezione di colori a olio, la bambina potrebbe anche diventare una pittrice, sicuramente non resterà a Genova a farsi bella come sua sorella Germana, o come le sue cugine che passano i pomeriggi a ricamare e a parlare di gite al mare e vacanze in campagna. La bambina, ne è certa, farà grandi cose.
Genova, 10 febbraio 1917, pomeriggio
Non c’è nessuna bambina alla finestra in attesa del padre, e le tende in tutta la casa sono tirate, c’è odore di candele e di fiori, si aspetta l’arrivo del prete. I parenti più stretti sono già tutti lì, i conoscenti e gli amici sono stati dispensati dal visitare i genitori stremati. In cucina i fuochi sono accesi, ma non c’è odore di cibo, la vecchia cuoca e la servetta venuta dal paese in una tinozza tingono di nero i vestiti di tutti. La bambina è morta, non farà l’esploratrice e neppure la pittrice. Non farà più grandi cose.
La bambina si chiamava Giovanna Maria Gaslini, un nome da grandi, per questo tutti la chiamavano Giannina. Per me, invece, è solo Nina.
Ecco, quando Nina è morta, la mia carne sbagliata ha iniziato a prendere forma.
Genova, 2015
«Parlami di lei», la voce di Cesare è impastata dal sonno, dal caldo, dai nostri umori.
«Vuoi dell’acqua?», con un cenno del capo fa sì. I miei occhi, abituati alla penombra della camera da letto, alla luce della cucina faticano. Ondeggio, le gambe sono molli, ho la consistenza della gelatina. Mi appoggio alla credenza che era della nonna, con i vetri colorati che formano dei tulipani.
Un petalo è rotto, se si appoggia l’occhio alla fessura si riesce a capire cosa c’è dentro. Da bambina avvicinavo una sedia alla credenza per arrivare all’altezza del vetro sbeccato, speravo ogni volta di trovarci qualcosa di misterioso, la mappa di un tesoro, o la chiave di un giardino segreto. La nonna, invece, ci teneva una bottiglia di sambuca per correggere il caffè, le lettere della banca, e un porta caramelle rosso con i piedini dorati per i suoi cioccolatini preferiti, quelli con la ciliegia e il liquore. La credenza mi sostiene, ma le gambe restano molli, le ginocchia, soprattutto, si flettono contro la mia volontà, e mi tirano verso il basso. Il piacere mi riempie il corpo, segue il decorso delle arterie, dei nervi, arriva ai polpastrelli, alla pianta dei piedi, al cuoio capelluto. Ripulisce la carne dal dolore, dai pensieri attorcigliati che paralizzano la mente, dal mio senso di perenne inadeguatezza, come se non avessi ancora un posto nel mondo, come se non avessi diritto a esistere; il piacere scaccia i fantasmi, ma mi lascia senza forze e con un passo incerto. Questa volta, poi, il cuore non smette di battere veloce.
Nina.
Sono passati anni, ma, ogni volta che qualcuno si avvicina a noi, a me e a te, Ninetta cara, lo stomaco si contrae forte e il cuore spinge contro la gabbia toracica come se volesse andarsene, e il suo battito picchia nelle tempie e stringe la gola.
Il getto di acqua fredda sulle dita mi fa stare meglio, bevo tutto d’un sorso il bicchiere che avevo riempito per Cesare. Ne riempio un altro e glielo porto. Ho la fronte madida di sudore.
Nina.
Guardo Cesare e i suoi occhi cerulei più del solito, oggi, mi fanno desiderare di perdermi nelle marezzature della sua iride e non tornare mai più. Di camminare tra i suoi coni e bastoncelli, per vedere cosa si prova a guardare la vita con gli occhi di un altro.
Nina.
Ho paura. Paura che Cesare si avvicini troppo, paura di restare senza pelle, con i ventri muscolari, i tendini perlacei, la carne pulsante bene in vista. Troppo. Cesare si accende una sigaretta e aspira forte. Sono gelosa della nicotina, del cadmio, del benzopirene, del catrame che la sigaretta stretta tra le sue labbra contiene. Scendono giù tutti insieme. Si nascondono tra l’ossigeno e l’azoto e scendono per la sua trachea rosea fino ai bronchi, e da lì ai bronchioli e agli alveoli carichi di sangue. Si fermano nei suoi polmoni e ne anneriscono la trama delicata. Sono gelosa. Vorrei sciogliermi nell’aria che respira, arrivare fin laggiù e spiargli l’anima. Scoprire perché sta con me, cosa c’è che non va in lui.
Nina.
Nina è una foto appesa al muro nelle stanze dell’ospedale che porta il suo nome, sotto il crocifisso di legno chiaro, con il Cristo in plastica bianca, come quello che c’è nelle scuole.
Nelle scuole e negli ospedali. Sono stata anni senza vedere quella foto, quella di Nina con un fiocco troppo grande in testa, poi, un giorno, per caso, l’ho ritrovata.
C’è una libreria antiquaria, nei vicoli del centro storico, accanto a una piazza con dei lavatoi pubblici che ormai nessuno usa più. Due locali piccoli e bui, e molto disordinati, con pile di libri in ogni angolo che assomigliano a torri pericolanti di qualche vecchio castello abbandonato da secoli. La polvere ricopre gli scaffali, e fa starnutire gli avventori. Spesso in vetrina ci sono libri per bambini di inizio secolo, o vecchie foto di Genova. Il giorno in cui ho ritrovato la foto di Nina, alcuni pazienti di un vecchio manicomio mi avevano chiamato a gran voce, belle foto in bianco e nero, due foto di gruppo, gli uomini e le donne, e altre di singoli. Un uomo con un sorriso grande e sdentato, con i capelli radi, e una ragazza con gli occhi scuri, lacunosi, e uno sguardo dolce e maestoso, di una bellezza senza tempo, mi hanno chiamata: “Ehi, ehi, Bianca, vieni qua!” hanno detto, e così mi sono fermata.
Accanto ai matti e a un trattato sulle malattie nervose degli anni Quaranta c’era, quasi nascosto, un altro libro con la copertina di seta color salvia e il titolo scritto in caratteri dorati. Ho avvicinato il viso alla vetrina per vedere meglio, le lettere componevano la scritta ISTITUTO GIANNINA GASLINI. La mano destra ha iniziato subito a sudarmi, come sempre più della sinistra. Nina è spuntata lì vicino a me e si è infilata nella libreria prima che potessi dirle qualcosa.
Ho un’extrasistole. Faccio due passi avanti. Torno indietro, tentenno, un giro su me stessa e ancora un’extrasistole. I fantasmi che mi circondano mi guardano divertita, il mio Buco Nero sorride delle mie indecisioni e improvvisa una danza, minuscoli passettini ritmati tutti intorno a me. Lo scaccio come si fa con le mosche, agito le braccia al vento, via, via, vattene via!, mi decido, respiro ed entro. C’è odore di muffa e polvere. Di cloroformio e di mare. Di patatine gommose.
Il proprietario sbuca da una stanzetta laterale. Ha una grande testa di capelli riccioluti, bianchi, e un’aria gentile. Mi mostra il libro sull’Istituto Gaslini, «Dagli pure un’occhiata» mi dice, e scompare nuovamente nello sgabuzzino. «Si è rotto un tubo dell’acqua, ma l’idraulico arriva tra qualche ora» mi urla da là dentro. A me non sembra una buona idea che sia lui a metterci le mani, ma non dico nulla. Il rumore del martello contro i tubi ha la stessa frequenza del mio cuore. Nina, in punta di piedi, apre il libro. C’è una veduta aerea dell’ospedale in bianco e nero, si riconoscono tutti i padiglioni. Ecco il 17! Nina e io lo indichiamo con il dito, i fantasmi si accalcano per poter vedere anche loro, quanto tempo abbiamo passato in quelle stanze, o sul terrazzo al sole tiepido di gennaio?
C’è anche la foto di Gerolamo, quella che ho stampato e che ora è appesa sopra la mia scrivania. Il libraio mi grida che è un libro autografato, mica se ne trovano in giro così. Ha ragione, sul frontespizio c’è una dedica scritta con una grafia antica che non riesco a decifrare. Giannina lo fa per me, si schiarisce la voce con un colpo di tosse, e legge: “A William C. Lyall, in comunione spirituale di sentimenti con mamma e papà adorati, offre grata Germana Gaslini. Congresso di chirurgia pediatrica, maggio 1977”. “È mia sorella!” aggiunge tutta contenta.
Compro il libro per una ventina di euro. Il libraio prende i soldi e infila in una busta il mio libro e il suo biglietto da visita, fa scivolare lo sguardo sulla mia mano destra, arrossisco, mi sento sempre a disagio quando qualcuno nota le mie mani, mi sento in colpa, come se avessi rubato qualcosa. E non so mai cosa dire. Il libraio se ne accorge, «anche mio figlio è stato ricoverato lì, in nefrologia, era un piccolo problema, ora sta bene», ha gli occhi chiari, quasi liquidi. «Se trovo qualcosa, se mi capita qualcosa sull’Istituto o sulla famiglia Gaslini ti faccio sapere.» Annota il mio nome e quello che cerco su un’agenda del 1988 di pelle rosso vermiglio e il taglio dei fogli dorato, poi mi stringe la mano.
Cesare appoggia il bicchiere vuoto sulla mia scrivania, accanto al letto. Con una mano solletica l’areola del mio capezzolo, che stimolato si ritrae e raggrinzisce come la pelle di un vecchio. Mi alzo di nuovo dal letto.
Sono nuda.
Sento gli occhi di Cesare posarsi sulla mia schiena, scendere giù alle natiche, soppesarle, allungarsi dalle cosce ai polpacci, piccoli e atrofici, fino alla mia caviglia, larga, sgraziata, ricamata malamente dalle cicatrici; li sento risalire per la stessa via, gamba, coscia, glutei, schiena. Mani. Faccio cadere un libro. Il suo sguardo, quando è così a crudo, mi fa ritornare bambina, con i medici tutti attorno a me. Durante quelle visite che mi parevano eterne, sentivo freddo alla schiena, come se la mia anima, cadendo, precipitando, si congelasse. Non mi piace che mi si guardi così, come carne difettosa. Venuta male.
Prendo il libro che stavo cercando e ritorno a letto, lo tengo aperto sulle gambe, Cesare mi mette un braccio intorno alle spalle e con la mano libera lo sfoglia. Gira le pagine, una, due, tre, e ce la ritroviamo davanti: Nina.
Nina.
È imprigionata da cento anni in una vecchia foto. Ha i capelli mossi, la riga da una parte e un fiocco troppo grande dalla parte opposta, al collo la catenina con la medaglietta del battesimo. Non sorride, il labbro superiore si arriccia, il naso è piccolo, regolare, per fortuna non assomiglia a quello di Gerolamo, suo padre. Gli occhi seri e tranquilli guardano il fotografo, o, forse, la mamma Lorenza, che era lì con lei quando la foto è stata scattata.
È stata mia madre la prima a parlarmi di lei. Ha indicato la foto di Giannina appesa al muro della mia stanza, proprio sotto i piedi di Nostro Signore in croce, e mi ha detto: «Vuoi sentire una bella storia?».
Un giorno che sembrava proprio uguale a tutti gli altri, non c’erano state nubi minacciose all’orizzonte, né stormi di uccelli neri a portare sventura, nessuno specchio era andato in frantumi e neppure un grano di sale era stato sprecato, Giannina aveva iniziato a stare male. Niente di grave, solo un po’ di febbre, quella che accompagna l’inverno e i giorni più freddi, che passa con qualche giorno a letto e una dieta leggera. Nessuno si era preoccupato: non si era data pensiero la madre, la sorella Germana aveva continuato a farsi bella, a raccogliersi i capelli e a scioglierli per raccoglierli ancora una volta; la vecchia cuoca aveva messo qualche testa d’aglio tra le lenzuola candide per allontanare gli spiriti maligni e una fesa piccola e odorosa anche nell’ombelico tondo di Nina per scacciare i dolori di pancia, poi per far passare il tempo le aveva raccontato storie paurose del suo paese, di streghe bruciate sul rogo e di altre scappate nei boschi. Anche la cuoca però non era davvero preoccupata per Nina, il dottore aveva detto che sarebbe stata più forte di prima, e si era fermato per cena, aveva discusso con Gerolamo della guerra, di quanto ancora sarebbe durata, si era leccato le dita per un fagiano così ben cucinato ed era tornato a casa sua.
Gerolamo, invece, non diceva nulla che a dirle certe cose poi si avverano, ma sentiva una voce dentro di sé che lo metteva in guardia e gli faceva paura. Aveva l’impressione di camminare su una cengia scivolosa e che da lì a poco sarebbe precipitato.
«E poi?» avevo chiesto a mia madre con un po’ di apprensione.
«E poi Giannina era morta e suo padre per non impazzire di dolore ha costruito questo ospedale e ha voluto che fosse solo per i bambini» mi aveva risposto. «Era stato un male brutto, una malattia del sangue, una di quelle cattive che se le si disegnasse su un foglio bianco sarebbero dei mostri neri, informi, con grandi zanne e occhi iniettati di sangue, a uccidere Giannina» aveva aggiunto.
Io avevo aggrottato la fronte e sbirciato la foto di Giannina, non mi sembrava un granché come storia, di certo non aveva un bel finale, ma mia madre aveva e conserva tuttora un gusto innato per la tragedia. Il Buco Nero, inutile a dirsi, era stato l’unico a divertirsi.
La porta della stanza si era aperta e un’infermiera era entrata, ma prima che potessi rispondere qualcosa a mia madre, tipo che non era tanto una bella storia visto che una bambina era morta e il suo papà quasi impazzito, mi ero ritrovata un termometro ghiacciato sotto l’ascella.
«Zitta e buona» mi aveva ammonito l’infermiera, «vado a chiamare papà» aveva detto mia madre, e tutte e due erano scomparse dalla stanza tirandosi dietro la porta.
Io avevo alzato lo sguardo verso la foto, Giannina si era mossa impercettibilmente, giusto i capelli avevano ondeggiato. Avevo strizzato gli occhi, e sì, qualcosa nella foto si muoveva, questa volta erano le labbra. “Ti spiace se scendo?” aveva detto con una voce gentile, e senza aspettare la mia risposta aveva iniziato delle complicate manovre per uscire dalla foto e scendere a terra. Prima si era sporta dalla cornice con le gambe a penzoloni, poi aveva cercato un appiglio, infine aveva preso le misure e con un balzo era atterrata sulle piastrelle del pavimento. No, non si faceva quasi mai male, mi aveva rivelato più tardi, solo una volta, al massimo due, aveva battuto forte il sedere, ma soltanto perché era arrivato qualcuno a distrarla.
Ora era lì, accanto a me, con le mani si rassettava la gonna in piquet, “Si spiegazza sempre quando scendo” aveva detto. “Io sono Nina, piacere.” Io e il Buco Nero la fissavamo stupiti, con le bocche spalancate e gli occhi sgranati. Nina, allora, si era sistemata ai piedi del mio letto e aveva cominciato a parlare, parlava tantissimo Nina, era impossibile farla tacere, e così avevo iniziato anche io a parlare con lei. Il Buco Nero, infastidito, se n’era uscito dalla finestra, facendo sbattere le imposte. “Che brutto carattere ha il tuo amico” aveva commentato Nina.
A distanza di tempo, di anni – è stata Nina a dirmelo – ho scoperto che non era morta per un male brutto, come diceva mia madre, ma probabilmente per una peritonite, un’appendicite non diagnosticata in tempo. Mi aveva raccontato che non si aspettava di certo di morire così giovane, ma che ci si poteva fare, ormai era andata così – lo diceva lisciandosi le pieghe della gonna, o giocando con un boccolo –, in fondo non era male vivere lì, forse stare nella foto era un po’ scomodo, ma in ospedale c’era sempre un gran viavai, sempre persone nuove da conoscere, e poi, quando riusciva, andava a farsi un giretto nel parco, qualche volta scendeva persino in spiaggia, tanto solo i bambini riuscivano a vederla e neppure tutti, i grandi no, i genitori erano sempre troppo preoccupati e i medici troppo distratti per accorgersi di lei, insomma non si lamentava, “tutto sommato è andata bene” dicev...