Quando si risvegliò, la prima cosa che vide furono i rami sopra di sé, le fronde degli alberi che oscillavano tra la terra e il cielo. Erano più grandi dell’ultima volta, di quella volta lì, così come i fusti che le sorreggevano: frassini, ontani e roveri in parte spogliati dall’autunno montano.
Rimanendo in posizione supina, sollevò il capo e la schiena, piantando i gomiti e gli avambracci per sostenere il busto. Dal petto le cadde il cavallino di legno, più brunito e smussato di allora.
Erano passati tre anni. Tre anni da quando si era addormentata esattamente in quel posto. Tre anni da quando era stata lì per la prima volta, con suo padre. Tre lunghi anni da quando era diventata una contrabbandiera. In tutto quel tempo erano accadute molte cose e molte altre non erano mai più accadute.
Da quel suo primo viaggio nel 1893 la Jole aveva imparato molto sul contrabbando di tabacco. Così come aveva imparato molto sul baratto tra il tabacco e i metalli e tra i metalli e i viveri. Quella volta, tre anni prima, lei e suo padre erano riusciti a guadagnare un maiale, tre sacchi di farina, sei capponi e qualche lira, spesa da Augusto in patate, granturco e bietole. Tornando da quella prima spedizione e rientrando a Nevada, lei si era sentita una vera donna. Quel giorno era sicura di aver gettato per sempre da un dirupo tutte le sue paure, le insicurezze dell’animo e della sua età. Si era sentita improvvisamente grande, anche se aveva appena quindici anni.
Ora di anni ne aveva diciotto e suo padre non c’era più.
Rimase ferma a guardare verso l’alto, dove riusciva a intravedere un cielo azzurro e profondo, uguale al cielo di quel giorno. Chiuse gli occhi e inspirò col naso quanta più aria possibile.
Raccolse da terra due pigne e ci giocò tenendole in una mano.
Era il 29 ottobre del 1896.
Pensò a quando aveva visto suo padre per l’ultima volta. Come poteva immaginare che non lo avrebbe mai più potuto stringere fra le sue braccia?
Era partito all’età di quarantadue anni e tutti lo avevano salutato come a settembre si saluta l’estate, ben sapendo che dopo l’autunno, l’inverno e la primavera, l’estate sarebbe ritornata a splendere e a scaldare la pelle e i cuori. E invece no.
Moglie e figli lo avevano aspettato invano per giorni e per settimane, ma lui non era più tornato.
Agnese aveva pregato notte e giorno e sperato che suo marito fosse stato solo vittima di un contrattempo, era sicura che prima o poi sarebbe ricomparso. Nessuno di loro era partito per andare a cercarlo, non avrebbe avuto alcun senso: da un lato avevano atteso che si rifacesse vivo da solo, contando sulla sua forza e sulla forza del destino e delle preghiere; dall’altro non si potevano abbandonare i campi perché in sua assenza, se si voleva mangiare, bisognava sgobbare il doppio.
Poi era arrivata la prima neve, e le montagne erano state sepolte da metri di coltre bianca. I sentieri si erano fatti impraticabili, impenetrabile ogni idea di andare a cercarlo. E insieme all’erba dei prati e agli arbusti ai margini dei boschi, venne sepolta anche la speranza di rivederlo. Di rivederlo vivo, soprattutto.
Un giorno della primavera successiva, un pastore di passaggio dalle parti di Nevada aveva detto ad Agnese, invecchiata in breve tempo, che poco meno di un anno prima gli era giunta voce di un uomo che somigliava proprio ad Augusto De Boer. Secondo quello che gli avevano raccontato, era stato ucciso dalle guardie di frontiera austriache. Tuttavia Agnese non aveva mai perso la folle speranza di riabbracciare il suo uomo e aveva continuato a pregare tutti i santi, ogni giorno che Dio mandava sulla terra.
A tutto questo ripensava la Jole, tre anni più tardi, nel vivo del suo viaggio come contrabbandiera solitaria, distesa tra i colori autunnali, nascosta in quel bosco che sovrastava la val Brenta dalla parte opposta a quella di Nevada. I suoi fratelli, che adesso avevano tredici e dieci anni, sarebbero voluti partire con lei, così come lei aveva fatto con il loro padre, ma la Jole fu ferma e irremovibile: sarebbe andata da sola.
O sola o niente.
E siccome lei conosceva la strada e aveva già rischiato la pelle tre anni prima, alla fine si erano arresi e l’avevano lasciata andare. Bisognava farlo perché avevano fame. Quella primavera c’era stata una carestia e le cose si erano messe davvero male per i De Boer. La ragazza e la sua famiglia erano riuscite a nascondere alla Finanza del re diverse decine di chili di tabacco e la primogenita, alla fine, aveva convinto sua madre a lasciarla andare. Agnese aveva perso un marito e non avrebbe voluto perdere anche una delle sue figlie, ma di fronte alla caparbietà della primogenita e ai morsi dello stomaco si era convinta. E così la Jole si era preparata a partire da sola, sulle orme del padre, per fare ciò che lui le aveva insegnato, ciò che lui le aveva lasciato in eredità.
Rimanendo semisdraiata a fissare il cielo, ripensò alla sua partenza, ai preparativi, all’emozione che aveva provato. Guardò Sansone, il suo cavallo con tre quarti di sangue Haflinger. L’animale era costretto a muovere continuamente i muscoli per allontanare mosche e tafani che lo tormentavano. Era più bello, più grande e più forte di Ettore, e per quel viaggio sarebbe stato perfetto.
Era un cavallo da lavoro, piccolo e piuttosto tozzo e gliel’aveva affidato un anno e mezzo prima il capo della cava di marmo dove lei andava sempre ad ammirare quelle bestie. Si era ferito una zampa anteriore e alla cava non potevano più utilizzarlo.
“Lo dobbiamo mandare al macello” aveva detto l’uomo alla ragazza, che si era avvicinata alla bestia piena di premure.
“Datelo a me, lo curerò.”
“Sì, come no!”
“Quando guarirà ve lo riporterò.”
Il responsabile della cava ci aveva pensato su un attimo e poi, mosso dalla compassione per quella ragazza che aveva visto venire lì ogni settimana fin da bambina per amore dei cavalli, aveva esclamato: “Portalo via, se riesci a farlo muovere. Fallo prima che cambi idea!”.
Piano piano aveva fatto ritorno a casa col cavallo e lo aveva sistemato nella stalla. Era bello: color nocciola e sauro, con la criniera e la coda bionde, proprio come i suoi capelli. Affascinata da quella criniera, lo aveva chiamato Sansone.
Lo aveva medicato tutti i giorni con impacchi e unguenti medicamentosi fatti con erbe selvatiche e resina, e dopo qualche mese il cavallo era guarito completamente, si era ristabilito, e un po’ alla volta aveva ricominciato persino a galoppare.
I preparativi per la partenza erano stati tutt’altro che avventati e sbrigativi. Suo padre le aveva insegnato a ponderare ogni singolo dettaglio del viaggio, per non correre il rischio di ritrovarsi in situazioni che con un po’ di previdenza avrebbe potuto evitare. Così la Jole aveva predisposto tutto con cura e attenzione fin dalla settimana precedente la partenza, senza lasciare nulla al caso.
Aveva fatto una minuziosa ricognizione della quantità di tabacco da recuperare dai vari nascondigli disseminati qua e là, l’aveva pesato, si era procurata l’acqua, aveva allestito e preparato tutte le sacche e le custodie dove nascondere il tabacco durante il viaggio, fatto riposare e rifocillato Sansone più del solito, confezionato tocchi di formaggio Morlacco, Bastardo e sopressa in spessi fogli di carta, avvolto fagioli secchi e patate in sacchetti di juta, risistemato gli stivali, recuperato una coperta pesante, uno zaino, un paio di corde, una grande borraccia di acciaio, un telo di canapa grezza e una lanterna. Aveva nascosto gli ottanta chili di tabacco in foglie, polvere e trinciato, una parte tra le cose che aveva caricato ai fianchi di Sansone, il resto tra i suoi stessi vestiti. Infine era andata nella stalla, aveva aperto la vecchia cassa in legno di rovere e aveva preso San Paolo, il Werndl-Holub rimasto orfano dell’altro.
Aveva imparato a sparare durante l’anno del suo primo viaggio. Era stato suo padre a insegnarle a tirare con lo schioppo, con quel San Pietro che portava sempre con sé durante il contrabbando e che era sparito insieme a lui e al mulo.
Ora, in quel bosco che segnava la prima tappa del suo nuovo viaggio, ripensando al passato ma soprattutto al futuro che l’attendeva, la Jole si alzò in piedi e raccolse da terra il suo cavallino di legno, caduto sul manto infinito di foglie che tappezzavano il sottobosco. Si legò i capelli, che negli ultimi tre anni erano diventati molto più lunghi, si sistemò il suo vecchio fazzoletto rosso al collo e si ficcò in testa il cappello di paglia a tese larghe che era stato di suo padre. Per ultima cosa afferrò il fucile e se lo mise sulle spalle mentre una folata di vento faceva sventagliare nell’aria decine di foglie.
In quel momento avvertì il forte fischio della locomotiva a vapore proveniente dalla Valsugana, forse da Grigno, molto più giù. La ferrovia era stata inaugurata da qualche mese e già aveva iniziato a sferragliare avanti e indietro dalla frontiera a valle.
Col cappello inclinato sul davanti e il fucile in spalla schiacciato sullo zaino, la ragazza si avvicinò a Sansone, gli accarezzò il muso e montò in groppa con un balzo preciso e sicuro. Sopra il suo Haflinger era più bella che mai, e sembrava che niente avrebbe potuto fermarla.
«Ya!» disse piano, e a quel comando Sansone riprese il cammino.
Ricordava bene il percorso che aveva fatto con suo padre, tuttavia sapeva che il suo viaggio non sarebbe stato per nulla facile, poiché ogni passo avrebbe nascosto mille insidie.
«Ya!» ripeté.
E montando a pelo il suo cavallo, lasciò in quel posto l’odore dei ricordi tristi mescolato al suo profumo di giovane contrabbandiera.
Si inoltrò nel bosco molto lentamente, guardandosi intorno di continuo e facendo attenzione a possibili presenze minacciose. Sapeva che da un momento all’altro si sarebbe potuta trovare davanti a guardie italiane, animali feroci o malviventi pronti a tutto pur di predare viandanti e contrabbandieri.
Si chiese quale di queste tre sfortune poteva essere capitata a suo padre ma non riuscì a darsi una risposta poiché lo riteneva più furbo di qualsiasi finanziere, più forte di ogni avversità naturale e più spietato di qualsiasi brigante che si potesse incontrare nelle foreste.
Il sole si era levato da un paio d’ore e ormai stava iniziando a lambire la dorsale del Grappa, rovesciando i suoi raggi dorati lungo la schiena settentrionale di quel sacro monte.
Si mosse verso est e poi verso nordest come una fuggiasca, senza mai uscire dal folto del bosco, nascosta tra la vegetazione, mimetizzata come una vipera distesa tra le sterpaglie.
Non si fermò quasi mai, se non per controllare eventuali segni del passaggio altrui o per orientarsi meglio scegliendo percorsi impossibili da scorgere e scovare da qualunque altra posizione. Lasciandosi alle spalle il versante settentrionale del Grappa, vide davanti a sé la valle del Cismon e a quel punto, per proseguire il viaggio, dovette decidersi ad abbandonare il fitto bosco di ...