Lo sguardo di Nina vagò per il negozio di liquori: dal bancone coperto di polvere agli scaffali vuoti, dal pavimento ingombro di cocci alle finestre oscurate con pannelli di legno, e si fermò sul lato opposto della stanza – dove c’erano loro. Non aveva idea di chi fossero. Quello che sapeva è che durante la battaglia di Gropius Peter si era allontanato e si erano persi di vista, che si era ritrovata sola in mezzo alla bufera e che a un certo punto, dal vento e dalla neve, erano sbucate quelle creature bianche. Avevano fatto segno di seguirle, e lei, che non avrebbe saputo dove altro andare, aveva ubbidito.
Solo dopo aveva iniziato ad assalirla la paura. Quando nello spaccio in cui si erano rifugiati per la notte, non dovendo più proteggere gli occhi dal pulviscolo ghiacciato della bufera, li aveva osservati con attenzione alla luce delle candele. Non le piaceva il colore delle tute che indossavano, bianche come la pelle dei cadaveri; non le piacevano i grossi guanti che sembravano artigli; non le piacevano quelle mitragliette da cui non si separavano mai; ma soprattutto non le piacevano le maschere mollicce, sformate, dello stesso tessuto delle tute, con vetrini ovali al posto degli occhi, lunghe protuberanze simili a proboscidi all’altezza del naso e neppure una fessura per la bocca: teste da insetti giganti, o da mostri antichi e sanguinari come quelli delle leggende. Si era chiesta se avesse fatto bene a seguirli; ma la cosa strana era che, al tempo stesso, loro si comportavano come se quella pericolosa fosse lei: fin dal primo momento le si erano rivolti solo con gesti secchi, come avessero voluto tenerla a distanza, senza parlarle. Dentro lo spaccio le avevano indicato di andare a sistemarsi in fondo al negozio, dove Nina si era seduta su delle casse, aveva estratto dalla tasca due matite e un foglio stropicciato, e si era messa a disegnare.
Si trovavano lì da alcune ore quando, finalmente, una delle sei tute bianche si staccò dal gruppo, le si avvicinò, si accucciò sui talloni a un metro di distanza e chiese: «Cosa stai disegnando?».
Nina sgranò gli occhi. Che voce era quella? Aveva un tono che non sentiva da anni. Le ricordava le voci dei ragazzi grandi.
«…»
«Non devi avere paura. Con noi sei al sicuro. Come ti chiami?»
«…»
«Non mi vuoi dire come ti chiami?»
«Nina» fece in un sussurro appena percepibile.
«Che bel nome, io mi chiamo Andreas.»
Nina vedeva ogni cosa come un colore, e la voce di Andreas era di un bel blu gentile, con appena una leggerissima coda di viola. Nina amava il blu e avrebbe tanto voluto fidarsi di quella voce. Ne aveva bisogno. In fondo il rischio più grosso sarebbe stato cadere nelle mani di quelli di Tegel, e se le tute bianche potevano proteggerla da quel gruppo allora voleva dire che le tute bianche erano amiche. Però c’era un però. Suo fratello Bernd le diceva sempre di non fidarsi delle persone che non conosceva, fin quando non avessero svelato davvero chi erano. E Andreas aveva un sacco di cose da svelare: anzitutto la faccia.
Andreas si sollevò soffiando come se avesse il mal di schiena, le disse di riposare e tornò dai compagni. «Nico» disse accovacciandosi accanto a uno di loro.
«Che c’è?»
«Preparati, è il nostro turno.»
«Occhei, che dice la strana?»
«Piantala.»
«Di far cosa?»
«Non chiamarla così.»
«Perché?»
«Si chiama Nina.»
«Sai che me ne importa, fosse per me…»
«Lo so. Andiamo.»
E così i due uscirono, lasciando gli altri quattro accasciati in un angolo, le maschere calzate, gli zaini come cuscini. Il negozio, sporco e gelido, sprofondò nel silenzio. Durante il giorno il silenzio era un buon amico per Nina: un luogo confortevole in cui rifugiarsi, capace di proteggerla da un mondo troppo vasto e imprevedibile; era un blu brillante, fresco e pieno di ossigeno. Di notte, invece, le montava attorno, graffiandole il collo, e dal blu virava al nero. Il fresco diventava freddo e il freddo disagio. Il disagio brividi. I brividi pericolo. Il pericolo batticuore. E quando a causa del batticuore Nina faticava a prendere sonno, allora andava da Bernd e si accoccolava al suo fianco; lui la abbracciava e sussurrava: «Va tutto bene… noi abbiamo noi».
Noi abbiamo noi e le cose tornavano a posto. Ora però Bernd non c’era, e quello che aveva detto Nico – l’aveva chiamata la strana – e il modo in cui l’aveva fatto, cambiavano tutto. Come la voce di Andreas anche la sua somigliava a quella di certi ragazzi grandi, ma non aveva nulla di blu. Era completamente viola, e Nina odiava il viola.
Era un blu guasto.
Un blu sbagliato, cattivo.
Cattivo come quelli di Tegel, forse peggio.
Doveva andarsene, ritrovare la strada per Gropius. Così, mentre le tute bianche rimaste dormivano si alzò, infilò in fondo alla tasca le matite colorate e i fogli che Nora le aveva dato per disegnare, e con passi leggeri come ciglia raggiunse l’uscita dell’emporio. La maniglia ruotò con un cigolio che nessuno sentì.
Il fronte di nuvole si era sgretolato in una stellata opaca e i cristalli di neve volteggiavano a mezz’aria, in attesa di posarsi. Aveva sperato di riconoscere un luogo familiare, qualcosa che l’aiutasse a tornare indietro, ma intorno tutto le era estraneo e lei non ricordava neppure da che parte fossero arrivati. Alla fine dell’isolato incrociò una strada. Guardò prima a destra, poi a sinistra, come si faceva ai tempi delle auto. Attraversò a testa bassa: vagare di notte in una zona sconosciuta era peggio di quanto avesse immaginato. «Noi abbiamo noi» mormorò con un filo di voce producendo un fantasma di alito caldo che le aleggiò attorno alle labbra. «Noi abbiamo noi.»
«Dove credi di andare?»
La voce viola la colpì alle spalle. Nina si fermò trattenendo il fiato. Attese di capire se era reale o frutto della sua fantasia, ma quando la voce parlò di nuovo si voltò. Nico e Andreas erano pochi metri dietro di lei. Il primo le puntava la mitraglietta stringendola con entrambe le mani.
«Datti una calmata» disse Andreas al compagno.
Nico indugiò con il dito sul grilletto. Non gli piaceva quella bambina. Non gli piacevano i bambini, in generale. Pensò che era un’idiozia portarsene dietro uno.
«Abbassala» disse Andreas appoggiando una mano sulla canna; poi mostrò i palmi dei guanti a Nina e avanzò piano nella neve.
Lei arretrò di un passo.
«Dove vai?» chiese la sua voce blu.
«A casa» rispose Nina con un filo di voce.
«Come?»
«A casa…» ripeté appena più forte.
«Ci andiamo domani. Ora torniamo dentro, d’accordo?»
Nina fissò prima Andreas poi Nico. Se avesse provato a correre l’avrebbero raggiunta subito; era solo una bambina. E poi dove sarebbe potuta scappare? Berlino era troppo grande e nera per lei. Forse le faceva ancora più paura di Nico, della sua voce viola e dei suoi modi cattivi. Anche perché almeno lì c’era Andreas. Lui era diverso. La sua voce ora aveva perso anche quella punta di viola che aveva sentito prima. Le aveva ricordato quella del panettiere sotto casa, che le regalava i bretzel e di cui serbava un ricordo dolcissimo. Morbida e paterna come certe farine, era la voce di uomo – un uomo che l’avrebbe protetta.
Gli adulti, si disse Nina. Gli adulti sono ancora vivi.
Quando i primi raggi di sole strisciarono dentro la palestra e raggiunsero le guance di Jakob, lui sollevò lentamente le palpebre e le ombre presero la forma di un mare di larve. Sentì freddo, un freddo indicibile, e dolore dappertutto: alla schiena, alle gambe, alle braccia. Richiuse gli occhi.
Sperò fosse solo un incubo.
Pensò a come sarebbe stato bello riaddormentarsi, sprofondare nel tepore e sentire la voce della madre chiamarlo dalla cucina – odore di caffellatte. Ma quando il fumo si arrampicò su per le narici facendolo starnutire capì che non si trattava affatto di un incubo. Si sollevò sui gomiti, sfregò via dalla faccia la patina collosa accumulata nella notte e si guardò attorno.
Aveva dormito con guanti e giaccone, avvolto in una trapunta che puzzava di piscio. Sentiva i capelli impiastricciati, la gola che bruciava, i vestiti fradici di sudore incollati alla pelle. Sdraiati, attorno a lui, imballati nei giubbotti e nelle coperte, stretti gli uni agli altri tanto da rendere impossibile camminarci in mezzo, c’erano i ragazzi e le ragazze di Gropius e dell’Havel.
Il giorno prima, il 25 dicembre 1978, un Natale che avrebbero ricordato per sempre, avevano combattuto contro il popolo di Tegel, giunto a Gropiusstadt mosso dall’inutile desiderio di distruggere ogni cosa e di cacciarli dalla città . Avevano combattuto in mezzo a una bufera. E avevano vinto. O almeno, era ciò che Jakob si augurava. L’immagine di Wolfrun in lacrime, tremante per il freddo e la paura di perdere Ziggy, il suo amato cavallo marrone, gli era rimasta impressa negli occhi con una violenza inattesa. Non poteva esserne certo ma sperava che, dopo averla salvata dalle acque ghiacciate del lago, almeno per il momento, Wolfrun li avrebbe lasciati in pace.
Stremati, avevano deciso di passare la notte nella palestra, grande abbastanza per contenerli tutti. Dio solo sa quanto avessero bisogno di stare insieme, vicini. Ma nonostante la stanchezza erano comunque rimasti svegli fino a tardi, con lo sguardo appeso al soffitto, chi per l’adrenalina ancora in circolo, chi per la paura, chi per il dolore delle ferite e delle contusioni. Solo a notte fonda il sonno era sceso a consolarli, e all’alba del 26 dicembre dormivano ancora.
Tutti. Tranne Bernd.
Sua sorella Nina era scomparsa nel corso della battaglia; e anche Bernd, dopo averla cercata, incurante della bufera di neve e della minaccia di quelli di Tegel, con l’arrivo della notte era stato costretto a rientrare. Ma non per questo si era dato pace. Aveva passato ore lottando con gli incubi, scosso dai brividi, cercando di convincersi che non le sarebbe successo nulla; ma l’angoscia di saperla là fuori, da sola, lei che aveva paura persino della propria ombra, gli riempiva la testa di urla e il petto di spine.
Jakob si girò su un fianco e osservò il suo migliore amico armeggiare in un angolo della palestra con una stramba stufa da campeggio – quella da cui arrivava il fumo – che per il treppiede gli ricordava una cicala gigante. L’avevano trovata in uno sgabuzzino durante i preparativi per la battaglia. Un colpo di fortuna. Era di metallo leggero e non aveva bisogno di altro combustibile se non di legna, carta e stracci. Jakob si alzò e lo raggiunse facendo attenzione a non pestare una mano a qualcuno. Bernd aveva gli occhi rossi e una macchia di fuliggine sulla fronte.
«Serve una mano?»
Bernd scosse il capo, tirò su col naso e continuò ad attizzare la legna nella piccola camera di combustione. «Quando andiamo?» chiese, come se stesse parlando alla stufa.
La sera prima Jakob gli aveva promesso che appena sorto il sole avrebbero organizzato delle pattuglie per cercare Nina. Schiuse le labbra per dire qualcosa. Avrebbe voluto scusarsi per come si era comportato, per aver preferito fare compagnia a Christa che andare con lui a controllare come stavano i bambini; se l’avesse fatto, pensò, se avesse dato ascolto al sesto senso di Bernd, forse Nina non sarebbe scomparsa. Poi ci ripensò, chiuse la bocca, si allontanò di qualche passo, si sgranchì le gambe indolenzite e batté le mani urlando: «Sveglia! Sveglia tutti! Abbiamo un sacco di roba da fare!».
Nel silenzio generale, rotto solo dal crepitio della stufa, la a-a-a e la e-e-e di fare si intrecciarono rimbalzando da una parete all’altra, ma nessuno si mosse. Jakob gridò di nuovo, questa volta passando a scuotere i compagni e ricevendo isol...