Il piccolo ventilatore puntato a velocità tre mi stava escludendo temporaneamente dal suo raggio d’azione, mentre le primissime luci del mattino filtravano dai buchi delle tapparelle abbassate. Le lenzuola mi coprivano solo la gamba sinistra, tutto il resto del mio corpo elemosinava un accenno di brezza.
Guardai la sveglia, erano le sette e mezzo. Accanto a me, Michela dormiva sdraiata a pancia in su, il seno nudo che si sollevava impercettibilmente a ogni respiro, le lenzuola che la coprivano fino all’ombelico. I nostri vestiti giacevano sparsi sul pavimento, i calzini chissà dove.
Il camioncino della nettezza urbana passò sotto la finestra per svuotare i cassonetti, facendo un fracasso infernale. Sentii Michela muoversi appena ed ebbi la strana e irresistibile tentazione di mandare un messaggio al mio capo e chiedergli se potessi aprire il negozio con due ore di anticipo. La stanza odorava di crema solare e sudore, le mie mani sulla mia pancia leggermente appiccicosa e lucida, mani che avrebbero dovuto cercare qualcosa, quelle di Michela, i suoi capelli, una tetta, il fianco morbido. Qualcosa. Qualunque cosa.
Il coprimaterasso si era sfilato all’altezza dei due angoli del mio lato del letto. Era una cosa che mi aveva sempre dato fastidio, ogni volta che lo rimettevo a posto non era mai come prima, non ritornava tutto liscio e dava chiaramente l’impressione che si sarebbe sfilato di nuovo alla prima girata su un fianco. Succedeva che rimettevo a posto un angolo, poi mi occupavo dell’altro e, nel tentativo di rimettere bene anche quello, ecco che il primo si sfilava di nuovo. Come se mi avessero ingrandito il letto durante la notte.
Con Michela succedeva più o meno la stessa cosa.
Ogni tanto le voltavo le spalle e la sentivo scivolare via. Lei cercava ogni volta di rimettersi a posto, ma non riusciva mai a coprirmi tutto, rimanevano sempre delle parti di me scoperte. Non combaciavamo.
E allora che diavolo ci facevo lì? Cosa ci facevo in una stanza dall’altra parte di Roma con in sottofondo il rumore di bottiglie di vetro che venivano rovesciate dentro un gigantesco container di ferro, mentre già in strada c’era un gran via vai di macchine e clacson?
Michela. Ci aveva fatti incontrare il mese di agosto di quasi un anno prima.
In realtà già ci conoscevamo, ma ci limitavamo a salutarci, quello lo facevamo benissimo, i maghi del “ciao come stai?”.
Ci ritrovammo a scambiarci i numeri di telefono e a scriverci nel bel mezzo della mia routine estiva solitaria e stranamente piacevole.
Ci sentivamo sempre dopo le sei di sera, dopo aver passato gran parte del pomeriggio dentro casa con le tapparelle abbassate e il soggiorno in penombra e l’aria condizionata e i film degli anni Novanta ritrasmessi in tv, quelli con Jerry Calà e Lino Banfi, le notizie di calciomercato, la Roma che anche quell’anno puntava un attaccante che prometteva grandi cose e alla fine avrebbe avuto una media gol misera.
Ci incontravamo verso le nove e mezzo dieci, quando Roma era deserta e i parcheggi abbondavano persino sul Lungotevere, persino a Ponte Milvio.
La prima volta fu a piazza Trilussa. Michela era molto bella, i pantaloncini di jeans e una maglietta un po’ larga con una spalla calata, le converse nere coi lacci bianchi. Camminammo un sacco, prendemmo una birra in bicchiere di plastica al “Ma che siete venuti a fa’”, un locale lì vicino, appena addentrati nei vicoli. Ogni tanto ci arrivavano le foto dei nostri amici in vacanza, quelle dei miei amici erano tutte di culi in discoteca, quelle dei suoi erano selfie e paesaggi, e drink. Eppure a noi quella Roma piaceva, un sacco di turisti, donne alte e bionde che parlano in tedesco, americani pallidi e vistosamente scottati, qualche italiano che come noi non era partito.
Camminammo tantissimo, parlando di cose stupide, e rallentammo quando la discussione si fece interessante, le uscì un laccio dalla scarpa, si aggrappò al mio avambraccio per tenersi in equilibrio su una gamba e rimetterlo al suo posto, tutto molto spontaneo, tutto molto semplice.
Nei giorni seguenti, sempre più spesso, andammo a fare la spesa insieme nelle ore morte, rimanendo molto tempo al reparto surgelati a goderci il fresco, ognuno col suo carrello, io che prendevo la carne, lei i Cuccioloni, io i pacchi di pasta, lei i sofficini.
La prima volta che andai a prenderla, usai il navigatore per arrivare a casa sua e lo feci sparire prima che lei scendesse, per farle credere che conoscevo esattamente la zona in cui abitava, che ero un veterano delle strade. Aveva i capelli neri che profumavano di fiordilatte con un retrogusto di crema doposole. Mi disse tutta esaltata che finalmente si era abbronzata, in realtà aveva il colore delle Big Babol alla fragola. Già me la vedevo quella notte, stesa sul letto, con la schiena contro il muro fresco, nel tentativo di ricevere un po’ di sollievo, rigirare il cuscino come una bistecca, alla ricerca del lato meno caldo. Michela sembrava la rivoluzione di cui questo Paese aveva decisamente bisogno.
Aveva un piccolo neo sulla tetta destra, lo colsi di sfuggita mentre si guardava nello specchietto per controllare l’eyeliner. Viaggiammo con i finestrini abbassati, ma il semaforo rosso interruppe la nostra corsa. Vicino a noi, un chiosco di fiori gestito da un piccolo indiano.
L’ometto ci guardò, si avvicinò.
«Amigo, prendi fiori per bella ragazza» mi disse.
«Sono fiori di zucca?» chiese Michela. Il piccolo omino indiano la guardò senza capire, mantenendo il sorriso.
«Come non detto» gli disse educatamente. Il semaforo divenne verde e ripartimmo. Arrivammo ai Fori Imperiali, al Colosseo illuminato, c’era umidità nell’aria. Michela aveva la fronte un po’ lucida, gli occhi nerissimi, si sedette sul muretto e io mi sdraiai appoggiando la testa sulle sue cosce. Si tirò indietro i capelli distrattamente guardandosi in giro, dalla mia prospettiva aveva il viso incorniciato dal cielo. Qualcuno lì vicino cominciò a suonare la fisarmonica e a intonare stornelli romani, l’aria si impregnò dell’odore di rigatoni alla carbonara misto a quello dell’erba delle aiuole.
Michela abbassò lo sguardo e mi diede un frontino, io le afferrai i polsi per tirarla giù e restituirglielo, poi tutto si fermò, e fu allora che Roma decise di farci baciare.
Cosa fosse successo poi, nei mesi a venire, faticavo ancora a comprenderlo.
Di lì a un paio d’ore avrei attaccato al lavoro, avrei aperto le porte del negozio e avrei fatto finta di niente, sorriso stampato e pazienza infinita verso clienti esigenti, clienti insicuri, clienti maleducati, clienti borghesi. Poi sarei tornato a casa, al sicuro nel mio piccolissimo bilocale di trenta metri quadrati, con la caraffa piena di acqua del rubinetto poggiata sul lavandino, il frigorifero mezzo scassato con le calamite attaccate, la tapparella difettosa e la macchia di umido in mezzo al soffitto della cucina. Al sicuro e consapevole delle cose che mi circondavano, l’ambiente familiare, la radio già sintonizzata.
Lì, in quel letto non mio con il coprimaterasso sfilato, il cuscino accartocciato sotto la nuca, il ventilatore che ora mi colpiva l’inguine, mi sentivo fuori posto.
Come quella volta che Michela mi presentò ai suoi amici così diversi da me, con il senso dell’umorismo scadente, i capelli tutti tirati all’indietro e i mocassini, io che ero abituato alle battute di Federico e ai capelli spettinati e riccioluti di Giancarlo, i rutti di Ciccio, la solidità alcolica di Off e la perdita della faccia da bravo ragazzo di Jacopo dopo il secondo Negroni.
Fuori posto, fuori cuore.
Michela si mosse ancora e capii che si era svegliata. Si avvicinò a me e appoggiò la testa sul mio petto.
«Buongiorno» disse con la voce impastata.
«Ehi, buongiorno.»
«Dormito bene?»
Il ventilatore mi escluse nuovamente dal suo raggio d’azione, il corpo di Michela era caldo, troppo caldo.
«Benissimo» risposi ostentando un buonumore che non mi apparteneva, non in quel momento.
«Sei caldissima, mi sembra di avere addosso una borsa dell’acqua calda.»
Lei rise e si staccò da me, sdraiandosi sulla schiena, il dorso della mano appoggiato sulla fronte.
«A che ora devi essere al lavoro?» chiese.
«Tra un’ora.»
«Ah, oggi aprite prima?»
«No, è che dobbiamo finire di fare il refill dei pezzi venduti ieri.»
«Capisco.»
Le diedi un bacio sulla fronte e mi alzai, mettendomi alla ricerca dei calzini. La vidi con la coda dell’occhio afferrare il cuscino e tenerlo stretto tra le braccia, seduta a gambe incrociate sul letto. I capelli erano tutti scompigliati.
«Faccio il caffè?» chiese dopo un po’.
Mi guardavo intorno disorientato cercando i miei stramaledettissimi calzini.
«Non faccio in tempo a prenderlo, è che mi sono completamente dimenticato che ieri il capo mi aveva chiesto di arrivare prima stamattina perché c’è stato un macello durante il giorno e hanno tutti i vestiti per aria E DOVE SONO FINITI QUEI FOTTUTI CALZINI?»
«Lì.» Michela indicò una massa informe e bitorzoluta ai piedi della piccola scrivania, proprio sotto i miei occhi. Feci un sospiro esasperato e li afferrai.
«Stefano, tutto bene?» mi chiese.
«Eh?»
«Ho chiesto se va tutto bene. Sei un po’ strano stamattina.»
«Sono solo rincoglionito dal sonno.»
«Eh, lo vedo. Ti stai infilando i jeans al contrario» mi disse ridendo, indicando le mie gambe.
Abbassai lo sguardo e l’osservazione di Michela mi apparve nitida e confermata.
Michela continuò a ridere, le tirai un calzino addosso e mi avventai su di lei.
Cominciai a farle il solletico.
«Lo sai che russi una cifra?» le dissi a voce alta sovrastando la sua risata isterica.
«Non è vero!»
«Come no? Stanotte eri a una magnitudo otto punto uno, garantito.»
«Non è vero che russo!»
«Sarà stato il risotto.»
«Non era buono?»
Ci bloccammo un attimo e feci finta di pensarci, mentre tenevo Michela per i polsi per non farla scappare.
«Insomma…» incrociai il suo sguardo dispiaciuto e ricominciai a ridere.
«Stronzo!» mi disse lei, sorridendo. «E non russo.»
«E come puoi dirlo? Dormivi.»
«LO SO PER CERTO, OKAY?»
«Ti lascio alle tue certezze allora.»
Guardai la sveglia sul comodino.
«Sarà meglio che vada ora.»
Un ultimo giro della stanza per controllare di non essermi dimenticato niente, un bacio veloce con Michela di nuovo seduta a gambe incrociate sul letto, una promessa di risentirci in giornata e poi, finalmente, fuori.
Credo che ci siano vari tipi di baci.
Ci sono i baci aspettati per tanto tempo, ci sono i baci dati per noia, i baci arrapati, i baci romantici, i baci pieni di promesse, i baci di circostanza, i baci senza senso, i baci perugina, i baci brevi, i baci a occhi chiusi, i baci a occhi spalancati, i baci di riflessione.
È incredibile come quel primo bacio tra me e Michela, sotto al Colosseo al gusto carbonara, avesse attraversato tutte le tipologie conosciute dall’uomo, tranne i perugina, perché a me fanno davvero schifo i baci perugina.
Era iniziato come un bacio romantico.
E finì come un bacio arrapato, e non sarebbe neanche tanto grave la cosa, se non fosse che poi, quando più tardi mi svegliai nel buio della sua camera, con lei che dormiva abbracciata al cuscino e con il lenzuolo appena sopra al culo nudo, mi sembrò tutto tremendamente, irrimediabilmente, drammaticamente senza senso. E all...