Giovanni l’aveva osservata per tutta la notte senza dormire.
C’era una piccola nicchia, incuneata nel muro di fronte al suo letto. La coprivano un paio di tendine tirate e immobili, e le antine di vetro chiuse. Cosa fosse nascosto lì dentro, non era dato sapere.
Fino a poco tempo prima era rimasta vuota, ma già da quel mattino suo padre gli aveva proibito di sbirciare.
Di fronte a quell’ordine, nella mente di un bambino abituato a non disobbedire ai suoi genitori, la curiosità era diventata sempre più forte e pressante. I pensieri premevano per uscire, trascinati dalla piena dei desideri.
A nulla erano servite la notte insonne e le lunghe ore passate a leggere I Quarantacinque di Alexandre Dumas. Il romanzo narrava le gesta di due gentiluomini francesi giunti a Parigi per formare uno speciale corpo di guardia per il re Enrico III di Francia, costantemente minacciato d’attentati da parte della casa di Guisa.
La luce accesa per vincere il buio, sulla sedia accanto al tavolino che Giovanni usava come scrivania vi era appoggiata una spada. L’aveva costruita con pezzi di legno trovati per strada, davanti a una casa diroccata. A Palermo, nella piana della Magione, durante la guerra molti dei palazzi della borghesia buona erano stati distrutti dai bombardamenti. Ormai i portoni sfasciati lasciavano campo libero alle scorribande dei monelli del quartiere. Lì dentro si poteva trovare di tutto. Ma Giovanni aveva troppo rispetto per le case altrui e non ci voleva entrare. Mai si sarebbe permesso di appropriarsi di cose che non gli appartenevano.
Quella gamba di sedia si trovava a una distanza più che ragionevole dal portone per arrivare a pensare che appartenesse a qualcuno. Stretta in punta, squadrata alla base, impiegò poco a trasformarla in un’arma al servizio del re Enrico III. Il suo avversario era un albero dal tronco bruno, un ficus alto che si trovava lungo la strada per andare a scuola. Contro quell’albero, di pomeriggio Giovanni si esercitava in mille duelli immaginari.
Stoccate, allunghi, slanci, parate, affondi: il povero albero lo assecondava in silenzio, come un compagno di giochi nel momento del bisogno. Poi alla fine Giovanni si fermava, chiudeva gli occhi, inspirava profondamente, s’inchinava davanti all’amico sempreverde, lo ringraziava e tornava a casa.
Quella notte Giovanni restò a guardare i tetti delle case di fronte attraverso la finestra e aspettò l’alba dell’8 dicembre 1946, la festa dell’Immacolata. Il silenzio e il buio tenuti a bada dalla luce della lampada sul comodino.
Proprio quando il primo raggio di sole s’inerpicava sul terzo piano, colpendo la finestra della palazzina bassa accanto alla sua, Giovanni scivolò nel sonno.
Suo padre entrò nella stanza mentre lui ancora dormiva. Vestito già a quell’ora del mattino in abito scuro, come si addiceva al direttore del Laboratorio provinciale d’igiene e profilassi del Comune di Palermo, Arturo Falcone varcò la soglia, diede un’occhiata veloce al figlio, accennò un mezzo sorriso, si diresse alla nicchia nel muro, aprì le antine di vetro, e scostò le tendine di raso viola.
Giovanni sentì quei rumori e si svegliò, ma finse di essere ancora addormentato. Aveva capito che suo padre voleva fargli una sorpresa. Tirò il lenzuolo più che poté, si raggomitolò sotto le coperte e aspettò paziente. A nulla erano valsi i tentativi per saperne di più su quel segreto dalle sorelle maggiori. Né Anna né Maria avevano parlato. La nicchia nel muro della sua stanza era rimasta un mistero. I minuti passarono lentamente, mentre i pensieri volavano alle ipotesi più disparate, proprio come nel corso della notte. Che lì dietro ci fosse un’altra spada?
Magari una daga, simile a quella dei carabinieri quando indossavano la divisa; oppure una sciabola, unica amica dei soldati italiani mandati a morire al fronte russo, come gli aveva raccontato lo zio “scienziato matto”, che aveva studiato all’Accademia di Brera e faceva l’artista.
Meglio ancora, magari lì dietro le tendine c’era il fioretto dei tre moschettieri.
Quest’ultima ipotesi gli sembrò la più ragionevole. S’immaginò davanti al suo amico albero, a combattere veloce come D’Artagnan contro le guardie del cardinale Richelieu. Giovanni aveva letto quasi tutti i libri di Dumas, e così pure Eugène Sue, Conrad e Victor Hugo. Nella biblioteca di famiglia prediligeva i romanzi d’avventura, storie d’eroi e di guerre cavalleresche e i racconti d’ambientazione marinara.
Arturo Falcone si schiarì la voce. Bastò quel segnale perché Giovanni si mettesse a sedere sul letto. «Buongiorno» disse il padre avvicinandosi alla sedia. La nicchia nel muro si rivelò nelle sue dimensioni reali.
«Buongiorno» rispose Giovanni.
Al suo interno il bambino distinse i volti di alcune statuine. Il numero esatto non avrebbe potuto dirlo ma sembravano tutte simili tra loro, fatte di ceramica e stoffa.
«Che c’è biddicchiu, non ti piacciono?» domandò suo padre.
Giovanni annuì senza dire una parola.
Era deluso. I suoi sogni di cavaliere si erano infranti nell’attimo in cui aveva fissato i volti di quel piccolo mondo.
«Ancora non li hai riconosciuti?» lo incalzò il padre tentando di destare la sua curiosità.
Giovanni scese dal letto e si avvicinò alla nicchia.
Ci volle poco per capire che si trattava di un presepe. Non di quelli che si vedevano nelle altre case. Uno simile non l’aveva visto nemmeno nel convento della Pietà in via Alloro, vicino al museo Nazionale, dove si trovava la zia Peppina, una vecchia suora. Proprio lei aveva regalato quei pastori alla sua famiglia.
«La zia Peppina ci tiene» si affret...