“Quark”
Mercoledì 18 marzo 1981 fu per me un giorno importante: quella sera, infatti, andò in onda la prima puntata di “Quark”. Da tempo pensavo di creare una rubrica settimanale, perché avrebbe permesso alla scienza di essere più presente in TV e anche di spaziare in tanti campi. Finalmente il progetto andò in porto.
Il programma durava 55 minuti ed era composto da quattro o cinque servizi, girati in Italia e all’estero. Quella prima serie fu di diciotto puntate, più altre dieci realizzate con documentari naturalistici.
Per prudenza, “Quark” fu collocato in seconda serata, per capire quale sarebbe stata l’accoglienza del pubblico. Ma la cosa incredibile, oggi, è che la seconda serata, allora, cominciava già alle 21.35! Infatti, dopo il Telegiornale e “Carosello”, prima di noi andava in onda “Dallas”, la seguitissima serie televisiva americana, che durava solo 55 minuti.
La prima puntata di “Quark” fece un ascolto di 9 milioni, quasi quanto il Festival di Sanremo oggi. A quel tempo, gli ascolti erano completamente diversi da quelli attuali: pensate che “Portobello”, la popolarissima trasmissione di Enzo Tortora, superava i 20 milioni di spettatori (poi venne Berlusconi…).
Per trovare il titolo del programma ci fu una lunga selezione su una lista di cinquanta proposte. Alla fine prevalse “Quark”, inteso come “andare dentro le cose” (i quark sono quelle minuscole particelle che si trovano nel nucleo degli atomi).
Vorrei ricordare qui i tre straordinari autori che hanno fatto parte del gruppo storico del programma e che da allora non hanno smesso di collaborare, rendendone possibile il successo nel corso degli anni: Lorenzo Pinna, Giangi Poli e Marco Visalberghi, insieme alla regista Rosalba Costantini, alla curatrice Rosanna Faraglia e alla regista Renata Mezzera per “Il mondo di Quark”.
“Il mondo di Quark”, che iniziò l’anno successivo, fu il primo prolungamento del marchio, con un appuntamento quotidiano alle due del pomeriggio, seguito da moltissimi studenti (ancora oggi, mi sento dire da tanti quaranta-cinquantenni: “Io sono cresciuto a pane e Quark!”).
L’universo “Quark” si è in seguito ramificato in tutte le direzioni (“Quark Enciclopedia”, “Quark Atlante”, “Serate Quark”), con programmi dedicati all’ecologia, alla storia, all’archeologia, all’economia e a molti altri campi (il 4 giugno del 1999 festeggiammo già le duemila puntate!).
Insomma, “Quark” si era rivelato la chiave giusta per aprire una stagione nuova di programmi che fino a quel momento, stranamente, erano quasi assenti in televisione (e mi sono sempre chiesto come mai).
Trovare un linguaggio adatto era importante, e fu forse questa l’innovazione principale che ci permise di parlare di qualunque argomento usando persino i cartoni animati. Sin dalla prima puntata, infatti, cominciò a collaborare al programma il celebre Bruno Bozzetto.
E qui bisogna chiarire una cosa che forse non tutti hanno capito. Per tradizione, siamo abituati a considerare i cartoni animati come film per bambini: storie divertenti, personaggi di fantasia, racconti fiabeschi. Usare quindi il cartone animato per fare scienza può dare l’impressione di fare divulgazione per un pubblico infantile o terra terra.
Ma queste animazioni, in realtà, sono state spesso scritte in collaborazione con grandi scienziati, che hanno colto perfettamente la loro straordinaria capacità di far penetrare un messaggio, perché consentono di visualizzare cose spesso invisibili e, grazie alla loro attrattività, rendono più ricettiva la mente di tutti, compresa (e forse soprattutto) quella delle persone colte, ma che hanno bisogno di rinfrescare i lontani ricordi liceali.
Le cose andarono in questo modo. Alla fine del 1980 ricevetti una lettera da Bozzetto, che non conoscevo personalmente, nella quale mi raccontava di aver letto il mio libro L’uomo e la marionetta, che parlava dei condizionamenti genetici e ambientali sul comportamento umano. Mi disse che, leggendolo, lo aveva visto come se si fosse trattato di un film! Mi proponeva quindi di realizzare un film basandosi proprio sul libro. La cosa mi fece molto piacere: gli risposi però che, per capire meglio quali risultati si potevano ottenere, sarebbe stato meglio cominciare con un breve cartone da inserire all’interno di “Quark”. Mi attraeva infatti l’idea di utilizzare quel mezzo inusuale per illustrare argomenti difficili da spiegare: ad esempio, concetti astratti o aspetti teorici della scienza dei quali non è possibile “filmare” immagini dirette.
Così gli inviai un articolo che avevo appena scritto per la pagina culturale de “la Repubblica”, alla quale collaboravo a quel tempo, intitolato “Quanto petrolio consuma il filosofo”. Il filosofo, infatti, non produce cibo, né oggetti, né servizi. Egli pensa. Ma per poter pensare deve avere dietro di sé una lunga catena energetica che lo sorregga. Gli inviai il testo scritto su una metà del foglio, e sull’altra metà avevo aggiunto le scenette corrispondenti.
Ne uscì un bellissimo cartone animato. E fu l’inizio di una lunga collaborazione. Nel corso degli anni realizzammo per “Quark” ben quarantacinque cartoni animati di 8-10 minuti ciascuno (cioè in totale quasi 7 ore, l’equivalente di quattro film). Un lavoro da certosini, perché ogni fotogramma doveva essere colorato a mano (e in ogni secondo ci sono venticinque fotogrammi!).
Utilizzando questi cartoni animati spiegammo gli argomenti più difficili: meccanica quantistica, relatività, entropia, superconduttori, embriologia, ingegneria genetica e tantissime altre questioni di fisica, psicologia, statistica, eccetera.
In seguito, utilizzammo i cartoni animati per spiegare temi complicati quali l’integrazione europea o l’economia. Bozzetto mi disse che quando riceveva i miei testi ripiegava la metà del foglio, per non essere influenzato dalle mie vignette, e che quando le confrontava con le sue risultavano all’80 per cento uguali…
La formula di “Quark”, più agile e più varia rispetto a quella dei documentari, permise un’esplosione di servizi girati in tutto il mondo. Era una scoperta continua di argomenti, esperimenti, studi di grande interesse. La cosa che continuava a stupirmi era che nessuno fosse andato a pescare in questo oceano di ricerche. Solo negli anni Sessanta il regista Giulio Macchi aveva realizzato un bel programma, “Orizzonti della scienza e della tecnica”, con puntate di taglio monografico, ma stranamente aveva poi dirottato su altri argomenti le sue produzioni.
Riguardando indietro agli anni di “Quark” e a tutto il lavoro fatto, riemerge una lunga galleria di scienziati e di ricerche che, forse, hanno permesso al grande pubblico di conoscere meglio l’opera silenziosa di tanti ricercatori e comprendere l’importanza per un paese di investire nella ricerca.
Beppe Grillo
Tra i tanti argomenti di cui ci occupavamo, ovviamente, non poteva mancare l’ecologia. E c’è un episodio curioso in proposito che vale la pena di ricordare, perché riguarda un personaggio oggi molto di attualità: Beppe Grillo.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, Beppe Grillo era stato cacciato dalla RAI – dopo aver preso parte a numerosissime trasmissioni di successo – per una battuta sui socialisti che non gli era stata perdonata. In quel periodo si era inventato degli spettacoli “ecologici”, in teatri-tenda, denunciando gli inquinamenti di ogni tipo che stavano avvelenando aria, acque, terreni e coscienze. Erano spettacoli molto creativi, fatti come solo lui sapeva fare.
Un giorno lo incontrai casualmente (nella hall di un albergo, credo). Ci salutammo e mi venne un’idea. Gli dissi, in sostanza: “Perché non facciamo qualcosa insieme? Se lei è d’accordo, potremmo registrare il suo spettacolo, e scegliere di comune accordo tre o quattro brevi sequenze, ognuna su un argomento diverso. Partendo da queste denunce, potremmo abbinarle ogni volta a un nostro servizio che riprenda l’argomento con un taglio scientifico, in modo da avere un quadro più completo”. Per Grillo era un modo per tornare a parlare al suo pubblico; per noi, un modo attraente per parlare di ecologia.
Mi parve interessato, e mi disse che ci avrebbe pensato. Qualche giorno dopo mi telefonò dicendomi di no. Non gli chiesi le ragioni, ma secondo me fu un’occasione persa. Forse temeva che la verifica scientifica avrebbe smorzato l’effetto teatrale delle sue argomentazioni.
Oltre ai servizi di scienza, a “Quark” trasmettemmo una serie di incontri con personaggi particolari, alcuni veramente incredibili. Uno degli incontri che mi rimase più impresso fu quello con uno di quei giapponesi che, nelle isole del Pacifico, rimasero nascosti nella giungla per anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, senza mai arrendersi, riuscendo a sopravvivere in condizioni estreme.
Il giapponese nella giungla
Negli anni Sessanta, quando ancora vivevo a Parigi, avevo letto il racconto di un soldato giapponese, Tadashi Ito, rimasto nascosto nella giungla dell’isola di Guam per sedici anni! Era passato molto tempo, era ancora vivo? Tentai di rintracciarlo, e ci riuscii. Entrai in contatto con lui e gli proposi di andare insieme nella giungla, dove non era più tornato. Fu così che, con una troupe giapponese e un interprete, ci recammo nei luoghi in cui si era svolta questa storia pazzesca. Credo che valga la pena raccontarla, anche perché il “dietro le quinte” è incredibile e poco conosciuto.
Quando gli americani sbarcarono sull’isola, mi disse Tadashi Ito, dopo una furiosa resistenza lui e i soldati del suo reparto si ritirarono nell’interno, disperdendosi tra la vegetazione e dentro le caverne.
Gli ufficiali, a quel punto, dissero ai loro soldati: “Resistete! L’imperatore manderà dei rinforzi per liberarvi. E non arrendetevi assolutamente, perché gli americani non fanno prigionieri, appena vi cattureranno vi uccideranno!”.
Questo era il messaggio: se vi arrendete vi ammazzano!
Ecco perché quei soldati non si arresero: all’inizio, a sostenerli c’era l’attesa fiduciosa dell’arrivo dei rinforzi (“L’imperatore manterrà la sua parola”), ma in definitiva fu la paura di essere uccisi a farli rimanere nascosti.
Tadashi Ito mi raccontò che alla fine della guerra gli americani avevano lanciato dei volantini sull’isola, per fare uscire questi soldati nascosti, spiegando loro che la guerra era finita e che potevano tornare a casa. Insieme ai volantini paracadutavano anche dei giornali giapponesi con la notizia della fine delle ostilità, e persino con la foto della firma della resa sulla corazzata USS Missouri. Ma non ci fu niente da fare. “È un trucco degli americani per farci uscire allo scoperto e catturarci” continuavano a ripetersi i soldati nella giungla.
Pian piano il reparto si disunì: alcuni morirono di stenti, altri furono catturati, altri ancora uccisi in rastrellamenti. Alla fine il nostro soldato rimase solo, ma ogni tanto avvistava altri compagni, anche loro solitari.
Furono anni terribili. Perché non soltanto bisognava sopravvivere nella foresta, lottando ogni giorno per procurarsi il cibo, ma bisognava farlo senza essere avvistati. Perché le popolazioni autoctone dell’isola organizzavano vere e proprie battute di “caccia all’uomo”, con fucili e cani.
Per ritrovare i luoghi esatti ci recammo in un punto della costa a sud dell’isola, dove sfociava un piccolo torrente, e seguendo il corso d’acqua risalimmo verso una zona montuosa ricoperta da una fitta vegetazione.
Tadashi Ito mi disse che era rimasto ferito di striscio al ventre da una fucilata, durante una delle cacce all’uomo, e per questo dormiva sempre in prossimità di un dirupo, per avere una via di fuga rapida.
All’inizio sopravvisse mangiando tutto quello che trovava nella foresta, ma ben presto si organizzò per fare provvista di carne. Nell’arco di sedici anni, mi disse, sparò solo otto colpi col fucile, durante i temporali per nascondere il rumore, ammazzando ogni volta un animale: solitamente un maiale, una volta un vitello.
Per conservare la carne, però, era necessario disporre di molto sale, e imparò a procurarselo andando di notte sulla costa e riempiendo di acqua di mare una camera d’aria di camion ritrovata in una discarica dell’esercito americano.
Quella discarica era la sua preziosissima miniera: vi si poteva trovare di tutto, cartoni, fil di ferro, copertoni, teloni, contenitori in plastica, e tanto altro. Tutte cose utili per fare contenitori per i cibi, scarpe, pentole, abiti, scatole. Quando si recava furtivamente di notte alla discarica intravedeva i soldati americani alla base. Con tanto di luci e una musica strana che non aveva mai sentito in vita sua (forse un boogie-woogie).
Ritrovammo, a un certo punto, una delle caverne che aveva utilizzato: una caverna aperta su due lati, per favorire la fuga in caso di emergenza. All’interno, trovammo ancora i legni che usava per appendere la pentola. Infatti cucinava il cibo all’interno dei suoi rifugi, per evitare che si vedesse il fumo e che l’odore si spargesse.
Mi spiegò che nascondeva i suoi beni in tre caverne diverse, per evitare di perdere tutto nel caso una fosse stata scoperta. E se si ammalava? Si stendeva per terra, in attesa che il male passasse.
Ma c’era la possibilità che qualche altro soldato fosse ancora nascosto nella giungla? Un poliziotto di Guam, che si era appassionato a questa storia, mi aveva detto che l’anno prima aveva visto, in prossimità di un laghetto, le impronte di un uomo che camminava con una gamba sola… Era convinto che nella giungla ci fossero altri soldati sopravvissuti.
Tadashi Ito mi raccontò che un suo compagno di reparto viveva in una buca di tre metri per tre che si era scavato, mimetizzandone l’entrata. Usciva solo di notte e viveva mangiando topi, che catturava con delle trappole. Ma aveva avvistato anche altri soldati solitari, e con uno di loro passò l’ultimo anno.
Da Tokyo avevamo portato un altoparlante e la registrazione dell’annuncio della fine della guerra fatto dall’imperatore. Ci recammo in certi punti particolari e Tadashi Ito, con l’altoparlante, si appellò a qualche possibile superstite dichiarando il suo nome, la sua storia, e facendo sentire la voce dell’imperatore. Si emozionò profondamente nel fare gli annunci, che gli facevano rivivere una tragedia durata sedici anni, ed entrò in crisi: volle andare via da quei luoghi e tornare a casa. Rispettai il suo stato d’animo.
Non riuscimmo così a realizzare l’ultima parte di questo ritorno al passato: ritrovare una caverna dove il nostro amico aveva nascosto tre spade da samurai, appartenenti a ufficiali giapponesi morti. Questa caverna si trovava in una zona dell’isola di Guam che era diventata base militare nucle...