Guardo la foto di mia madre nel portafoglio, non so per quale motivo.
Entro in casa, il tempo di lasciare le scarpe e la borsa all’ingresso e sedermi sul divano e già suonano al campanello.
Non aspetto nessuno.
Mi avvicino alla porta, scalza, incerta e, tra la curiosità e il fastidio, trovo all’ingresso mio padre che senza giri di parole mi chiede “andiamo a fare due passi, ti va?”.
Mi sento in imbarazzo e sorpresa allo stesso tempo.
Non sono mai uscita da sola con mio padre, nemmeno a fare la spesa. Non abbiamo fatto mai nemmeno le scale insieme.
“Quindi vieni o no?” i suoi occhi mi interrogano e dopo un breve silenzio incalza dicendo “ma stai poco bene?”. Mi rendo conto che non ho previsto né la domanda, né la risposta da dare.
“Mi metto le scarpe e arrivo” sussurro tra le labbra.
Fuori fa freddo, è buio, una lieve nebbia ci impedisce di vedere cosa c’è in fondo alla via.
Le auto sono poche, tutte parcheggiate ai lati della strada. Appena fuori dal portone, incrociamo un camion della raccolta rifiuti che svuota i cassonetti con un enorme braccio meccanico. Camminiamo piano, in silenzio.
Le parole ci mettono un po’ a farsi strada, ma poi mio padre inizia a raccontare.
“Mi hai sempre chiesto perché la mamma quella sera piangeva. Me lo chiedevi con tono d’accusa. I primi mesi pensavo che lei ti avesse detto qualcosa, prima di uscire, ma poi ho capito che non sapevi nulla. Tante volte avrei voluto chiederti com’era vestita tua madre quella sera, quali erano state le sue ultime parole. Dopo che lei è morta mi sono nascosto dietro al troppo lavoro, alle risposte scontrose. Non sapevo più come rapportarmi con le altre persone.”
Mio padre si ferma, come se gli mancasse il coraggio, ma poi riprende a parlare.
“Tua madre non poteva avere figli. Quando lo abbiamo scoperto, dopo esami di ogni genere, lei è diventata un’altra persona. Tutti ci chiedevano in continuazione quando avremmo fatto un figlio. I nostri parenti, i nostri amici vivevano come se ci fosse una scadenza da rispettare. Un giorno ci siamo confidati con tua zia Jìna. Le abbiamo raccontato tutto e lei ha proposto di concepire un figlio per noi. Ci ha convinto dicendoci che essendo sorelle era come se fossero la stessa persona. Eravamo d’accordo che sarei stato io a metterla incinta. Ma, come per miracolo, dopo poco tua madre è rimasta incinta e sei nata tu.”
Come chi si sveglia bruscamente da un incantesimo, alziamo entrambi la testa per guardarci attorno e capire dove siamo finiti. Lui aggrotta la fronte, e mi chiede con un sorriso un po’ tirato “ma quanto abbiamo camminato?”.
Il sorriso scompare subito.
Mio padre comincia a piangere in silenzio. Io rimango a guardarlo, incapace di reagire. C’è una distanza infinita tra noi e le vetrine dei negozi degli alimentari etnici, tra noi e le poche persone che ci camminano vicino, tra noi e le voci che arrivano dalle finestre delle case, tra noi e la famiglia che non siamo mai riusciti a essere.
“Quella sera sono uscito, dimenticando il cellulare a casa. Io e tua madre discutevamo spesso in quel periodo, se ricordi. Per qualche ragione lei ha preso il mio cellulare e ha letto i miei messaggi. Non mi aspettavo trovasse quello che forse cercava, perché ero sempre stato attento. Così ha scoperto che io e tua zia ci frequentavamo da anni a sua insaputa. Quando sono rientrato a casa, tua madre era già uscita. Era tardi. Avresti dovuto già essere a letto, ma eri seduta in mezzo alla stanza. Ti ho chiesto dov’era tua madre e mi hai detto che era uscita piangendo, tua madre non piangeva mai. Non aveva pianto nemmeno quando il medico ci aveva detto che non poteva avere figli. Quando ho preso in mano il telefono e ho trovato un messaggio aperto ho capito cos’era successo. L’ho chiamata subito.” Mio padre si stringe nelle spalle, tira su con il naso e si schiarisce la voce, tenendo gli occhi fissi sul marciapiede. “Ha risposto dopo uno squillo soltanto, con voce calma. Per un attimo ho sperato che non avesse scoperto nulla ma subito dopo ignorando il mio ‘amore dove sei?’ mi ha chiesto ‘perché?’. Siamo rimasti qualche secondo in silenzio e poi lei è scoppiata a piangere ed è caduta la linea. Ho provato a chiamarla tutta la notte ma lei non ha più risposto. L’ho aspettata sveglio fino all’alba convinto che sarebbe tornata a casa, illudendomi che in qualche modo avrei potuto spiegarle tutto. Mi ero preparato un discorso che ormai sapevo a memoria, ma non sapevo che quel discorso non l’avrei mai fatto, l’ho capito solo quando aprendo la porta, al posto di trovare lei, mi sono trovato davanti due poliziotti che non riuscivano a guardarmi negli occhi. E da quel momento dentro di me è cominciato il vuoto, quello che dura tutt’ora.”
Non so cosa dire e riesco solo a pensare a come doveva essersi sentita mia madre. Lui prova ad abbracciarmi, ma lo respingo, ci prova di nuovo e io crollo. Restiamo per un tempo imprecisato abbracciati in mezzo al marciapiede con le ginocchia sull’asfalto, come due bambini che sono stati abbandonati dalla madre in una via piena di gente. Stretta tra le sue braccia, mi ripeto continuamente:
“Quando si ama non si tradisce.”
“Quando si ama non si tradisce.”
“Quando si ama non si tradisce.”
“Quando si ama non si tradisce.”
Si tradisce per noia, per curiosità, per superficialità, ma mai per amore. E chi ce lo fa credere ci mente due volte.
Non vedo mia madre da quasi dieci anni e da molto non mi manca più. Per anni, senza di lei, mi sono sentita sola al mondo. Ci sono persone che prima ci salvano e poi ci fanno sentire ancora più soli e credo che mio padre abbia fatto così con lei. Persone che continuano a mancarci anche quando ritorniamo a essere felici, di nuovo innamorati, e così è stato per me con mia madre.
Penso che se serrassimo il cuore come facciamo con gli occhi quando si ha paura del buio sarebbe tutto più facile. Nessuno ci lascerebbe in sospeso e nessuno fingerebbe che non gli importi.
Sento la mancanza dei “ti voglio bene” detti con gli occhi di chi lo pensa davvero, le risate senza nessun accenno di malinconia.
Mi sento triste perché mi è sempre stato detto “sii forte” e non “piangi, se vuoi”, come se lo scopo ultimo fosse solo mostrarsi capaci di sorridere e non di stare bene davvero.
Mentre sparisco tra le braccia di mio padre mi rendo conto che si capiscono così tante cose quando non si è più innamorati. Io come lui oggi aspetto qualcuno che mi salvi.
Ci sentiamo soli anche se vicini e legati nel sangue, perché tutti siamo capaci di rincominciare, ma non tutti sappiamo riprenderci.
Riprenderci da un fallimento, da un’educazione troppo severa, da una lacuna e un rapporto mancato.
Riprenderci la vita in mano.
Le gambe mi cedono, mi lascio cadere sulla sabbia fresca e guardo il tramonto davanti a me.
Sono due anni che non torno qui. Prima di partire però ho sentito il bisogno di farlo, perché questo mare mi ha dato tanto. Domani per la prima volta, vado a Brazzaville. Non ho nessuno lì, solo qualche famigliare che ho sentito al telefono un paio di volte e la casa che mi ha lasciato mia madre. Quando ero piccola, mi diceva sempre che quella casa un giorno mi sarebbe servita e io ridendo le rispondevo “cosa ci vado a fare io in Congo?” convinta che quel posto servisse solo a lei. Mi sbagliavo.
Ho il volo domani alle 13.45, mi accompagnerà papà in aeroporto, ha insistito per una settimana e alla fine ho ceduto.
Dice che ha fatto un sogno dove partivo per un posto lontano e non tornavo più.
Mamma, vado perché voglio dimostrare a me stessa che non è vero che sono sempre gli altri ad andarsene e a salvarsi. Vado a salvarmi, a rincominciare per non tornare sui miei passi. A dimenticare tutte le volte che ho lottato da sola per poi tornare sola, nella speranza di sentirmi a casa, anche solo un giorno, lontana da un paese che mi ha resa straniera. Voglio capire se ci sono ancora, se sono ancora viva. Nella speranza di imparare una volta per tutte che devo lasciare andare le persone e le cose che non mi fanno vivere bene. E spero di tornare più forte di quella bambina che scuoteva la testa in continuazione quando le chiedevano se aveva bisogno di qualcosa. Più forte di quella ragazza che voltava pagina per poi ritrovarsi ancora di fronte alla ragione per cui aveva deciso di cambiare. Più forte di quei silenzi che mi hanno accompagnata per tutta la vita, che non mi hanno fatto dire cose che ormai penso non abbiano più importanza. Mamma, vado perché lui mi manca, perché è meglio fuggire piuttosto che aspettare qualcuno che non sa che lo stiamo aspettando.
Vado per tornare diversa, per dimenticarmi che non ci sei e ricordarmi che esisto.
“Ho iniziato a sedici anni. Io sono cresciuto in un quartiere popolare dove tutti almeno una volta hanno provato, anche i preti” dico tenendo lo sguardo basso sulle punte delle scarpe. “Li guardavo affascinato, i miei amici più grandi mentre si facevano, mentre descrivevano nei dettagli l’effetto di quella polvere bianca. ‘È come sentirsi dentro tutto il ferro della torre Eiffel’ mi dicevano per convincermi a provare.”
“Ed è stato così?” mi interrompe una voce che arriva dall’altra parte della sala.
“Cosa?” domando mentre cerco con gli occhi di dare un volto a quella voce tra le persone sedute davanti a me.
“Tutto il ferro della torre Eiffel, ti sei sentito così?” mi chiede un ragazzo. Ha gli occhi verdi e i capelli neri, corti, scalati, sembrano tagliati da poco, tiene la giacca sulle ginocchia e le braccia conserte. È diverso da tutti i presenti in questa stanza e guardandomi attorno mi rendo conto di non essere l’unico ad averlo notato. È vestito bene, non sembra un tossicodipendente, tiene lo sguardo alto, lo sguardo di chi non ha mai avuto debiti con nessuno.
“Sì, mi sono sentito così, per questo poi ho continuato a farmi. Per superare le mie paure.”
“E poi?” mi incalza.
“Le paure si superano affrontandole, non con la droga. Io ero piccolo e credevo di aver raggiunto la maturità quando invece non ero nemmeno riuscito a mettermi in salvo. La coca ci appassionava perché gli avevamo dato un significato, era l’unico mezzo che avevamo per uscire dalle nostre vite di merda anche solo per qualche minuto.” Alzo lo sguardo per incrociare i suo...