«Michail Aleksandrovic...»
«Zoja Sergeevna...»
Con le grosse e larghe dita Bakunin sfiora la piccola mano della principessa, carica di anelli. Basta questo semplice gesto accompagnato dal risuonare dei loro nomi pronunciati in un russo antico ed elegante tra le volte del vecchio palazzo napoletano perché per un attimo a un uomo e a una donna lontani da casa sembri di ritrovare tutto un mondo. Non importa che quel mondo sia stato rinnegato per sempre perché odioso e inaccettabile. Esso sta lì, a ricordare che non c’è bisogno di parole, spiegazioni, commenti.
L’uno di fronte all’altra vi sono due ribelli, transfughi, esiliati; due personaggi che i loro connazionali reputano folli e stravaganti: un rivoluzionario considerato violento e pericoloso, già condannato a morte, evaso e ricercato dalle polizie di mezza Europa, e una gran dama cresciuta tra gli ori e gli stucchi dei palazzi di Mosca e San Pietroburgo, giudicata nel suo ambiente un’esaltata. Eppure, quante cose hanno in comune! L’infanzia trascorsa in campagna, spesso nelle cucine in compagnia dei servi, l’attaccamento alla propria balia, il culto dell’Europa, l’abitudine a esprimersi in francese e, soprattutto, il profondo odio e lo sviscerato amore per la Russia.
Zoé è arrivata a Napoli a marzo e con il seguito, dopo una breve sosta in albergo, ha preso alloggio nel palazzo alla Riviera di Chiaia che, dopo la caduta dei Borbone e l’avvento della monarchia sabauda, un duca ha abbandonato per ritirarsi in campagna.
Non so come sia entrata in contatto con Bakunin. Secondo la pronipote, Mrs Petersen, che lo ha sentito raccontare in famiglia, il famigerato e ricercato agitatore avrebbe incontrato la principessa alla stazione di Napoli. Alla tradizionale carrozza trainata dai cavalli, che avrebbe impiegato tre giorni, Madame Obolenskaja aveva preferito la novità del viaggio in treno (dodici ore circa per il tragitto da Roma, ancora Stato Pontificio, a Napoli!) pur di avere un intero vagone in cui sistemare il suo principesco corteo. Arrivata alla stazione, non doveva certo essere passata inosservata con un seguito così vistoso. E Michail, trovandosi per caso proprio lì e riconoscendo nella gran dama una sua connazionale, l’avrebbe avvicinata. Potrebbe essere andata così, anche se sappiamo che in quei giorni, avendo sempre la polizia alle calcagna, Bakunin evitava di farsi vedere in giro. Nelle pagine successive avanzerò ipotesi più concrete sul come si siano incontrati.
È accertato però che già pochi giorni dopo, invitato dalla principessa, con cautela, all’imbrunire, Michail si recherà nel palazzo di Chiaia.
Per accedere all’appartamento in cui soggiorna l’aristocratica signora con i cinque figli, si attraversa un oscuro e imponente cortile dove si affacciano alcune botteghe. Sullo sfondo c’è un alto loggiato da cui partono, a sinistra e a destra, due rampe che convergono al primo piano in un’unica, ampia scala. Zoé abita al secondo piano, quello detto «nobile».
Dopo l’ingresso si apre un’infilata di stanze che s’inseguono l’una dietro l’altra. I saloni, fastosi ma trascurati, hanno il tipico aspetto di lenta e inesorabile decadenza delle case aristocratiche napoletane. Polvere, odore di chiuso, un vago sentore di sporco sono le prime sensazioni che si provano nel penetrarvi.
Le sontuose tappezzerie che ricoprono le pareti vengono da San Leucio, la fabbrica voluta da Ferdinando di Borbone a poca distanza dalla Reggia di Caserta. Ombrate dal tempo e lise in più parti, mostrano la fitta trama dei fili di seta. I mobili ricordano il succedersi delle varie fasi della storia napoletana. I maestosi monetari d’ebano intarsiati di tartaruga o d’avorio testimoniano il gusto solenne e plumbeo importato dai viceré spagnoli; le consolle Luigi XIV, splendenti nelle loro dorature barocche, segnano l’avvento di Carlo III di Borbone e l’elevazione di Napoli a Regno delle Due Sicilie; i secrétaire di mogano in puro stile Impero, i tavolini Retour d’Egypte e le dormeuse neoclassiche evocano il gusto esotico e raffinato del re «usurpatore», Gioacchino Murat, e della moglie Carolina Bonaparte; mentre i più recenti armadi, comò, credenze e vetrine risalenti agli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento, pretenziosi e un tantino grossolani con le loro pesanti modanature e i piedi scolpiti a zampa di tigre o chimera, danno a quella meravigliosa storia illustrata che sono i salotti dei nobili un tocco borghese che attesta la recente entrata di Napoli nell’Italietta sabauda.
L’incontro tra Zoé e Michail avviene nell’ultima stanza, più piccola delle altre. Su una poltroncina rivestita da uno stinto velluto rosso siede la principessa. Accomodate vicino a lei, signore e dame di compagnia. In piedi, uomini in marsina. Aleggia, a voce così bassa da sembrare un mormorio, una conversazione di cui si afferrano parole in varie lingue, essenzialmente in francese, ma anche in russo e in italiano.
Tutto attorno, sulle pareti tappezzate di damasco giallo-oro, arrampicate l’una sull’altra fino alla congiunzione col soffitto, pendono grandi tele di Luca Giordano, Mattia Preti, Francesco Solimena, Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto.
Al centro della stanza c’è una tavola apparecchiata con bottiglie di vodka, antipasti e un samovar dal quale si spande nell’aria un aroma di tè affumicato che sembra rimettere ordine in quel variegato contesto.
La padrona di casa è una principessa russa che in questo momento sta porgendo con innata grazia al mastodontico ospite appena sopraggiunto una tazza di profumatissimo tè nero. Aroma familiare che li unisce e li rende immediatamente amici.
Ma saranno le prime parole pronunciate da Bakunin che, facendola rabbrividire d’emozione, suggelleranno questa amicizia e cambieranno radicalmente e per sempre la vita di Zoé: «Princesse, depuis que j’ai conscience de moi-même, je suis révolutionnaire».
Sergej Pavlovic Sumarokov, uno degli uomini più influenti dell’Impero, donò alla figlia per il compleanno un album di ricordi arrivato fino a noi. È di morbida pelle marrone orlata d’oro, come d’oro sono la piccola corona al centro, le iniziali incise «Z.S.», le foglie e i fiori che circondano il bordo. L’album si apre con una lunga, affettuosa dedica, vergata in una grafia minuta ma energica dal conte, che stranamente si firma: «Un amico». A margine, la data: 7 novembre 1843.
Zoé compiva quel giorno quattordici anni:
San Pietroburgo, 7 novembre 1843
Cara figlia!
Ti dono per ricordo questo album e iscrivo in esso il mio nome e i miei pensieri. Le pagine sono ancora candide com’è pura la tua anima, non sfiorata dai pregiudizi del mondo. Molti desidereranno lasciarvi i propri nomi. Cerca però di far sì che in questo album, così come nella tua anima, siano manoscritti i nomi delle persone rinomate per il loro amore dei genitori, della fede, della patria e del monarca. L’album diventerà pieno di iscrizioni, la tua vita sarà colma di felici eventi, figlia mia, se nel fiore dei tuoi anni, e anche quando i tuoi anni in fiore saranno passati, sfogliando le pagine di questo album e della tua vita trascorsa, troverai – nelle prime – annotazioni e pensieri sulle opere degne di essere imitate e – nell’ultima – scoprirai che anche i tuoi pensieri e i tuoi atti sono stati virtuosi, nobili, elevati e belli. Allora – ne sono sicuro – ti ricorderai di me, tuo padre, e le lacrime di amore e di gratitudine scorreranno sul tuo viso.
Un amico
S. Sumarokov
Non sono soltanto frasi di circostanza quelle che il conte dedica a Zoé. Sergej Pavlovic amava con tenerezza la figlia, che gli somigliava profondamente. Entrambi incarnavano, nel carattere orgoglioso e caparbio, il motto dei Sumarokov: «Avanti tutta». Negli anni successivi la contessina, divenuta principessa Obolenskaja, si rivelò insofferente proprio a quei valori, la fede, la patria, il monarca, a cui il padre si richiamava; abbandonò tutto e intraprese una vita avventurosa. Fu una scelta densa di conseguenze. I rapporti tra padre e figlia si interruppero, ma rimase intatto il forte amore che li univa.
L’album, ricco di pensieri, di versi, dei ricordi delle compagne, di sonetti e di frasi affettuose scritte in russo, francese e italiano, fu dimenticato in Russia da Zoé al momento della sua partenza per l’Italia, ma è giunto fino a noi, nascosto tra le pieghe di un abito al momento della fuga della principessina Obolenskaja, mamma di Mrs Petersen, da San Pietroburgo ormai in mano ai bolscevichi. In una delle ultime pagine, quando Zoé aveva già diciassette anni, trovo un acquerello che la ritrae.
Era stato eseguito da Giulietta, figlia del pittore Felice Schiavoni che lavorò anche per lo zar, a Venezia dove la contessina passava lunghi periodi nel fastoso palazzo nei pressi di piazza San Marco, di proprietà della madre, Alexandrine Panos Maruzzi, appartenente a una famiglia di ascendenze greche e veneziane di favolosa ricchezza. Non so quanto l’acquerello faccia giustizia, ma ciò che più risalta dal ritratto della giovane non è il lungo collo, il volto regolare, il nasino dritto e la bocca lievemente corrucciata, ma sono gli occhi: neri, grandi, pieni di curiosità.
Una giovane donna, appena uscita dall’adolescenza, con un viso intelligente e l’aria leggermente severa che di lì a poco, nel 1847, avrebbe sposato il principe Aleksej Vasilevic Obolenskij. Anche del marito è arrivato fino a noi un quadro, dipinto da Franz Kruger nel 1850, poco dopo il matrimonio, quando era governatore di Varsavia.
Il principe, senatore e generale di artiglieria, che nel 1854 parteciperà alla battaglia di Balaklava, celebrata per la carica di cavalleria guidata dal conte di Cardigan, vi appare rigido e impettito nella divisa di ufficiale della guardia imperiale. Sul volto, dallo sguardo non molto espressivo, spiccano due baffi di lunghezza esagerata che gli attraversano la faccia, con le lunghe punte che svettano nell’aria. Indossa, con solennità, la giacca militare di panno blu, trapuntata dall’oro di passamanerie, galloni, decorazioni, medaglie, bottoni, catene. Sulle spalle ha una pelliccia di volpe rossa e alle mani candidi guanti di pelle.
Nell’osservare questi ritratti, risalta l’aria intensa ed espressiva della contessina rispetto a quella un po’ vuota e pomposa del principe e si avverte la sensazione di una coppia assortita più dalle convenienze che da una reale affinità, come del resto avveniva abitualmente nelle aristocrazie europee.
Ritrovo tracce della principessa anni dopo, nel 1862, quando Zoé era sposata da quindici anni. Pochi mesi prima di diventare la moglie di Lev Tolstoj, Sofia Andreevna Bers passò qualche giorno a Uskjatskoe, la tenuta dagli Obolenskij, non lontana da Pokrovskoe, la casa di famiglia dove era nata. Nel diario la futura contessa ci descrive Zoé circondata da una nidiata di bambini. Mamma tenera e premurosa, ma molto attratta dal teatro.
«Zoja Sergeevna» racconta «chiese a me e a mia sorella di partecipare a una recita che stava allestendo. Avevo diciassette anni e mia sorella diciotto. Prima recitammo in una commedia vecchio stile di cui facemmo parecchie prove, ma che non eseguimmo in pubblico. Ci esibimmo invece più tardi nello Zenit’ba [Il matrimonio] di Gogol’. Nell’autunno di quello stesso anno sposai Lev Nikolaevic.»
In questo breve soggiorno nella casa della principessa, Sofia non percepisce particolari incrinature nel ménage Obolenskij, né ci parla di Zoé come di una appassionata sostenitrice di idee sociali, allora molto diffuse anche nell’aristocrazia.
In realtà la principessa era stanca della vita sfarzosa e brillante ma vuota che, a causa della posizione del marito, prima governatore di Varsavia e poi di Mosca, aveva condotto.
Passava la maggior parte del tempo con i figli nella vasta tenuta di campagna, distante da San Pietroburgo e dalla corte, dedicandosi a quanto di più amava: il teatro, la musica e soprattutto la lettura. Lontana dalla capitale, attendeva con ansia l’arrivo da Parigi della «Revue des deux mondes» e del «Contemporaneo», la rivista di Nekrasov, bastione della critica e della letteratura democratica e, malgrado la censura, non perdeva un numero di «Kolokol», il giornale di ispirazione socialista libertaria che dal 1857 al 1867 Aleksandr Herzen diresse dall’esilio, con il suo inseparabile amico Nikolaj Ogarëv.
Certamente Zoé Sergeevna, come molte donne desiderose di emanciparsi, divorò in gran segreto, perché era proibitissimo, il Che fare? di Cernyševskij, romanzo di culto della sua generazione, ma anche di quelle successive (Lenin diede lo stesso titolo a un suo testo, in omaggio allo scrittore).
Nel libro la sincerità assoluta, il rifiuto di piegarsi a qualsiasi autorità che non fosse la ragione, la guerra a tutte quelle che si potevano chiamare «menzogne convenzionali della società civilizzata» erano le idee che più influenzarono i giovani nichilisti e, senza ombra di dubbio, anche la principessa.
Divenne per lei un’esigenza irrinunciabile essere una donna non più avvolta in quella nube di ipocrisia in cui era stata allevata, in una società per la quale il peccato più grave consisteva nel venire meno alla forma, alle convenzioni.
Zoé avrebbe potuto certamente riconoscersi nelle parole che Tolstoj scrisse anni dopo: «Ogni volta che ho cercato di mostrare i miei desideri più intimi (un desiderio di essere corretto moralmente) incontravo disprezzo e derisione, e ogni volta che cedevo ai desideri più bassi ero incoraggiato ed elogiato».
E mentre, assorta nelle sue letture, maturava dentro di sé la decisione di abbandonare il Paese per poter vivere liberamente secondo le proprie convinzioni, un altro aristocratico aveva già da tempo lasciato la Russia, scegliendo l’ala più ribelle della sinistra europea.
Quando Michail Aleksandrovic Bakunin arriva a Sorrento, da Firenze, nel maggio 1865, è di pessimo umore. Non c’è traccia di quella sua bonomia di carattere sopravvissuta persino ai lunghi anni trascorsi nelle carceri dell’Impero asburgico e poi in quelle dello zar.
È stanco, sfiduciato. Ha lasciato la Toscana, dove non c’era più nessuno disposto a prestargli un soldo, con Antonia, la giovanissima ed enigmatica moglie polacca sposata durante l’esilio in Siberia. Matrimonio giudicato dai contemporanei incomprensibile per la differenza di età, per la bellezza della sposa, per l’assortimento grottesco che risaltava al primo sguardo. Nell’incontrare la piccola e delicata creatura al braccio di questo colosso russo, molti compagni di Bakunin avevano avuto l’impressione di vedere un pony accanto a un elefante!
Alcuni amici gli hanno consigliato un soggiorno estivo a buon mercato nella penisola sorrentina, dove in realtà è attirato soprattutto dalla presenza del fratello Pavel, che vi trascorre qualche settimana di villeggiatura con la giovane moglie Natalja e con Sofia Besobrasova, fidanzata dell’amico Angelo De Gubernatis. Ma più che da sentimenti di amore fraterno, il desiderio di incontrare Pavel è mosso dall’ennesimo tentativo di racimolare un po’ di denaro attingendo all’eredità paterna.
Ad accoglierlo nel giardino di Villa Attanasio c’è la numerosa colonia russa che soggiorna nella pensione, incuriosita dalla leggenda che aleggia attorno a questo rivoluzionario, circonfuso da un’aura romantica per la sua fama di pericolosissimo sovversivo. È stato amico di Belinskij, Herzen, Ogarëv, George Sand, Proudhon, e compagno fraterno di Turgenev che lo ha mantenuto negli anni passati assieme a Berlino. Arrestato in Germania nel 1849 per avere capeggiato l’insurrezione di Dresda, viene rinchiuso in Austria, condannato a morte e poi trasferito e imprigion...