Per tutta la notte si udiva l’eco delle esplosioni e per tutto il giorno il fuoco dell’artiglieria. Nell’intera Europa orientale, ad annunciare l’arrivo dell’Armata Rossa furono il frastuono delle bombe, il crepitare delle mitragliatrici, il rullare dei carri armati, il rombare dei motori e gli edifici in fiamme. All’avvicinarsi della linea del fronte la terra tremava, i muri vibravano, i bambini gridavano. Poi tutto cessava.
La fine della guerra, ovunque e in qualunque momento giunse, portò con sé un improvviso e inquietante silenzio. «Una notte troppo tranquilla» scrisse un’anonima cronista del termine del conflitto a Berlino. La mattina del 27 aprile 1945 uscì dal portone della sua casa e non vide nessuno: «Neppure un civile. Per le strade i russi se ne stanno ancora fra di loro. Ma in ogni casa si sussurra e si trema. Ci fosse qualcuno capace di rappresentarlo, questo sotterraneo mondo della metropoli, nascosto per la paura».4
La mattina del 12 febbraio 1945, il giorno in cui l’assedio della città si concluse, un impiegato dello Stato ungherese fu testimone del medesimo silenzio per le strade di Budapest. «Mi recai nel quartiere del Castello, non un’anima da nessuna parte. Percorsi via Werbőczy. Nient’altro che cadaveri e rovine, carri pieni di rifornimenti e carretti … Andai in piazza Szentháromság e decisi di dare un’occhiata al Consiglio, nel caso ci fosse qualcuno. Deserto. Tutto sottosopra e non un’anima…»5
Anche Varsavia, una città già distrutta prima della fine della guerra – gli occupanti nazisti l’avevano rasa al suolo dopo la rivolta dell’autunno –, piombò nel silenzio quando, il 16 gennaio 1945, l’esercito tedesco finalmente si ritirò. Władysław Szpilman, fra i pochissimi che avevano trovato rifugio tra le rovine, notò il cambiamento. «Seguì il silenzio» scrisse nel suo libro di memorie, Il pianista, «un silenzio così totale che neppure Varsavia, una città ormai morta da tre mesi, aveva mai conosciuto. Non sentivo più i passi delle sentinelle fuori dell’edificio. Non capivo cosa stesse accadendo.» La mattina seguente «il silenzio fu infranto da un rumore forte e risonante. L’ultima cosa che mi sarei aspettato di sentire»: era arrivata l’Armata Rossa e gli altoparlanti stavano trasmettendo, in polacco, la notizia della liberazione della città.6
Fu questo il momento chiamato a volte «Ora Zero», Stunde Null: la fine della guerra, la rotta della Germania, l’arrivo dell’Unione Sovietica, il momento in cui i combattimenti giunsero al termine e ricominciò la vita. La maggior parte delle storie della presa del potere comunista in Europa orientale inizia in questo preciso momento, ed è logico che sia così.7 Coloro che vissero questo passaggio di potere sentirono l’Ora Zero come una svolta: qualcosa di molto concreto finiva, e qualcosa di molto nuovo iniziava. Da quel momento, si dissero in molti, tutto sarebbe stato diverso. E lo fu.
Ma, se è logico dare inizio a qualunque storia della presa del potere comunista in Europa orientale con la fine della guerra, risulta anche, per certi versi, estremamente fuorviante. Nel 1944 o 1945 gli abitanti della regione non si trovavano di fronte a una tabula rasa, e non partivano da zero. Né emergevano dal nulla, senza precedenti esperienze, pronti a ricominciare da capo. Essi uscirono dagli scantinati delle loro case distrutte, o dalle foreste dove avevano vissuto come partigiani, o dai campi di lavoro in cui erano stati imprigionati e, se erano abbastanza sani, affrontarono lunghi e difficili viaggi per tornare a casa. Non tutti, inoltre, dopo la resa dei tedeschi, smisero di combattere.
Uscendo carponi dalle rovine, essi non si trovarono di fronte un territorio vergine, bensì distruzioni. «La guerra finì come finisce un tunnel» scrisse la memorialista ceca Heda Kovály: «Vedevi la luce davanti a te da molto lontano, un bagliore che si faceva sempre più intenso, e il suo fulgore, per te rannicchiata lì nel buio, sembrava tanto più abbagliante quanto più tempo occorreva per raggiungerlo. Ma quando finalmente il treno sbucò alla radiosa luce del sole, tutto ciò che vedesti fu una terra desolata, disseminata di erbacce e sassi, e un mucchio di rifiuti».8
Le fotografie dall’Europa orientale dell’epoca mostrano scene apocalittiche. Città rase al suolo. Ettari di macerie, paesi bruciati e, dove un tempo c’erano case, rovine carbonizzate e fumanti. Grovigli di filo spinato, resti dei campi di concentramento, di lavoro e per prigionieri di guerra; terreni spogli, sventrati dai cingoli dei carri armati, senza alcun segno di attività agricole, di allevamento, di vita di qualunque genere. Nelle città distrutte di recente si sentiva nell’aria il fetore dei cadaveri. «In tutte le descrizioni ho sempre trovato l’espressione “dolciastro fetore cadaverico”. Mi pare che l’aggettivo “dolciastro” sia impreciso e del tutto inadeguato» scrisse una sopravvissuta tedesca. «Questa esalazione non mi sembra affatto un odore; piuttosto qualcosa di solido, di viscoso, un impasto d’aria, un’esalazione che ristagna all’altezza del viso e delle narici; troppo ferma e impenetrabile per poter essere inspirata. Da togliere il fiato. Ti respinge come un pugno.»9
Le sepolture provvisorie erano ovunque, e la gente camminava per le strade con cautela, come si attraversa un cimitero.10 Finché ebbero inizio le esumazioni e, dai cortili e dai parchi cittadini, i cadaveri furono portati in fosse comuni. Le nuove sepolture erano spesso accompagnate da funerali e cerimonie, anche se, a Varsavia, una fu clamorosamente interrotta. Nell’estate del 1945 una processione funebre stava lentamente percorrendo le vie della città quando le persone in lutto, vestite di nero, videro qualcosa di straordinario: «Un tram di Varsavia, rosso e sferragliante», il primo a circolare in città dalla fine della guerra. «Sui marciapiedi i pedoni si fermarono, altri si misero a corrergli accanto battendo le mani e salutandolo a gran voce. Cosa straordinaria, anche il corteo funebre si fermò: coloro che accompagnavano il morto, contagiati dallo stato d’animo generale, si voltarono verso il tram e iniziarono anch’essi ad applaudire.»11
Anche questo era tipico. A volte i superstiti sembravano presi da una strana euforia. Era un sollievo essere vivi; al dolore si mescolava la gioia, e il lavoro, i commerci, la ricostruzione iniziarono immediatamente, spontaneamente. Nell’estate del 1945 Varsavia era un alveare brulicante di attività. Come scrisse Stefan Kisielewski: «Fra le rovine delle strade c’è una confusione mai vista prima. Il commercio: vivace. Il lavoro: in rapida crescita. Il senso dell’umorismo: ovunque. La folla, traboccante di vita, inonda le strade; nessuno penserebbe che si tratta delle vittime di un immenso disastro, di gente a malapena uscita da una catastrofe, o che vive in condizioni estreme, disumane…».12 In uno dei suoi romanzi, Sándor Márai descrisse Budapest in questo periodo:
Quanto restava di una città e di una società viveva di nuovo, con una gioia così sfrenata e testarda, con mille trucchi ed espedienti, come se non fosse successo nulla … Lungo i viali del centro di Pest, dentro ai portoni, si trovava ormai ogni ben di Dio, cibarie, articoli di profumeria, vestiti, scarpe, tutto quello che si poteva immaginare … E monete d’oro dell’epoca di Napoleone, morfina, strutto … Gli ebrei erano sbucati fuori dalle case marchiate con la stella gialla e nel giro di un paio di settimane a Budapest, in mezzo alle carcasse dei cavalli e ai cadaveri degli uomini, tra le macerie delle case, si poteva già contrattare il prezzo di pesanti stoffe inglesi, profumi francesi, liquori olandesi, orologi svizzeri…13
Questo entusiasmo per il lavoro e la rigenerazione sarebbe durato molti anni. Il sociologo britannico Arthur Marwick avanzò una volta l’ipotesi che, a fornire ai tedeschi un incentivo per ricostruire, per ritrovare un senso di orgoglio nazionale, potesse essere stata l’esperienza del fallimento nazionale. A contribuire al boom del dopoguerra, scrisse, fu forse la dimensione stessa del crollo della nazione: dopo l’esperienza della catastrofe economica e personale, i tedeschi si gettarono nella ricostruzione.14 Ma questa spinta a ricostruire, a tornare «normali», non riguardò solo la Germania, dell’Est e dell’Ovest. Polacchi e ungheresi, in memorie e conversazioni sul dopoguerra, parlano ripetutamente di come fossero alla disperata ricerca di istruzione, un lavoro normale, una vita senza violenze e sconvolgimenti continui. I partiti comunisti erano pronti a trarre profitto da questo anelito alla pace.
In Europa orientale, tuttavia, dove la violenza s’era dispiegata su una scala superiore a qualunque cosa la metà occidentale del continente avesse conosciuto, i danni alle proprietà erano più facili da riparare di quelli demografici. Durante il conflitto, la regione aveva conosciuto il peggio della follia ideologica tanto di Stalin quanto di Hitler. Entro il 1945 il territorio compreso fra Poznań a ovest e Smolensk a est era stato per la maggior parte occupato non una, ma due o addirittura tre volte. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 1939, Hitler l’aveva invaso da ovest occupando la Polonia occidentale, e Stalin da est occupando la Polonia orientale, gli Stati baltici e la Bessarabia. Nel 1941 Hitler aveva invaso a sua volta gli stessi territori da ovest. Nel 1943 la ruota era tornata a girare ed era stata l’Armata Rossa, da est, a marciare di nuovo sulla medesima regione.
Nel 1945, in altre parole, l’intera Europa orientale era stata percorsa dai sanguinari eserciti e dalle brutali polizie segrete non di uno, ma di due Stati totalitari, il che aveva provocato ogni volta profondi cambiamenti etnici e politici. Per citare un solo esempio, la città di Lwów era stata occupata due volte dall’Armata Rossa e una volta dalla Wehrmacht. Dopo la fine della guerra fu chiamata L’viv, non Lwów, non faceva più parte della Polonia orientale, bensì dell’Occidente dell’Ucraina sovietica, e i polacchi e gli ebrei che l’abitavano prima del conflitto erano stati uccisi o deportati e sostituiti da ucraini delle campagne circostanti.
Rispetto al resto del continente, l’Europa orientale, insieme all’Ucraina e agli Stati baltici, fu anche teatro della maggior parte delle uccisioni per motivi politici. «Hitler e Stalin giunsero al potere a Berlino e a Mosca» scrisse Timothy Snyder in Terre di sangue, storia ineguagliata delle stragi di massa dell’epoca, «ma le loro visioni di trasformazione riguardavano soprattutto le terre di mezzo.»15 Stalin e Hitler nutrivano il medesimo disprezzo per l’idea stessa di sovranità nazionale applicata a una qualunque delle nazioni dell’Europa dell’Est, e si adoperarono congiuntamente per eliminarne le élite. I tedeschi consideravano gli slavi sottouomini, non molto al di sopra degli ebrei, e, nei territori fra Sachsenhausen e Babi Yar, non ci pensarono due volte a ordinare arbitrari assassini per strada, esecuzioni pubbliche di massa o l’incendio di interi paesi per vendicare un solo nazista morto. L’Unione Sovietica, dal canto suo, giudicava i vicini occidentali roccaforti capitaliste e antisovietiche, la cui stessa esistenza costituiva per l’URSS una sfida. Nel 1939, e di nuovo nel 1944 e 1945, l’Armata Rossa e l’NKVD arrestarono, nei territori da poco conquistati, non soltanto nazisti e collaborazionisti, ma chiunque suscettibile in teoria di opporsi all’amministrazione sovietica: socialdemocratici, antifascisti, uomini d’affari, banchieri e commercianti, spesso le stesse persone prese di mira dai nazisti. Se in Europa occidentale non mancarono vittime civili, e accadde che soldati britannici e americani si rendessero responsabili di furti, maltrattamenti e soprusi, per la maggior parte quelli che essi cercavano di uccidere erano i nazisti, non i potenziali leader delle nazioni liberate. E, per la maggior parte, trattarono i capi della resistenza con rispetto, non con diffidenza.
Era a est, inoltre, che i nazisti avevano perseguito con la massima energia l’Olocausto e creato la maggior parte dei ghetti e dei campi di concentramento e di sterminio. Snyder osserva che, all’arrivo di Hitler al potere, nel 1933, gli ebrei costituivano meno dell’1 per cento della popolazione tedesca, e molti di essi riuscirono a fuggire. La visione hitleriana di un’Europa «libera dagli ebrei» divenne realizzabile soltanto quando la Wehrmacht invase la Polonia, la Cecoslovacchia, la Bielorussia, l’Ucraina, gli Stati baltici e, infine, l’Ungheria e i Balcani: lì viveva la maggior parte degli ebrei d’Europa. Dei 5,4 milioni di ebrei che morirono nell’Olocausto, la grande maggioranza veniva dall’Europa orientale. E la maggior parte degli altri fu portata lì per essere uccisa. La decisione di trasferire gli ebrei di tutta Europa all’est per procedere alla loro esecuzione era strettamente legata al disprezzo in cui i nazisti tenevano tutti gli europei orientali. Lì, in una terra di sottouomini, era possibile fare cose disumane.16
Soprattutto, fu in Europa orientale che nazismo e comunismo sovietico entrarono in conflitto. Se essi avevano iniziato la guerra da alleati, Hitler non aveva mai cessato di desiderare di muovere contro l’URSS per distruggerla e, dopo l’invasione tedesca, Stalin promise di fare altrettanto. Gli scontri fra l’Armata Rossa e la Wehrmacht, quindi, furono più feroci e sanguinosi a est di quelli che ebbero luogo più a occidente. I soldati tedeschi temevano realmente le «orde» bolsceviche, sulle quali avevano sentito tante terribili storie, e, all’avvicinarsi della fine del conflitto, combatterono contro di esse con tutta la forza della disperazione. Particolarmente profondo era il loro disprezzo per i civili, e inesistente qualunque rispetto per la cultura e le infrastrutture locali. Un generale tedesco, contravvenendo all’ordine di Hitler, lasciò in piedi Parigi per la considerazione sentimentale che nutriva per la città; altri generali tedeschi, invece, diedero completamente alle fiamme Varsavia e distrussero...