Porcelain
eBook - ePub

Porcelain

Storia della mia vita

  1. 444 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Porcelain

Storia della mia vita

Informazioni su questo libro

Se c'era uno che difficilmente avrebbe potuto sfondare come DJ e musicista nei club newyorkesi a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, quello era Moby. Era la New York del Palladium, del Mars, del Limelight e del Twilo, un'epoca edonistica e sfrenata in cui la dance era ancora sostanzialmente un fenomeno underground, radicato soprattutto nella comunità operaia afroamericana e latinoamericana. E poi c'era Moby, che oltre a essere un ragazzino bianco pelle e ossa proveniente dal cuore del Connecticut era un cristiano devoto, vegano e astemio. Quello è stato forse l'ultimo periodo in cui un artista poteva vivere con nulla a New York: l'era dell'AIDS e del crack, ma anche di un sottobosco culturale provocatorio e festoso. Non senza complicazioni, Moby trovò la sua strada, una strada accidentata e lastricata di eccessi sciagurati – ma, col senno di poi, anche spassosi – che lo avrebbe portato a un successo quanto mai effimero. Ecco perché sul volgere del decennio Moby contemplava già la fine, della carriera come di altre dimensioni della sua vita, una sensazione che incanalò in quello che pensava sarebbe stato il suo canto del cigno, il suo addio, l'album che in realtà era destinato a segnare l'inizio di una nuova e sbalorditiva fase, il mega-bestseller «Play».

Generoso quanto inesorabile nel raccontare un mondo perduto e il ruolo che vi ricopre il suo protagonista, Porcelain è al contempo il ritratto di una città e di un'epoca e una riflessione profondamente intima sul momento più carico d'ansia della vita di ciascuno di noi, quello in cui siamo soli e scommettiamo su noi stessi senza avere la minima idea di come andrà a finire, con il terrore di essere a un passo dal venire scaraventati fuori dalla porta. La voce di Moby trasuda sincerità, ironia e soprattutto una passione incrollabile per la sua musica, una passione che lo ha aiutato a restare a galla in acque molto agitate.

Porcelain è la storia di un successo raggiunto e perduto, amato e odiato. È la storia di un artista che trova le persone giuste e il suo posto nel mondo, e che quando crede di averli persi riesce, in preda alla disperazione e convinto che sia finita, a creare un capolavoro. Il racconto acuto, tenero, divertente e straziante del percorso che porta da una vita di periferia povera e alienata a una di splendore, squallore e successo nella scena dei club newyorkesi. Una rara autobiografia musicale capace di raccontare un'intera epoca e persino una dimensione eterna della condizione umana. E allora play.

Domande frequenti

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Parte quarta

Alcol, che felicità

1995-1997
XXXVI

Migliaia di giacche di pelle

Un sabato mattina tornai a casa alle quattro, completamente sbronzo. Per ricordarmi che io e Sarah ci eravamo lasciati definitivamente misi su «Damaged» dei Black Flag, quindi presi un pennarello e iniziai a scrivere NON CHIAMARLA sull’interno della porta d’ingresso. I primi NON CHIAMARLA a metà altezza erano a caratteri cubitali, ma arrivato al tredicesimo le lettere si erano rimpicciolite. Finii steso per terra a scrivere sulla base della porta.
Mi rialzai per ammirare la mia opera. Avevo le dita coperte d’inchiostro nero e una porta decorata da cima a fondo con più di cento NON CHIAMARLA. Ora che ci eravamo lasciati, Sarah andava a letto con Matt, un ventunenne figo che lavorava al negozio di alimenti naturali dove compravo le lenticchie con lei. E io morivo di gelosia.
Matt era tutto ciò che io non ero: alto, giovane, con una meravigliosa chioma bionda da surfista, era sexy persino con il grembiule verde del Commodities Natural Market. Ogni volta che ci andavo a prendere il latte di soia, mi si attorcigliava lo stomaco. Non volevo più stare con Sarah, ma non volevo nemmeno che lei stesse con un altro. O quanto meno non volevo saperlo, specie se si trattava di un tipo slanciato con la chioma fluente.
Avrei potuto reagire nel modo più razionale, servendomi nell’altro negozio di alimenti naturali, tre isolati più in là. Avrei potuto ricordarmi che a lasciare Sarah ero stato io, un musicista ventinovenne ingaggiato da una major, mentre Matt non era che un commesso fannullone ventunenne. Invece mi ero convinto di essere un fallito, e che fosse stata Sarah a respingermi.
Da quando avevamo rotto, era finito l’atroce imbarazzo delle colazioni sul vecchio tavolo da cucito di mia madre. Dai debilitanti attacchi di panico ai debilitanti attacchi di gelosia: non era un passo avanti?
E dunque uscivo di casa, bazzicavo i bar dell’East Village e flirtavo con le turiste. Pur essendo il ritratto della disperazione ogni tanto riuscivo a portarmene a casa una, ma non appena vedevano la folle sequenza di NON CHIAMARLA sulla porta se la davano a gambe. Risultato: ogni sera, ubriaco, mi trascinavo sul letto a soppalco che avevo condiviso con Sarah. Lei era dall’altra parte della città a scopare con il suo giovane Adone biondo, io ero solo con una vecchia trapunta cucita da mia madre negli anni Settanta.
Eppure non mi davo per vinto. Sì, potevo competere con Matt, il dio biondo. Ero stempiato, ma potevo sempre tingermi quel poco che restava. Potevo sbarazzarmi dei Wrangler di Kmart e comprarmi i pantaloni e le magliette da raver che indossavano Matt e i suoi amici cool. Chiamai Jenna e le chiesi di aiutarmi a diventare Matt.
«Vuoi che ti aiuti a ossigenarti i capelli e a comprare vestiti rave alla moda? Ma almeno il pranzo me lo offri?»
Jenna abitava nel Lower East Side e faceva la segretaria a «Rolling Stone». Era carina, con i capelli biondi lunghi fino alle spalle e tatuaggi floreali attorno ai polsi. Mi passò a prendere e mi accompagnò al salone di un suo amico. Pioveva e faceva freddo, e la neve era raccolta in mucchi grigi e marroni sul marciapiede della 9th Street.
Perdevo i capelli, ma non lo accettavo. Avevo semplicemente una fronte alta, che per qualche ragione diventava sempre più alta. Prima o poi si sarebbe fermata, senza alcun dubbio. La perdita dei capelli era una punizione karmica che toccava ad altri, ma io ero una persona buona, seppur confusa. Pertanto – così avevo deciso – non avrei mai perso i capelli.
Il minuscolo salone di Abi, l’amico di Jenna, aveva le pareti verniciate d’oro e di nero e quattro poltrone di fronte ad altrettanti lavandini. Dallo stereo usciva musica house, mentre in un angolo una donna annoiata leggeva una rivista europea di moda fumando una sigaretta. Snello, iraniano e gay, Abi aveva le dita che odoravano di tabacco. Mi sedetti sulla poltrona e lui mi mise la pettorina attorno al collo. «Vuoi ossigenarli?» chiese passandomi le dita fra i pochi capelli. «Sei sicuro? Sono molto, ehm, deboli.»
«Sì, sbianchiamoli.»
Abi mi piegò all’indietro sopra il lavandino, quindi passò un’ora a ossigenarmi e lavarmi i capelli sempre più radi.
Una volta al liceo avevo provato a tingermi i capelli da solo, con l’unico risultato di riempirmi la testa di macchie arancioni e procurarmi lesioni al cuoio capelluto che erano guarite dopo una settimana. Ecco perché stavolta mi ero rivolto a un professionista.
Dopo lo sbiancamento, lo shampoo e la rasatura del collo, Abi girò la poltrona verso lo specchio. Vidi uno sconosciuto pallido e biondo. «Che ne dici?» mi chiese.
«Ho i capelli biondi.»
«Ti piacciono?»
«Sì. Non posso crederci, ho i capelli biondi.»
Abi me li sistemò, facendomi sentire coccolato. Mi aveva aiutato a diventare più attraente e adorabile.
«Quanto ti devo?» gli domandai.
«Oh, nulla, tesoro, basta che continui a fare dischi» rispose lui magnanimo. (Guarda caso, sei mesi dopo il salone fallì.)
Gli allungai quaranta dollari di mancia, poi io e Jenna tornammo fuori sotto la pioggia gelida e ci avviammo giù per la 2nd Avenue, fino a St. Mark’s Place. Arrivati da Trash and Vaudeville, entrammo al pianterreno.
Ai tempi del liceo, St. Mark’s Place era il mio paradiso. In quell’isolato lurido e schifoso si concentravano negozi di dischi e di vestiti, librerie, senzatetto, musicisti new wave e punk, spacciatori, pessimo cibo e bellissime ragazze new wave. Il tratto settentrionale di St. Mark’s aveva ospitato i party di Andy Warhol, il trampolino di lancio dei Velvet Underground. Maleodorante, caotico e sinistro, fra il 1980 e il 1988 aveva rappresentato il centro di New York per me e i miei amici.
Poi avevamo voltato pagina, rendendoci conto che forse St. Mark’s Place non era l’epicentro della new wave e del punk, ma una rivendita di pipe per hashish e magliette ironiche per turisti.
Sin dagli anni Settanta, i punk di periferia andavano da Trash and Vaudeville per rifornirsi di cinture borchiate di pelle, magliette dei New York Dolls e dei Misfits, pantaloni bondage e jeans neri superattillati. Dentro il negozio sembravano tutti aspiranti tossici, ma Jenna mi spiegò che – sorprendentemente – avevano anche indumenti rave. A prescindere dall’anno in cui eravamo, dalla mia età e dal mio status, entrare da Trash and Vaudeville mi faceva sentire un liceale sfigato. La ventitreenne dietro il bancone con i capelli corvini e la maglietta dei Bauhaus probabilmente abitava con la zia nel Queens, ma io desideravo comunque la sua approvazione. Volevo andare da lei e dirle: «Potrò anche non sembrarti cool a prima vista, ma da ragazzo ho suonato in vari gruppi punk e ho tutti i dischi dei Bauhaus, perciò, ti prego, puoi considerarmi cool? Significherebbe molto per me».
Il negozio non era cambiato dal 1981: soffitti bassi, scaffali su scaffali di pantaloni bondage, jeans neri attillati, magliette punk, vecchi completi rockabilly e migliaia di giacche di pelle. Trash and Vaudeville era la mia madeleine proustiana: l’odore di pelle, lacca e amianto mi riportava dritto al 1981, quando giravo con cinque dollari, un biglietto del Metro-North in tasca e una borsa marrone con dentro un album dei Public Image Limited usato che avevo comprato di fianco a casa.
Ora però era il 1995, e io ero lì per acquistare dei vestiti cool da raver. In quanto esponente della scena rave sin dai tardi anni Ottanta avrei già dovuto averne un armadio pieno, e invece, se da una parte sapevo dove procurarmi dischi e articoli elettronici, dall’altra non avevo mai capito quale fosse il posto migliore per l’abbigliamento. Inoltre i jeans di Kmart costavano poco, così avevo stabilito che possederne un paio da venti dollari era più virtuoso che averne uno da ottanta. Qualcuno che mi regalava dei vestiti cool c’era, perciò avevo dei pantaloni da raver di qualità ragionevole, due magliette di Liquid Sky e una vecchia maglietta Freshjive. Nient’altro: il resto del guardaroba consisteva in jeans e magliette di Kmart. Sembravo il roadie di un mediocre gruppo indie del Midwest.
Ma da quel giorno cambiava tutto. Avrei comprato vestiti cool da sfoggiare con la mia chioma bionda cool, salvandomi così dall’oblio dell’insignificanza. Avrei dimostrato a Sarah che potevo essere attraente come il semidio Matt e che lasciarmi era stato un errore. Sì, d’accordo, l’avevo lasciata io, ma questi erano dettagli. Io e Jenna prendemmo qualche paio di pantaloni oversize e delle magliette alla moda. Non li provai nemmeno, sapevo che erano perfetti. Siccome volevo fare colpo sulla cassiera cool, aggiunsi una T-shirt degli Agnostic Front alla pila di vestiti.
I Vatican Commandos, il gruppo punk in cui suonavo al liceo, avevano sfiorato il successo in un’unica occasione: nel 1982, quando gli Agnostic Front, in una delle loro prime performance, avevano aperto per noi a Bridgeport, nel Connecticut. Gli Agnostic Front erano destinati a diventare superstar del punk newyorkese; i Vatican Commandos a sciogliersi a metà anni Ottanta con l’inizio del college. Uno di loro fondò una media company, un altro diventò neurochirurgo (dico sul serio).
Speravo che la cassiera notasse la maglietta e si innamorasse di me, invece batté i vestiti, li infilò in due sacchetti e mi congedò. Con ogni evidenza, non era la mia anima gemella. L’amore le si era presentato a cuore aperto, stempiato e colmo delle migliori intenzioni, ma lei l’aveva ignorato e si era girata verso un poster dei Cro-Mags appeso alla parete.
Io e Jenna ci incamminammo sotto la pioggia verso Angelica Kitchen, che era rimasto il mio ristorante vegano preferito. Nel 1985, quando ci ero andato per la prima volta, non sapevo nemmeno come si pronunciasse «vegan». Secondo il mio amico Eddie, che abitava a New York ed era un tipo cool, si diceva «vigan». Secondo il sottoscritto, che abitava nel Connecticut e non era cool, si diceva «vegian», come vegetable e vegetarian.
...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Porcelain
  4. Prologo. Area parcheggio. 1976
  5. Parte prima. Mecca proibita. 1989-1990
  6. Parte seconda. Moby Go!. 1990-1992
  7. Parte terza. Distorsione. 1992-1995
  8. Parte quarta. Alcol, che felicità. 1995-1997
  9. Parte quinta. La carriera di un libertino. 1997-1999
  10. Postfazione
  11. Copyright