«We are very sorry, ci dispiace molto, ma in Europa dobbiamo proprio entrare.» Quasi con rammarico e tuttavia con tono risoluto, Maxima ha concluso così la nostra prima intervista, in un afoso pomeriggio dell’agosto 2015.
Era stesa a riposare all’ombra di un albero, in un piccolo parco di Belgrado; intorno a lei stavano seduti a conversare alcuni uomini, qualche donna e un bambino. Mi ero avvicinata per chiedere da quale Paese provenissero e quale fosse la loro storia. Tra gli adulti, però, nessuno parlava inglese. Così mi hanno indicato lei, l’unica in grado di comunicare.
Nelle foto scattate sull’erba quel giorno, la riconosco in mezzo ad altre due ragazze. Ma la sua espressione è diversa da quella che avrei visto, tre mesi dopo, in Olanda. Nelle immagini del parco, il suo sguardo mostra tutta la stanchezza, lo stravolgimento e la tensione delle settimane precedenti. Eppure, fin dalle battute iniziali, anche in quell’incontro Maxima ha subito dimostrato di possedere uno spirito vivace e determinato.
Capelli raccolti da un elastico sopra la testa, tratti del viso dolci e ancora (forse per poco) infantili, mi ha stretto la mano, si è messa a sedere e ha cominciato a raccontare il suo viaggio, le diverse tappe, le difficoltà incontrate lungo il cammino e i suoi obiettivi. «Questi terribili momenti che stiamo vivendo spariranno, verranno dimenticati non appena saremo giunti a destinazione» mi ha detto, sicura.
Ha risposto a tutte le mie domande con una tale energia e con una tale risolutezza che alla fine, mentre mi allontanavo dal parco, ricordo di avere pensato che nessuno avrebbe potuto impedire a quella ragazzina di arrivare dove voleva.
«Stiamo facendo qualche telefonata. Aspettiamo che ci richiamino. Forse partiremo nelle prossime ore, ancora non lo sappiamo» mi aveva detto mentre ci salutavamo. Eppure, il giorno dopo e anche quello successivo l’ho trovata di nuovo lì, addormentata all’ombra, con le braccia e le gambe abbandonate sul prato, come fossero pesantissime, esausta e in attesa della chiamata del trafficante incaricato di organizzare l’ultima tappa.
Sono trascorse sei settimane da quell’incontro prima che decidessi di mettermi a cercarla online e prima di riuscire a rintracciarla attraverso un social network. Si trovava in Olanda, sana e salva, già a casa della vecchia amica di sua madre.
Altre interviste sono seguite, svolte a distanza. Fino a quando l’ho vista sbucare da dietro una fila di case basse, raggiungere sotto la pioggia la fermata dell’autobus da cui ero appena scesa, sorridere, esclamare: «Non ci posso credere che ci rincontriamo!» e abbracciarmi, come si abbracciano gli amici di famiglia rimasti lontani per troppo tempo. Mi ha accompagnato nella sua nuova casa olandese dove, con calma, per qualche ora al giorno, abbiamo registrato una lunghissima intervista.
Mettendo piede in quell’abitazione, ho avuto la precisa sensazione che tutto ciò che era accaduto dopo l’incontro nel parco di Belgrado, dall’idea di questo libro fino alla mia visita in Olanda, fosse semplicemente la conseguenza della sua energia risoluta. Come se, entrando nell’orbita di questa ragazzina così giovane eppure così coraggiosa e determinata, non potesse che finire in questo modo.
Seduta sul divano dell’elegante salone di zia Layla, nel viavai delle persone che oggi compongono la sua nuova famiglia, mi ha raccontato la sua storia, partendo dal principio.
«Due settimane fa l’attenzione era rivolta a Damasco, ora è diretta su Aleppo, dove si registra una considerevole concentrazione di mezzi militari e dove abbiamo ragione di credere che la grande battaglia stia per cominciare»: è il 2 agosto 2012 e il capo delle missioni di pace delle Nazioni Unite, Hervé Ladsous, lancia l’allerta. Dopo sedici mesi dall’inizio della rivolta contro il presidente Bashar al-Assad, la guerra era arrivata, violenta, anche alle porte della città di Maxima.
«Da ieri notte il rombo dei bombardamenti non si è più fermato. Per la prima volta sembra che Aleppo si sia trasformata in un campo di battaglia» raccontava, a fine luglio, una donna raggiunta al telefono nella sua abitazione dall’agenzia Reuters.
Nello stesso periodo, un giovane, colto di sorpresa dalla rapidità con cui gli scontri dilagavano in diversi quartieri, confidava al corrispondente del «Washington Post»: «Il giorno prima vado al lavoro e ascolto le notizie dei combattimenti in giro per il Paese e il giorno dopo mi ritrovo nascosto nel bagno di casa, con la mia famiglia e la mia nipotina che piange disperata per il rumore delle bombe».
È stato una mattina dell’agosto 2012 che dalla finestra della sua camera Maxima ha visto la guerra entrare nel suo quartiere, sotto forma di enormi nubi di cenere e pulviscolo di calcinacci sbriciolati, mentre la cortina di fumo che si alzava verso il cielo nascondeva gli elicotteri e gli aerei da combattimento che sorvolavano la zona.
In decine, forse centinaia di video amatoriali caricati online durante quelle settimane d’estate si vedono le bombe cadere sulle case dei civili, vengono inquadrati morti e feriti, si assiste alla conta dei danni fra le macerie nei sobborghi più colpiti, come quelli di Salaheddine, Furqan e Al-Sakhour.
In alcuni filmati compaiono anche scorci del quartiere di Maxima. In uno, datato 12 agosto, è inquadrato l’ultimo piano di un palazzo: è sventrato, la parete esterna è sgretolata e un buco enorme prodotto da un colpo di mortaio ha cancellato il balcone e ampia parte di una stanza. Al piano di sotto, i panni stesi ad asciugare si agitano al vento e, dalla casa di fronte, si affacciano i vicini sotto shock.
In altri video, file di palazzoni disabitati appaiono interamente ricoperti da uno strato spesso di polvere e cenere che dà indistintamente a tutti la stessa tinta grigiastra, in un cupo colpo d’occhio reso ancora più lugubre dalle grandi tende da sole a brandelli, sfilacciate e penzolanti dai terrazzi.
Eppure, durante il primo anno di rivolte, Aleppo era rimasta quasi del tutto estranea alle grandi manifestazioni e agli scontri armati che avevano sconvolto molte altre zone del Paese a partire dal marzo 2011. La città, importante centro industriale e commerciale in cui risiedevano due milioni e mezzo di abitanti, era rimasta sotto il controllo del governo.
Quasi quotidianamente si erano registrate manifestazioni di studenti, che però costituivano un’eccezione rispetto al coinvolgimento del resto della popolazione della città, in gran parte per il fatto che l’ateneo attraeva a sé giovani provenienti da una vasta area, in particolare dall’irrequieta, vicina provincia di Idlib, dove si stavano svolgendo alcuni dei più feroci scontri tra le forze governative e l’opposizione. All’inizio del maggio 2012 le proteste universitarie erano state soffocate dalle autorità con il pugno di ferro: gas lacrimogeni, scontri e raid nei dormitori studenteschi avevano provocato morti e feriti tra i manifestanti.
Ma è a luglio che la guerra si è presentata per la prima volta in città: è arrivata al seguito dell’offensiva lanciata dai ribelli che avevano l’obiettivo di cacciare le forze governative. Di quei giorni Edward Dark, columnist di «Middle East Eye» con base ad Aleppo, scriveva: «Quartieri della città come Al-Sakhour e Salaheddine hanno visto pesanti scontri, mentre i ribelli della Free Syrian Army continuano ad arrivare in massa dalle campagne che hanno avuto sotto il loro controllo per mesi».
Le forze fedeli al presidente Al-Assad hanno reagito con un massiccio dispiegamento di mezzi militari: «Gli elicotteri hanno sorvolato i cieli per tutta la giornata sparando al suolo. Prolungati colpi di mortaio hanno martellato i quartieri più ostili» riferiva il 24 luglio Ian Pannell, corrispondente della BBC, che si trovava sul posto. «Ma è stato ciò che è accaduto nel tardo pomeriggio a mostrare in tutta la sua rilevanza il serio rischio corso dal governo di perdere terreno in quella che costituisce la città più grande della Siria e la sua capitale economica: prima è giunto l’inconfondibile suono finora rimasto assente in questo conflitto, il rombo dei jet da combattimento. Poi abbiamo osservato gli aerei passare, bombardare e mitragliare a bassa quota le posizioni dei ribelli.» Per la prima volta in questa guerra, dunque, quell’estate ad Aleppo il governo aveva utilizzato i jet per colpire distretti residenziali.
Un abitante di Aleppo di nome Salam raccontava nelle stesse ore che le diverse zone della città vivevano differenti gradi di pericolo. Nei dintorni del suo quartiere, diceva, si poteva ancora uscire di casa, andare a comprare il pane, del cibo e qualsiasi altra cosa di cui ci fosse bisogno. Ma in altre zone c’era il caos, la gente non poteva lasciare la propria abitazione nemmeno per rifornirsi dei viveri necessari. Il sentimento condiviso da tutti era il terrore, anche se in alcune parti della città la gente continuava a recarsi al lavoro.
L’avanzata dei ribelli, però, non riusciva a rivelarsi decisiva. Così Aleppo è rimasta divisa fra quartieri controllati dalla Free Syrian Army e aree in mano ai lealisti del presidente. E la battaglia ha finito per trasformarsi in un’interminabile e sfiancante guerra di logoramento, con il fronte in continuo movimento e la città divisa in due.
All’inizio di quell’agosto di scontri e bombardamenti, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) contava circa duecentomila cittadini di Aleppo in fuga dai combattimenti precisando che molte di quelle persone si erano spostate in altre regioni della Siria e ciò aveva reso loro difficile l’accesso agli aiuti umanitari. Maxima e la sua famiglia si trovavano tra gli sfollati.
«Hai mai sentito il nome Kobane?» mi ha chiesto lei durante una delle nostre interviste. «Certo, in Europa se ne è parlato molto» le ho risposto. «Ecco, la provincia da cui provengo è come quella di Kobane.» Maxima ha utilizzato l’esempio dell’enclave curdo-siriana a un passo dal confine con la Turchia, durissimo campo di battaglia dove si sono affrontati gli uomini dello Stato Islamico e i combattenti curdi dell’Unità di Protezione Popolare, per indicare chi controllava (e ancora oggi controlla) il territorio in cui si è rifugiata dopo aver lasciato Aleppo. Con la famiglia ha raggiunto il piccolo villaggio di cui è originario il padre, a ridosso del confine turco.
I curdi dell’YPG garantivano protezione e controllo all’interno e attorno all’abitato, oltre che nelle campagne circostanti. Ecco perché quella zona è stata a lungo la più stabile e pacifica delle enclave curde ed ecco perché Maxima ha potuto condurvi una vita quotidiana quasi tranquilla.
Eppure, osservando la distribuzione delle forze dispiegate sul territorio nel raggio di poco più di 50 chilometri, si intuisce quanto questa regione della Siria potesse e possa ancora essere esplosiva: a est si estende l’area controllata dallo Stato Islamico (e a 265 chilometri di distanza sorge Raqqa, la sua roccaforte). A sudovest il controllo è nelle mani degli uomini di Jabhat al-Nusra, il Fronte legato ad Al-Qaeda che ha giocato un ruolo rilevante nella lotta contro il presidente siriano e che, in seguito a diverse campagne di attentati suicidi, è stato inserito dagli Stati Uniti nella lista delle organizzazioni terroristiche. A sud si registra la presenza di altre formazioni di ribelli anti-Assad.
A causa di questa complessa rete di forze dispiegate sul terreno, circolare in maniera sicura costituiva impresa ardua per gli abitanti della regione. Come racconta Maxima, costante era il rischio di incappare in posti di blocco o di venire sorpresi dallo scoppio di scontri e disordini. Complicato era l’approvvigionamento di beni di prima necessità che, quindi, scarseggiavano e costavano molto. E, pur in un clima di relativa calma garantita dalle operazioni dell’Unità di Protezione Popolare curda, erano rare le opportunità di lavoro e ai più giovani completamente preclusa la possibilità di ricevere un’istruzione.
Anche durante il lungo periodo vissuto con la sua famiglia a Gaziantep, in Turchia (dalla fine del 2012 all’estate del 2014), Maxima non ha più avuto l’occasione di tornare fra i banchi.
Prima che il conflitto scoppiasse, il tasso di scolarità in Siria era del 99 per cento per la scuola primaria e dell’82 per cento per il ciclo di studi secondario. Oggi l’UNICEF stima che fra i tre e i quattro milioni di bambini siriani all’interno del Paese o rifugiati all’estero non frequentino la scuola.
Secondo quanto previsto dal diritto internazionale, il governo turco è obbligato a fornire a tutti i bambini presenti sul proprio territorio un’educazione elementare gratuita e obbligatoria, come ha scritto Human Rights Watch, l’ONG internazionale che si occupa di difesa dei diritti umani, in un rapporto diffuso nel novembre 2015. Nel testo si precisa che la Turchia ha adottato diverse misure positive per far fronte ai propri obblighi, eliminando gli ostacoli legali per l’accesso dei bambini siriani al sistema educativo. Nell’estate del 2014, cioè nei mesi successivi alla permanenza di Maxima nel Paese, il governo turco ha revocato l’obbligo di presentare il permesso di soggiorno per l’iscrizione nelle scuole pubbliche. Eppure, continua il resoconto, nonostante gli sforzi, meno di un terzo dei 700.000 bambini siriani in età scolare entrati in Turchia negli ultimi quattro anni sta frequentando la scuola. Ciò significa, secondo l’ONG, che circa 485.000 bambini non ricevono un’istruzione.
L’unica opportunità di formazione che la famiglia di Maxima è riuscita a individuare è stato un corso che per lei si è rivelato una vera e propria delusione: in un editoriale del quotidiano turco «Today’s Zaman» dal titolo Siriani a Gaziantep: un’integrazione non facile, nel marzo 2015 il columnist Hasan Kanbolat raccontava, parlando dei circa 80.000 siriani in età scolare che vivono a Gaziantep, che in alcuni casi l’istruzione offerta a tali bambini era costituita da corsi «underground» di salafismo (il movimento ultraconservatore dell’Islam sunnita) frequentati anche da ragazzini di nazionalità turca.
Niente lezioni in Siria, dunque, e difficoltà di accesso alle scuole in Turchia. Ma non è stata solo la mancanza di istruzione ad avere spinto la famiglia di Maxima a lasciare Gaziantep e a rientrare al villaggio nell’estate del 2014. Lei, infatti, ha raccontato di condizioni di vita e di lavoro sempre più difficili per i siriani residenti in città.
Di questa situazione si trovano alcuni precisi riscontri sulla stampa turca: parlava di tensione già alta tra gente del posto e rifugiati il «Today’s Zaman» che nell’agosto 2014 ha riferito di «sentimenti negativi aumentati negli ultimi mesi contro i siriani ... Per ridurre i costi, alcune aziende preferiscono assumere i siriani dal momento che li pagano con salari molti più bassi. Guadagnano 150-200 dollari al mese che è all’incirca la metà dello stipendio minimo legale. Inoltre, i datori di lavoro non corrispondono allo Stato alcun versamento per la previdenza sociale di questi dipendenti stranieri». Dunque i siriani, sempre più numerosi mese dopo mese, sono stati accusati di lavorare per stipendi troppo miseri e, di conseguenza, di essere responsabili della rovina del mercato del lavoro.
Un altro aspetto che ha reso sempre più esplosiva la convivenza è stato il considerevole aumento degli affitti delle case: anche nei quartieri più popolari di Gaziantep, gli affitti che un tempo si aggiravano sulle 150 lire turche, cioè circa 70 dollari al mese, nel 2014 sono arrivati a toccare le 400 lire, cioè circa 185 dollari, contribuendo ad accrescere i malumori della popolazione locale contro i nuovi arrivati.
In un rapporto curato dall’International Crisis Group (organizzazione no-profit transnazionale che si occupa di risoluzione dei conflitti) nella primavera del 2014, in un paragrafo dall’eloquente titolo L’ospitalità si trasforma in ostilità, si leggeva: «Molti abitanti di Gaziantep non hanno smesso di sottolineare la loro “parentela” con i siriani, riferendosi a loro come a “fratelli e sorelle”. D’altra parte, però, si sentono, come anche gli altri turchi nel resto del Paese, sempre più a disagio con l’aumentare della popolazione siriana».
Esisteva, poi, la strisciante preoccupazione che gli sforzi dei gruppi di opposizione siriani di formare un governo in esilio a Gaziantep stessero trasformando la provincia in un bersaglio per il regime e per altri elementi ostili.
La Turchia ospita oggi 2.700.000 persone provenienti dalla Siria: è la più grande comunità di profughi al mondo, secondo quanto stimato dall’UNHCR nel marzo 2016.
Solo una volta giunta sulla cittadina costiera di Izmir, Maxima ha iniziato a prendere reale coscienza dell’incredibile numero di connazionali fuggiti dal suo Paese: li ha incontrati accampati per le strade, nei parchi e ovunque ci fosse un po’ d’ombra. Ed è rimasta colpita e addolorata.
Destinazione turistica tra le più rilevanti in Turchia, Izmir si è ormai trasformata in una tappa obbligata per i rifugiati siriani che vogliano tentare la traversata verso la Grecia. In particolare, il quartiere di Basmane è diventato un punto di riferimento per il traffico di esseri umani. Nell’estate del 2015 molti hotel registravano il tutto esaurito, ma chi non poteva permettersi una stanza d’albergo dormiva all’aperto. Nei negozi sono stati messi in v...