Viale Monza 9 non è un indirizzo qualunque, è l’indirizzo del successo.
La prima volta che ci metto piede indosso jeans, stivali e giacca gessata. Percorro lunghi corridoi.
Alle pareti foto di star e copertine di giornali. A terra marmo nero, un marmo mai visto prima: con scaglie di quarzo che risplendono («Marmo Lele si chiama» mi diranno poi, lo ha inventato lui, voleva l’effetto polvere di stelle). Via vai di ragazzi che lavorano, via vai di personaggi televisivi: Alberto Castagna, Marco Predolin, Natalia Estrada. In sala d’attesa venti ragazzi in religioso silenzio. Stanno aspettando lui. Io passo avanti.
Dopo la notte in cui mi ha soccorso, forse salvato – sarei potuto morire? Ancora non so cosa mi sia successo –, Lele mi ha scelto. Fra me e lui è nata subito un’intesa, ci siamo capiti al primo sguardo. «Vienimi a trovare in ufficio» mi ha detto «possiamo lavorare insieme, fare delle cose.»
E dunque eccomi qui, nel suo ufficio, seduto di fronte a lui. Alle sue spalle un busto di Mussolini.
Che cosa ho fatto fino a oggi? Che cosa voglio fare adesso? Il giornalista?
Lele alza il telefono e chiama Silvana Giacobini, prima donna della carta stampata e della televisione col programma «Chi c’è, c’è».
Le comunica perentorio: «Da domani i servizi li fa un mio inviato».
Contratto. Ottocentomila lire a servizio.
Guadagno il triplo di quello che guadagnavo con mio padre. E i soldi veri devono ancora arrivare, questo è solo l’inizio, un pallido inizio.
Incomincio a frequentare casa Mora. Pranzo e cena. Pranzi di venti persone con direttori di giornali, imprenditori, attori, personaggi televisivi, sconosciuti da piazzare. Ricordo il primo pranzo: quattro primi, tacchino ripieno, tre contorni, cinque dolci e tanto champagne. Uscendo penso: «Sarà costato cinque milioni».
È sempre così. A viale Monza 9 è festa ogni giorno.
Poiché i servizi mi prendono poco tempo e io senza far niente non ci so stare, propongo a Lele di fargli da assistente.
Proposta accettata: cinque milioni di lire al mese.
Perché il re si lascia subito convincere dal primo che passa (così mi vedono gli altri)? Perché altri ci mettono anni a entrare nelle sue grazie, anni in cui diventano suoi schiavi e stanno alle sue regole? Perché altri durano in media una stagione e io invece no?
Le volte che trovano il coraggio di dirmelo in faccia, di urlarmelo, mentre vengono cacciati dal regno, ecco, come ultimo atto, questi disperati se la prendono con me: «Chi cazzo sei, che hai di diverso?» gridano.
«Io sono diverso» rispondo.
Ed è vero.
Lo sono innanzitutto per ceto sociale. Mentre loro vengono dalla periferia della città o dal Meridione, figli di muratori cassintegrati, disoccupati, idraulici e spazzini, io sono il figlio di Vittorio Corona. Estrazione alto borghese, evidente nei modi e dalle lingue che parlo – inglese, francese, tedesco. Il lusso non m’impressiona, lo conosco. Certo, non conosco l’eccesso, questo eccesso. Ho vissuto quel mondo, non il suo denaro – fiumi di denaro –, la mia maledizione. A viale Monza 9 imparo la differenza tra potere e denaro. La Gina, amico storico e assistente di Lele, terza elementare, originario di un paesino vicino Verona, genitori contadini, ebbene La Gina nel 1998 guadagna cinque volte lo stipendio del direttore del «Corriere». Consulenze generiche di immagine e casting a giornali e programmi TV.
La Gina guadagna dieci volte quello che guadagna mio padre. Lele cento.
In bilico tra i due mondi, devo fare una scelta.
Mia madre dice: «La laurea è importante».
Io rispondo: «A venticinque anni sarò ricchissimo, guiderò una Porsche e sarò sposato con una top model».
Ho scelto.
In questo momento scelgo e non posso più tornare indietro.
Pochi anni dopo si realizza tutto, unica differenza: guido una Bentley e non una Porsche.
In realtà la Porsche è sempre stato il sogno di papà. Voleva arrivare lì e non ci è mai riuscito: tre figli, una moglie, una casa. Le spese aumentavano, e lo stipendio – seppure buono – non permetteva tanto lusso.
Sono io, a ventiquattro anni, che vado da lui e gli dico: «Ti regalo la Porsche».
Lui mi guarda fisso, fa passare lunghi attimi di silenzio e mi risponde: «Non la voglio».
La sua è una scelta, quella di non avere altro se non ciò che può permettersi con i soldi che guadagna da sé.
Più io divento ricco, ho macchine e soldi, più lui diventa morigerato, quasi a voler sottolineare la differenza tra me e lui. Se all’inizio cerca di convincermi a tornare indietro, a mettere la testa a posto, che quel mondo di cui non vuole fare parte non è neppure il mio, poi non lo fa più. Si limita a darmi l’esempio: estate ad Aci Trezza, appartamento di centosettanta metri quadrati, stessa macchina da otto anni.
Intanto io salgo sempre più in alto, è una vertigine, papà.
Prima di viale Monza 9, nel mio mondo i soldi, i soldi veri, li avevano i calciatori e i figli dei grandi imprenditori. Un mondo ristretto, senza possibilità di arrivare a quella ricchezza, riservata a pochissimi.
Viale Monza 9 invece offre una possibilità a tutti, o quasi. A me di sicuro. Io posso diventare ricchissimo, ricco quanto un calciatore di serie A, e senza dover correre dietro a un pallone. Seduto su una poltrona, io posso diventare il re.
Come Lele. Il suo regno dura dal 1990 al 2011. Poi tramonta, ma questa è un’altra storia, viene dopo, c’è tempo, qui siamo ancora nel 1998, dove tutto è splendore.
Lele Mora è l’uomo più potente d’Italia. E anche il più generoso, questo va ricordato a chi oggi non gli risponde più al telefono, a chi ha costruito una carriera grazie a lui, per poi girargli le spalle. Il nostro Paese, purtroppo. E a ben pensarci sono contento di aver ribaltato gli equilibri. Da un certo punto in poi l’ho fatto anche per lui. Per quello che è stato e per quello che non è più.
Lele si occupa dei palinsesti Rai e Mediaset, attraverso scambi impone gli sconosciuti: io ti do Simona Ventura, tu ti prendi Aída Yéspica e Costantino Vitagliano. Sono pacchetti. Lele Mora rivoluziona la televisione italiana.
Io impiego poco tempo a capire il mestiere e il giro di soldi. Lele mi lascia spazio. Dimostro che posso risolvere problemi. Un esempio?
Pavarotti International, fra gli ospiti Bono Vox. Lele porta dieci artisti, ma all’ingresso ci ferma la sicurezza tedesca, non ci sono pass per noi. S’incazza. «Com’è possibile una cosa del genere, chiamatemi Luciano.» Gli uomini della sicurezza parlano poco italiano. Niente pass, niente ingresso.
Prendo in mano la situazione e gli dico sicuro: «Dammi solamente cinque minuti. Vado a parlare con la sicurezza. Parlo tedesco». Cinque minuti e torno indietro con venti pass.
Se prima era solo un’intuizione, ora ne ho la prova: io sono diverso dagli altri, più intelligente, più dotato di senso pratico, so affrontare ogni situazione. Non ho bisogno di Porsche e orologio io – il primo regalo che Lele fa ai fedelissimi, una specie di marchio a fuoco come le mucche. Posso arrivare a comprarmi tutto da solo, macchine, orologi, case. Sono l’unico non ricattabile.
Così, giorno dopo giorno, evento dopo evento, divento indispensabile. Lele sa che gli posso far guadagnare di più, cento volte di più. Il nostro è un patto tacito, un’alleanza non scritta e che mai lo sarà.
MTV Europe Music Awards 1998, presenta Jenny McCarthy, già star, già cover girl di «Playboy». Fra me e Jenny è amore a prima vista.
Lele s’innervosisce. Io vado avanti col mio corpo, con la mia bellezza, il contrario di quello che fa lui. La conquista per Lele è l’atto finale, il potere. Un possesso che dura pochissimo, perché si stufa. In quegli anni si stanca presto delle persone. Tranne di me. Io sono il suo braccio destro, io arrivo dove lui non arriva. E se all’inizio la cosa lo infastidisce, poi l’accetta. È intelligente, Lele. Sa calcolare il valore economico di persone e prestazioni. In nome di questo l’alleanza prosegue.
Scambi, rilanci, percentuali.
Come quando cerca un artista per l’evento Sector all’Aquafan di Riccione. Chi possiamo mandare?
«Jenny» propongo io.
«Impossibile, è una star internazionale, strapagata, perché dovrebbe accettare un ingaggio all’Aquafan di Riccione?»
Volo a Los Angeles. Mi perdo nelle notti, nei locali e nelle feste insieme a Jenny, baci, carezze e sesso, «come lo fai tu nessun altro»… E alla fine, solo alla fine, dopo aver fatto l’amore per la quinta volta in un giorno, le propongo l’ingaggio. Non mi serve insistere, lei dice subito sì, non le importa neanche chi sia lo sponsor – magliette, scarpe, orologi – basta che sia in Italia dove potrà stare di nuovo con me.
Per questo contratto chi guadagna di più è Lele. A me spetta una piccolissima percentuale. Vorrei protestare: «Ehi, tu senza di me…», ma mi do una calmata. Questo è solamente l’inizio, oggi sono cinque milioni, domani duecento. Quello che sto facendo è invertire i rapporti di forza dell’agenzia, presto io sarò sopra, e Lele sotto. Perché io non sono uno dei tanti ragazzotti di Quarto Oggiaro, non ho una famiglia da mantenere, non ho un’infanzia di merda alle spalle, non sono stato il bambino che andava a scuola con le scarpe bucate, io sono io, nel parco di Catania, sotto la statua del mio bisnonno, uno dei più grandi compositori italiani. Niente m’impressiona.
Niente o quasi.
La Lincoln Navigator che Lele mi dà per portare Jenny a Riccione non mi lascia indifferente. È una macchina che in Italia non esiste, solo in America, e solo per i rapper più famosi.
12 luglio: io, Jenny, l’autista più otto persone della sicurezza in due macchine dietro di noi, partiamo per la costa adriatica.
In quella macchina, con la donna più famosa del momento, mi sento forte. Ce l’ho fatta, e senza l’aiuto di nessuno, nemmeno di mio padre.
Perché tutto ruota incredibilmente attorno a lui: papà.
La voglia di dimostrare che sono capace, che sono come lui.
Chiedo all’autista di fare una piccola deviazione del tragitto, meta: casa dei miei.
Scendo, citofono e dico a mio padre di affacciarsi.
Cosa stai per vedere, papà… stai per vedere tuo figlio in una macchina da cinquecento milioni di lire, tuo figlio per mano a Jenny McCarthy, star americana, stai per vedere tuo figlio alla conquista del mondo.
Cosa stai per vedere, papà…
Lui si affaccia alla finestra, e io da quaggiù mi accorgo subito che il suo sguardo non è di orgoglio. No, nei suoi occhi non c’è fierezza, né gioia. È qualcosa che non capisco, e capirò solo dopo. Mio padre annuisce e rientra in casa. Alla finestra resta l’azzurrino della televisione dietro le tende, neanche l’ombra di papà, e io sotto a guardare casa mia da fuori, a guardare le luci, e a immaginare lui, seduto in poltrona, davanti alla TV.
A Riccione dopo l’evento andiamo al Peter Pan. Mi diverte – una mia debolezza – individuare la più bella della festa, è come un gioco, e stasera non è Jenny – forse solo per il fatto che è già mia – bensì una modella mora. Faccio sempre così: punto la più bella e conto quanto ci metto a prendermela...