Jim Morrison
  1. 574 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Jim Morrison è uno dei rari personaggi-mito di cui più se ne spulcia la vita e più ne risplende la leggenda. Il Re Lucertola è stato e rimane trasgressivo, lirico, bello, perennemente giovane, e straordinariamente tutte queste cose insieme.
Poeta maledetto, evangelista acido, ha invitato il suo pubblico a passare attraverso le porte della percezione, a liberarsi dalla prigione del conformismo sociale e familiare e a cercare una coscienza nuova, più alta e consapevole.
Ha catturato le inquietudini e le minacce che aleggiavano nell'aria alla fine degli anni Sessanta come un gas lacrimogeno, e le ha iniettate nei suoi versi aspri e cupi, nella sua voce ammaliante e magnetica, nella musica ipnotica e penetrante dei Doors, nei rituali sciamanici dei loro concerti. Tormentato e alimentato dai demoni interiori e da una implacabile furia di scoperta e creazione, da un appetito vorace e onnivoro per tutte le esperienze sessuali, psichedeliche e spirituali, Jim Morrison ha trasformato la sua vita in un'opera d'arte dionisiaca ed estrema, dall'irresistibile fascino estetico. Una biografia definita "La vera faccia di Jim Morrison. Sorprendentemente avvincente" ("The Indipendent"), è un'occasione per vivere un lungo e intenso rapporto ravvicinato con l'angelo ribelle del rock e per compiere un viaggio emozionante negli ambienti più borderline di quegli anni. Per ogni fase della sua carriera emergono infatti elementi sconosciuti, dall'infanzia con l'ombra di abusi sessuali alle sue sperimentazioni fisiche e musicali. Fino a una ricostruzione definitiva, straziante e sorprendente degli ultimi giorni a Parigi, con documenti che tendono un filo inedito fra la sua morte e quella di altri due grandi della musica, Janis Joplin e Jimi Hendrix.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
Print ISBN
9788804553595
eBook ISBN
9788852073281
Argomento
Arte
Categoria
Arte generale
LIBRO SECONDO

JIM MORRISON

4

Back door man

Il talento fa ciò che vuole. Il genio fa solo ciò che può.
EUGÈNE DELACROIX

Una band di Venice

Nei primi giorni del marzo 1966, quando gli assembramenti di giovani che ogni notte intasavano il Sunset Strip erano al loro massimo storico, i Doors ottennero una serata di prova in un umido locale del Sunset, il London Fog. Il proprietario, Jesse James, che sosteneva di essere pronipote del celebre fuorilegge del Missouri, promise a Jimmy e Ray che li avrebbe lasciati suonare una sera nel suo locale dopo aver saputo che avevano ottenuto un contratto discografico. Nei giorni che precedettero la serata, i Doors chiamarono tutti i loro amici dell’UCLA scongiurandoli di venire al Fog.
Il Fog era, in buona sostanza, una bisca. In passato era stato un caffè, l’Unicorn; si trovava fra l’Hamburger Hamlet e il Galaxy, a 50 metri dal Whisky. Era un locale lungo e stretto, con l’aspetto di un vagone della metropolitana; aveva un lungo bancone e un palchetto di forma strana, insolitamente alto, incastrato sul fondo dello stanzone. Nel vano tentativo di ricreare un’atmosfera da Swinging London, le pareti erano tappezzate di copertine di giornali e riviste musicali britanniche. Fra un’esibizione e l’altra del gruppo fisso del locale, Rhonda Lane – la formosa e pettoruta go-go girl – ballava dischi inglesi nel suo spazio sopra le teste dei frequentatori del locale, i quali – dato che ai minorenni non era consentito l’accesso alle bische – erano prevalentemente uomini di mezza età, marinai, perdigiorno sbevazzatori e uomini d’affari in trasferta di lavoro, oltre a qualche prostituta.
La sera in cui i Doors tennero la loro esibizione di prova, però, il Fog era strapieno di loro amici. La band suonò i suoi pezzi migliori: Hello, I Love You e Light My Fire, e arricchì lo spettacolo con brani R&B efficacemente reinterpretati, come Little Red Rooster, e successi britannici come Gloria. L’atmosfera era elettrica, e il bar fece ottimi affari. James chiese alla band di rimanere per suonare un’altra volta nel corso della serata. La clientela sembrava aver tanto apprezzato i Doors che il proprietario li ingaggiò immediatamente come nuovo gruppo fisso del locale, che non si atteneva alle regole del sindacato musicisti: quattro esibizioni per sera, dalle nove alle due di notte, per quattro sere la settimana (poi aumentate a sei). Nelle sere dei giorni feriali la paga era di cinque dollari a testa, che diventavano dieci nei weekend. Era un contratto schifoso, e raramente ricevevano tutti i soldi previsti, ma nel giro di due mesi e mezzo le serate al London Fog trasformarono i Doors in una rock band professionista.
La sera dopo l’esordio, i Doors arrivarono al London Fog per il loro primo concerto retribuito. Il proprietario aveva appeso un’insegna all’ingresso: THE DOORS – UNA BAND DI VENICE. Non venne nessuno. Il locale rimase deserto tutta la sera. Jesse James non riuscì a capire il perché, finché qualcuno non gli spiegò l’arcano: gli amici dei Doors dell’UCLA non sarebbero tornati.
Dall’esperienza al London Fog, tuttavia, i Doors ricavarono il massimo vantaggio possibile: soprattutto Jim Morrison, che nel locale cominciò a trasformarsi da scrittore in musicista, passando, da cantante che-volta-le-spalle-al-pubblico, a interprete capace di dare spettacolo, benché ancora in erba. Scuoteva la sua maraca e cercava di cavar fuori fraseggi blues dall’armonica a bocca.
Anche il gruppo subì un’evoluzione positiva. Robby Krieger fece conoscere alla band il classico e imperioso blues Back Door Man (tramite l’incisione di John Hammond Jr.), e John Densmore, usando aggressivamente il tom-tom della batteria, gli conferì una carica tribale che ne fece un momento clou dello spettacolo. Dorothy Fujikawa suggerì di provare Alabama Song, la canzone di Bertolt Brecht e Kurt Weill dall’opera tedesca del 1927 Ascesa e rovina della città di Mahagonny. Arricchita da una batteria rock, la canzone suonava grandiosa, e la frase del testo che recita «Show me the way to the next whisky bar» (Da che parte è il prossimo whisky bar?) era un indizio, divertente e ironico, del luogo in cui in effetti i Doors avrebbero voluto essere: poco più in là sulla stessa strada, al Whisky a Go Go, dove suonavano i Love e i Buffalo Springfield, le band più sulla cresta dell’onda al Sunset Strip.
I Love, hippy bianchi e neri che suonavano un primordiale acid rock, lavoravano al Whisky cinque sere la settimana, e la gente faceva la coda fin oltre l’angolo dell’isolato per assistere al concerto più richiesto dello Strip. Il cantante e front man Arthur Lee era un impressionante mod nero, con i capelli stirati, sventolanti sciarpe di seta e un guardaroba stile Carnaby Street. La sua band multirazziale suonava una bizzarra miscela di soul un po’ straccione, blues psichedelico inglese, cocktail jazz e musica pseudomessicana, con testi vagamente sinistri e insinuanti. I Love avevano fama di inscenare spettacoli caotici, ma vantavano anche un repertorio di eccellenti canzoni come Seven and Seven Is e un contratto con l’Elektra Records. Avevano raccolto il testimone dove l’aveva lasciato l’iniziale esplosione di energia dei Byrds, e furono loro a vivacizzare lo Strip finché non vennero soppiantati, qualche mese dopo, dai Doors.
Fra un’esibizione e l’altra al Fog, Densmore aveva l’abitudine di andare a piedi fino all’ingresso del Whisky per guardare da lì – non poteva permettersi il costo del tavolo – i Love che suonavano davanti alla folla che gremiva il locale, scatenata in un entusiasmo adorante. «Avrei voluto essere uno dei Love» è il suo ricordo. «Loro sì, che ce la stavano facendo a diventare qualcuno. E invece ero nei maledetti Doors.»
Ray e Dorothy continuavano ad abitare nella casa che il gruppo usava come sala-prove, un capanno isolato sulla spiaggia a sud di Washington Boulevard. Ciascun componente della band pagava una parte dei duecento dollari mensili d’affitto. La situazione stava suscitando un certo malumore, e Jim decise di mettere il dito nella piaga. Un mattino all’alba Jim e Robby si presentarono alla casa sulla spiaggia fatti di acido, con due giovani prostitute del Fog. Secondo Densmore, Jim cominciò a imitare il modo rumoroso in cui facevano l’amore Ray e Dorothy – l’aveva sentito molte volte, ai tempi in cui abitavano tutti e tre insieme nell’appartamento di Santa Monica – e poi prese di mira la collezione di dischi che Ray teneva con tanta cura, strappando i long-playing dalle loro copertine e lanciandoli nell’ampia stanza come se fossero frisbee.
Ray emerse dalla zona notte mentre Jim stava schiacciando Kind of Blue con il tacco dello stivaletto, e quando vide i dischi rotti e lo stupido sguardo sul viso dell’amico, si girò e rientrò in camera tirandosi la tenda dietro le spalle.
I Doors cominciavano a raccogliere intorno a sé, sullo Strip, un piccolo seguito di ammiratori; alcuni appassionati fra i più attenti alle nuove tendenze, finiti al Fog per sbaglio, ora sostenevano attivamente la band di Venice. Jim continuava a salire sul palco vestito come di giorno – pantaloni militari e maglioni con le maniche lunghe –, ma per la prima volta si girava e guardava in faccia il pubblico. Cantare dure canzoni blues e strillare frammenti di testi ogni sera cominciava a rafforzare i muscoli del collo e le corde vocali di Jim, e la sua voce cambiò: da esile e strascicata diventò una voce baritonale profonda e ricca di risonanze emotive, davvero capace di veicolare il testo di una canzone.
Per allungare la durata delle quattro esibizioni serali senza essere costretti a ripetere brani già eseguiti, i Doors cominciavano a diventare anche un gruppo capace di lanciarsi in improvvisazioni influenzate dal jazz con venature di bossa nova. The End, nata come brano lento e romantico da tre minuti, finì per trasformarsi in un raga indiano che ne durava più di dodici. Light My Fire poteva durare anche un quarto d’ora, visto che Jim improvvisava liberamente, nella parte mediana, surreali versi poetici. When the Music’s Over nacque proprio al Fog, con il precipuo scopo di far passare altri quindici minuti. (Una sera Jim aveva sentito Jesse James dire al barista: «Quando la musica è finita, spegni le luci».)
Avevano in repertorio anche un paio di sequenze musicali a cui si riferivano chiamandole Latin Bullshit #1 e #2 (stronzata latina numero 1 e 2): improvvisazioni strumentali costruite su arrangiamenti jazz di Gil Evans e su Afro Blue di John Coltrane. Potevano durare anche metà di un’esibizione, se era l’ultima della serata e se il locale, come al solito, era vuoto.
Man mano che la band si compattava, Jim smise di suonare l’armonica a bocca. Fece anche i suoi primi passi come showman: durante gli assolo jazz prendeva una sciarpa di seta nera, se l’avvolgeva intorno alla fronte o la drappeggiava sull’asta del microfono. Più o meno in questo periodo Felix Venable fece scoprire a Jim il popper, capsule di nitrato d’amile utilizzate solitamente per rianimare i malati di cuore. Esalavano una zaffata d’ammoniaca e per mezzo minuto ti facevano provare l’ebbrezza di un’esperienza extracorporea. A Jim piaceva spezzarle sotto il naso dei compagni mentre suonavano gli assolo di Light My Fire. A volte, quando non trovava il seguito per un testo poetico che stava improvvisando, si spezzava un popper sotto il naso. Gli occhi gli roteavano verso l’alto fino a lasciare la cornea bianca, e cadeva sulla tastiera di Ray, il quale continuava a suonare finché Jim non riprendeva coscienza, e lo spettacolo proseguiva.
Certe sere, al Fog c’erano solo poche persone. Il posto era sporco e l’aria densa di fumo di sigarette. Jesse James tirava sul prezzo al momento di pagarli, ma a loro era simpatico perché gli dava da mangiare gratis, e poi si rendevano conto che il locale era in perdita.
Quando non suonavano al Fog, i Doors tenevano altre serate in zona, per esempio al Van Nuys Teen Center, nella Valley. Si esibirono anche durante una festa privata al Moonfire Ranch, nel Topanga Canyon. Il Moonfire era di proprietà di Lewis Beech Marvin III, erede della fortuna dell’inventore delle raccolte premio dei Green Stamps (bollini verdi) nei supermercati (e buon amico dell’artista pop Andy Warhol). Marvin aveva fatto costruire sul terreno del suo ranch una grande sala a pianta circolare, e quell’anno assoldò varie volte i Doors perché suonassero per intrattenere i suoi ospiti. A Jim piaceva il Topanga Canyon, con il suo paesaggio così selvaggio e mozzafiato; ancora non era stato edificato, e aveva un’aria da Old California, con le sue pendici rocciose e la popolazione itinerante di «topi di torrente», che sembravano gli abitanti di un antico villaggio minerario.
Lewis Marvin era impegnato in attività sociali, per esempio una campagna per la messa al bando delle armi-giocattolo alla luce della situazione in Vietnam, sempre più spaventosa. Quell’anno, il 1966, Robert McNamara, segretario della Difesa, definiva il massiccio invio di truppe americane nel Sudest asiatico come un intervento a difesa dei sudvietnamiti contro l’invasione del Nord, che – lasciava intendere – agiva per procura della Cina comunista. A Washington, l’invasato senatore Strom Thurmond sosteneva l’impiego delle armi nucleari per porre fine al conflitto. Il generale Curtis LeMay, capo di Stato maggiore dell’esercito, esortava l’America a «bombardare il Vietnam del Nord fino a ridurlo all’età della pietra». Nei campus americani i docenti pacifisti stavano iniziando i teach-in che avrebbero dato vita l’anno seguente a un vero e proprio movimento contro la guerra.
Il 23 aprile 1966, al Will Rogers State Park, i Doors tennero un concerto per raccogliere fondi a sostegno della protesta contro le armi-giocattolo.
Quelli che ascoltavano il materiale originale dei Doors erano vivamente colpiti da canzoni come The Crystal Ship, con la sua oscura e intelligente visione romantica di amore e narcosi. Robby Krieger scrisse Love Me Two Times e la band sviluppò il brano con un sorprendente sfoggio di reiterata potenza incendiaria. Al culmine di Break On Through Jim gridava: «She gets – she gets… she gets… hiiiiigh», e pareva che la sala stesse per esplodere. Molto spesso i Doors si sentivano domandare se avessero già pubblicato un disco, e cominciavano a chiedersi perché la risposta dovesse essere ancora no. I Doors pensavano di essere pronti. Un giorno, mentre giravano per la città in auto, Jim chiese a John Densmore se pensava che i Doors potessero diventare grandi come i Rolling Stones. John pensò che scherzasse, ma quando lo guardò in faccia capì che non era così.
Con la Columbia però non succedeva niente. Un tizio si era fatto vedere una sera al Fog, presentandosi come il loro produttore, ma poi non ne avevano più avuto notizia. In primavera John Densmore aveva un appuntamento con Billy James; mentre l’aspettava, vide che su un foglio con l’intestazione «band da scaricare» il primo nome dell’elenco era quello dei Doors. Chiesero di essere sciolti subito dall’impegno contrattuale. James fece notare che il contratto sarebbe scaduto dopo un mese e se lo avessero rispettato avrebbe fruttato loro qualche soldo; ma Jim aveva la sensazione che le cose si sarebbero potute sbloccare con un’altra etichetta, e James li lasciò liberi; pochi mesi dopo avrebbe abbandonato la Columbia per passare all’Elektra: così avrebbe finito comunque per lavorare con i Doors.

She gets high

Quanti hanno scritto la cronaca di quei giorni concordano in genere nel ritenere che la primavera del 1966 segnò il punto più alto per l’intera scena del Sunset Strip. Al Whisky c’erano i Love; al Galaxy, gli Iron Butterfly; al Thee Experience, i Rhinoceros; al London Fog, i Doors. Jimmy Greenspoon, musicista dei Three Dog Nights, ricorda: «A tarda notte, alla fine degli spettacoli, ci ritrovavamo al Cantor’s Deli di Fairfax. C’erano tutti i freak e i gruppi che suonavano in città, il giro di Zappa, tutte le groupie, i Byrds, i Seeds, i Turtles, i Buffalo Springfield, i Kaleidoscope, i Daily Flash, i Sons of Adam. Se entravano Phil Spector o Brian Wilson, ricevevano una standing ovation. Morrison si distingueva, fra tutti, perché era così bello, cazzo! E se voleva, sapeva farsi notare, eccome. Già allora aveva cominciato ad attrarre le giovani fanciulle in fiore, le giovani poetesse, le piccole randagie sperdute con gli occhi grandi e il sorriso misterioso».
Circa un mese dopo che i Doors avevano cominciato a esibirsi come gruppo fisso al London Fog, una sera molto tardi entrò nel locale una ragazza dai capelli rossi, straordinariamente bella e seducente, e si sedette ad ascoltare la band. Il suo nome era Pamela Courson. Aveva diciannove anni, e da allora divenne inestricabilmente parte della leggenda di Jim Morrison.
Pam Courson era splendida. Minuta, alta nemmeno 1 metro e 60, meravigliosi capelli color rame stirati lisci e pettinati con la riga al centro, un fisico snello dai piccoli seni e un sorriso da Orange County sottolineato da denti perfetti e superbi zigomi celtici. (Il castello di Courson sorge circa cinquanta chilometri a sudest di Parigi.) Pam aveva la pelle lattea, quasi traslucida, leggermente spruzzata di lentiggini color cannella, e occhi verdi dolcissimi e pieni di espressività. Era uno stupendo archetipo americano, l’immagine vivente della mitica California Girl di Brian Wilson, con l’aura di una principessa hippy o di un’eterea ninfa dei boschi. I suoi abiti erano au fait, in anticipo sulle mode: minigonne e camicette di tessuti esotici, dai ricami tribali o con ornamenti in st...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Jim Morrison
  4. Introduzione
  5. Libro primo. JIMMY
  6. Libro secondo. JIM MORRISON
  7. Libro terzo. JAMES DOUGLAS MORRISON
  8. Epilogo. Il fresco residuo di un sogno
  9. Nota dell’autore
  10. Bibliografia
  11. Inserto fotografico
  12. Copyright