Le rose del vento
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Le rose del vento

Storia di destini incrociati

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le rose del vento

Storia di destini incrociati

Informazioni su questo libro

Si dice che il punto migliore per cominciare a raccontare una storia sia l'inizio. Ed è ciò che l'autrice di questo romanzo fa: interrogare le storie dei propri avi, dai rami dell'albero scendere fino alle radici. Un impulso incontenibile, vitale: "Mi sento indecifrabile a me stessa. Mi manca la chiave. Ripercorro la storia a ritroso, in cerca di una casa che sia la mia". Tessendo la trama delle proprie origini, Widad Tamimi ci porta nel cuore tormentato del secolo appena trascorso.

E ci racconta di un padre, Khader, nato in Palestina, a Hebron, nel 1948, proprio l'anno della fondazione dello Stato di Israele. La famiglia si era trasferita a Gerusalemme in cerca di benessere, ma la guerra li ha costretti a fuggire e a tornare nella città di origine. Sono poveri, lavorano la terra, vivono in una stanza di mattoni e lamiera. Khader ha un sogno: diventare un pediatra per aiutare i bambini del suo paese. Nel 1967 c'è una nuova guerra che li rende profughi per la seconda volta. Scappano ad Amman, in Giordania.

Ancora più indietro negli anni Carlo Weiss, il nonno materno, nasce a Trieste nel 1924, è ebreo e si sente fiero di essere italiano, la villa di famiglia è frequentata da scrittori, musicisti, psichiatri. Finché, nel 1938, la situazione per gli ebrei si fa insostenibile e Carlo e i suoi scappano, prima a Losanna, poi a Londra, infine negli Stati Uniti.

Carlo rientra in Italia nel 1947, pochi mesi prima che la famiglia di Khader sia costretta a fuggire da Gerusalemme. Incontra una donna, se ne innamora, nascono due figlie. Anche Khader raggiunge l'Italia, per studiare Medicina. Conosce la figlia maggiore di Carlo, bella e ribelle, tra i due nasce un amore fortissimo.

La prima delle loro figlie raccoglie l'eredità complessa di uomini e donne sradicati dalla propria terra, sospinti dal vento implacabile della Storia. Con coraggio, determinazione e inesausto desiderio di riparare il passato per costruire il futuro, segue il percorso di due esili incrociati, due destini che ci raccontano da dove veniamo e ci chiedono dove vogliamo andare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
Print ISBN
9788804660354
eBook ISBN
9788852072529
PRIMA PARTE

Spiga di grano

Hebron, 1949
Che la vita di un figlio non sia eterna, una madre lo sa fin dal primo battito. Una pulsazione e poi silenzio, una pausa che tuona con la potenza di un boato. La gioia accoglie i nuovi nati, ma la consapevolezza della caducità di tutte le cose prende forma già nel grembo materno.
Um Fadhel, in pochi anni, di figli ne aveva visti morire due, e tre li aveva persi prima del parto. A sentire lei, le erano morti cinque figli, perché se li era sentiti vivere dentro tutti, nessuno faceva eccezione.
Quella mattina si era svegliata alle quattro, quando il manto della notte copriva ancora le colline. La famiglia dormiva e lei era uscita nei campi. Al pianto del piccolo Khader si erano abituati tutti, tranne lei.
Khader era determinato e curioso, di una forza vitale senza eguali. Bastava osservare la foga con cui scongiurava la madre di aiutarlo, in quel dolore ignoto che se lo stava portando via poco a poco. Um Fadhel non poteva credere che sarebbe morto anche lui.
Fino a poche settimane prima l’aveva inseguita carponi nei campi, giocando tra le spighe di grano e riempiendosi la bocca di terra calda. Gli restava un alone nero attorno alle labbra, che serrava per nascondere manciate di sassolini nelle guance, gonfie come quelle di un criceto. La madre lo pregava: «Butta fuori, ya-Khader! Finirai per riempirti lo stomaco di sassi! Butta fuori, ya-habibi!». Poi lo stomaco sembrava essersi riempito per davvero. Di aria, però. Nulla entrava e nulla usciva. Aveva smesso di mangiare. Rifiutava il cibo con la stessa determinazione con cui fino ad allora lo aveva cercato. Solo la sera, ormai stremato, si abbandonava inerme alle suppliche della madre: spalancava il becco come un uccellino nel nido, perché lei potesse fargli scivolare sulla lingua poche gocce di latte di capra.
Il medico del paese bussava ogni giorno alla porta. Dopo la consueta visita, incapace di seminare false speranze nel cuore di una giovane madre precocemente prosciugata dalla vita, scuoteva la testa desolato.
«Um Fadhel» sospirava. Il suo viso era grigio come il fumo che buttava fuori tra una boccata e l’altra. La sigaretta sembrava esserglisi incollata alle labbra; non se ne separava neppure in presenza dei pazienti. Gli dondolava sotto i baffi, mentre parlava.
Um Fadhel sentiva riecheggiare il suo appellativo genitoriale come un macigno gettato in un pozzo profondo, e tremava colta da un improvviso senso di vertigine. Poi l’uomo veniva risucchiato da un fascio di luce bianca e spariva oltre la piccola porta che dava sui campi, portandosi via anche la speranza.
Um Fadhel, era così che la chiamavano, “la madre di Fadhel”: una sorta di promozione sociale arrivata in dono con la nascita del primo maschio.
Um Fadhel e il marito erano tornati a Hebron poco prima della nascita di Khader. All’inizio del 1940 si erano trasferiti a Bayt Jibrin, un piccolo villaggio vicino Gerusalemme, al Quds, la Santa, in cerca di opportunità. Una notte, poche settimane dopo la celebrazione del matrimonio, Abu Fadhel aveva preparato l’asino e aiutato la moglie, che indossava l’abito nero coi ricami, l’abito tradizionale palestinese, ad arrampicarsi sulla sella. La madre della sposa aveva posato il lungo velo bianco che arrivava alle caviglie sul capo della figlia.
Abu Fadhel era riuscito a trovare un minuscolo locale al piano terra di un vecchio edificio. Era il luogo ideale dove avviare un negozio a conduzione familiare. Um Fadhel si era rimboccata le maniche, aveva pulito a fondo e imbastito lunghe tende scure per separare lo spazio abitativo da quello commerciale. Non potevano permettersi l’affitto di un appartamento. Il negozio soddisfaceva ogni esigenza: era casa e lavoro.
Il marito usciva presto la mattina in cerca di buoni affari. Almeno una volta a settimana raggiungeva il mercato di Gerusalemme, da cui tornava con molte idee e poca merce. Si era costruito un carretto di legno che riportava a Bayt Jibrin quasi vuoto. I soldi non bastavano ad assicurare grandi scorte. Il guadagno giornaliero era sufficiente a garantire la merce che vendevano al dettaglio.
Um Fadhel, impaziente di veder crescere l’attività, si era recata da un gioielliere e aveva venduto i braccialetti e le collane che le erano stati donati nel giorno delle nozze.
Quella stessa sera, dopo cena, aveva pregato il marito di comprarle una pentola per fare il pane. L’aveva disegnata con una matita su un foglietto di carta, mentre lui divorava il pasto alla fine di una giornata di digiuno.
«Non dimenticare la farina. Almeno dieci chili, per cominciare.»
Abu Fadhel non aveva interrogato la moglie. Non le aveva chiesto come si fosse procurata il denaro, né si era opposto al suo nuovo progetto. Aveva allungato la mano e raccolto le banconote, dopo averle fatto una carezza. Il giorno dopo si era recato al mercato di Gerusalemme ed era tornato con la carriola piena.
«Il profumo del pane attrarrà i passanti, nessuno resiste al richiamo delle pagnotte appena sfornate.» La moglie gli aveva schioccato un sonoro bacio sulla fronte, e si era messa al lavoro.
«Vedrai, mio piccino» aveva spiegato al suo primogenito, che la osservava ciucciandosi le manine. «Il profumo attrarrà le vicine, che entreranno a dare un’occhiata ai nostri scaffali.» Um Fadhel non aveva timori, la tenacia sarebbe stata premiata.
In pochi mesi, proprio secondo i piani, la scenografia di quella sera era cambiata. Settimana dopo settimana Abu Fadhel aggiunse chiodi nel muro e fissò nuove mensole, sistemò casse di legno sul pavimento, che da tre divennero cinque, poi sette, dieci e persino di più, in un labirinto di stretti corridoi che solo Um Fadhel sapeva percorrere tanto rapidamente. Vendevano di tutto, e se i clienti esprimevano desideri particolari, Abu Fadhel andava in cerca degli articoli richiesti.
Il lunedì e il giovedì si recava al mercato di Lidda, che in pochi anni era diventato famoso in tutta la Palestina. La qualità dei suoi prodotti batteva ora di gran lunga quella del suq di Gerusalemme. La città era diventata moderna, con vetrine attraenti e nuovi palazzi. Fadhel, ormai in grado di parlare, chiedeva insistentemente al padre di portarlo con sé. Non ambiva a girare tra le bancarelle del mercato di Lidda, bensì alla sua nuova stazione ferroviaria. Si sedeva su una panchina con le gambe penzoloni, e guardava incantato i vagoni e le locomotive fumanti.
Per qualche anno il negozietto di Bayt Jibrin aveva garantito alla giovane coppia e al loro figlioletto la vita che avevano sempre sognato. Col tempo, però, la situazione era cambiata. I conflitti con gli ebrei aumentavano e molti palestinesi scappavano dai loro villaggi.
«A Dayr Yāsīn non è rimasto più nessuno!» raccontava la moglie del falegname. Era una donna robusta, nota per essere una cuoca di tutto rispetto. Si serviva da loro con regolarità, e talora si presentava alla cassa anche più volte in un solo giorno, più per fare due chiacchiere che per reale necessità.
«Hanno ucciso tutti, incendiato le case, sparato alle donne incinte e ai bambini. Ya-Allah, un disastro, arriveranno anche qui e ci faranno fuori come formiche!» Scuoteva la testa, dimenava le mani, mimava tutto: le pance delle donne, le pallottole e le pistole, il fuoco sui tetti e pure le formiche schiacciate tra un palmo e l’altro. Suo marito era stato a Gerusalemme per consegnare dei mobili commissionati da un inglese, proprietario di un nuovo albergo di lusso. Il falegname tornava con notizie fresche e, da quel che diceva la moglie, in quei giorni a Gerusalemme nessuno parlava d’altro.
Il panico si stava lentamente diffondendo anche a Bayt Jibrin e, nonostante in un primo tempo Abu Fadhel avesse cercato di calmare la moglie, con il passare delle settimane aveva finito per essere, tra i due, quello più incline a lasciare il villaggio.
«È una soluzione temporanea» disse a Um Fadhel, che scuoteva la testa e faceva scudo per difendere le cassette distribuite a terra.
«Questa è casa mia, non tornerò a far compagnia alle mie sorelle. Sono tutte lì, senza iniziativa e annoiate dalla vita. Devi passare sul mio cadavere, non ti azzardare a spostare neppure un acino d’uva. Tieni giù le mani dalla mia merce!»
«Ya-Um Fadhel» sospirò il marito, che sapeva dosare delicatezza e decisionismo con sua moglie. In fondo la conosceva da quando era bambina. «Dobbiamo portare nostro figlio in un posto sicuro, e poi è bene che il nuovo bambino nasca in un luogo tranquillo.» Lo disse accarezzandole la pancia che cominciava ad arrotondarsi. Era da tempo che sognavano di avere un altro figlio.
«Dirò al proprietario che andremo via solo fino alla nascita del bambino. Ogni tanto tornerò a controllare il negozio e quando te la sentirai faremo ritorno insieme.»
A questo punto gli occhi di Um Fadhel si erano riempiti di lacrime. Abu Fadhel l’aveva accolta tra le braccia, le aveva accarezzato i capelli corvini sempre più corti. Quella mattina se li era tagliati da sola, senza neppure guardarsi allo specchio. Dentro di sé sapeva che la vita sarebbe cambiata, inconsapevolmente si preparava a una metamorfosi senza ritorno.
Moglie e marito decisero di partire per Hebron nell’aprile del 1948.
Da Bayt Jibrin e dai villaggi vicini erano in tanti a scegliere di andarsene. Sulle colline e nei campi, serpenti variopinti procedevano sotto il sole, rispettando il passo dei bambini e degli anziani. Um e Abu Fadhel liquidarono anche le ultime scorte, svuotarono il negozio e lo pulirono. Um Fadhel preparò le valigie e regalò gli ultimi viveri alle vicine. Organizzò un caffè con le amiche per congedarsi. Promise che si sarebbero riviste presto. Abu Fadhel portò il figlio a stringere la mano degli anziani del paese, che augurarono loro buona fortuna e protezione divina.
Partirono a piedi, con i sacchi sulla testa, seguendo la processione di donne e bambini che lasciavano le loro case. Gli spari si facevano sempre più vicini. Alcuni raccontavano di villaggi bruciati senza dar tempo agli abitanti di evacuare le proprie case. Altri dicevano che l’attacco sarebbe arrivato fino ai villaggi tra Gerusalemme e Hebron.
«Sono arrivati nella notte, mentre tutti dormivano! Povera gente, che Allah ci protegga!»
A ogni sparo le donne urlavano, e i bambini più piccoli cominciavano a piangere. I familiari si salutavano e gli amici si stringevano le mani. Alcuni restavano, altri fuggivano.
«Torniamo fra qualche giorno, Inchallah», se Allah vorrà, invocavano l’ultima speranza con il tono di chi l’ha smarrita.
Le lacrime si asciugavano al vento, mentre la processione avanzava come una colonna di elefanti nella steppa.
I carri portavano gli invalidi e le gravide, che si davano il cambio per riposarsi. Estranei uniti dalla sventura si sostenevano nel dolore come fratelli, passandosi la poca acqua rimasta e dividendo il pane avanzato.
Molti lasciavano le proprie abitazioni senza avere un posto dove andare. Dormivano sotto agli alberi di ulivo, e aspettavano. Aspettavano: nessuno di loro sapeva cosa sarebbe successo, nessuno credeva di essere partito per sempre.
«Ya-habibti, amore mio.» Una notte Abu Fadhel aveva scosso la moglie assopita sotto un albero. Da due giorni si erano fermati all’ombra degli ulivi. Il gruppo non sapeva quale strada prendere. Le donne avevano adagiato per terra i tappeti e avevano cucinato insieme, gli uomini si erano occupati del fuoco, mentre i bambini correvano e giocavano. Gli spari sulle colline erano diventati un sottofondo rassicurante: finché erano lontani, la vita era salva.
Al richiamo del marito, Um Fadhel si era agitata. «È ora di andare» aveva proseguito lui, coprendole la bocca per evitare che alzasse la voce.
Um Fadhel, intontita dal sonno, si guardava attorno senza capire. «Ma è notte, stanno tutti dormendo.» Gli aveva spostato la mano.
«Lo so, molti di loro rimarranno qui a lungo, ma noi abbiamo un posto da raggiungere, e quando il sole è alto non si riesce a procedere.»
Um Fadhel non se ne capacitava. «Ma no... non possiamo lasciare tutti gli altri qui.» Aveva stretto amicizia con molte delle donne. «Dobbiamo rimanere uniti» piagnucolava.
«Um Fadhel» l’aveva rimproverata deciso il marito, «dobbiamo raggiungere casa nostra, a Hebron. Prendi il bambino e raccogli le nostre cose, quel buon uomo ci accompagna fino a Betlemme.» Aveva indicato un signore su un carretto. «Da lì continueremo a piedi.»
All’ingresso della città incontrarono i soldati dell’esercito egiziano. «Dove siete diretti?» Abu Fadhel spiegò che tornavano dal villaggio di Bayt Jibrin, per far nascere a casa il loro secondo figlio.
«Mia moglie partorirà tra qualche mese e Bayt Jibrin non è più un posto sicuro per...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le rose del vento
  4. In principio
  5. PRIMA PARTE
  6. SECONDA PARTE
  7. TERZA PARTE
  8. Ringraziamenti
  9. Alberi genealogici delle famiglie Tamimi e Weiss-Schmitz
  10. Copyright