L'arte di imparare
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L'arte di imparare

Come, quando e perché accade

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'arte di imparare

Come, quando e perché accade

Informazioni su questo libro

L'apprendimento – quante volte ce lo siamo sentiti ripetere – è questione di disciplina e di impegno. Basta spegnere la TV e lo smartphone, sedersi alla solita scrivania in un ambiente tranquillo, evitare le distrazioni e darci dentro, memorizzare, ripassare, esercitarsi per ore e ore. Che si tratti di un problema di trigonometria, di una tesina di fine semestre o di un brano per pianoforte, la regola è sempre stata questa: concentrarsi sul lavoro, sgobbare sui libri o sugli spartiti, magari fino a notte fonda, è l'unica maniera per garantirsi il successo.

E se fosse tutto sbagliato? Se esistesse un modo per ottenere di più con meno sforzo? Se le distrazioni, i sogni a occhi aperti, le interruzioni volontarie aiutassero l'apprendimento anziché ostacolarlo?

Nell' Arte di imparare Benedict Carey, pluripremiato giornalista scientifico del «New York Times», delinea le tecniche necessarie per «liberare lo scansafatiche che è in noi», allenare la memoria, riattivare la mente e rendere produttivo, efficace e divertente il tempo dedicato allo studio. Nel farlo, Carey ripercorre le tappe principali dello sviluppo della scienza dell'apprendimento, le sue teorie e scoperte fondamentali, a partire dal funzionamento del cervello – una «macchina cognitiva» del tutto eccentrica, che elabora, trattiene le informazioni... e le dimentica –, per arrivare alle ricerche sul ruolo stabilizzante del sonno, sul funzionamento della memoria e sui poteri del subconscio, cioè quella parte della nostra mente che ci consente di «imparare senza pensare».

All'esame dei principi biologici dell'apprendimento, Carey affianca vere e proprie strategie per migliorare le nostre performance cognitive, illustrandone, sulla base di consolidate pratiche sperimentali, la validità e la convenienza. Studiare in ambienti diversi, diluire le sedute, regolare lo studio sui ritmi del sonno, prendersi delle pause per consentire al cervello di lavorare off line, dedicarsi contemporaneamente a sviluppare competenze differenti: sono queste alcune delle tecniche che ci aiutano a esercitare la memoria, a rielaborare un problema – e risolverlo! – partendo da un nuovo punto di vista, a conservare un ricordo più nitido e duraturo di quanto abbiamo appreso.

Uno sguardo alternativo, quindi, che sfida i luoghi comuni e ci invita a ripensare daccapo il vero significato dell'apprendimento: non più una noiosa routine ma una parte importante e creativa della nostra vita quotidiana, un processo irrequieto e frammentario in cui la pigrizia e la distrazione si rivelano spesso ottime alleate, un lavoro meno ingrato e solitario che spalanca le porte al vero piacere della conoscenza.

Domande frequenti

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Informazioni

Parte terza

LA SOLUZIONE DEI PROBLEMI

VI

Il lato positivo della distrazione

Il ruolo dell’incubazione nella soluzione dei problemi
La scuola ci sottopone a molti esami psicologici, almeno tanti quanti sono i test scolastici. Una temporanea espulsione dall’aula, le risse sul campo da gioco, i pettegolezzi che feriscono, i brutti voti, il cibo della mensa... Per molti di noi, tuttavia, in cima alla lista dei traumi c’è doversi alzare in piedi per esporre un argomento, trovarsi sulla scena davanti alla classe e pronunciare un discorso imparato a memoria sui buchi neri, sulla Resistenza francese o sull’Uomo di Piltdown, con il desiderio che la vita possieda un pulsante per far avanzare rapidamente il tempo. Non sono orgoglioso di ammetterlo, ma sono un socio fondatore di quel gruppo. Da bambino aprivo bocca per iniziare una presentazione e le parole uscivano in un sussurro.
Pensavo di aver superato quella fase tanto tempo fa, e l’ho pensato fino a una mattina d’inverno del 2011. Mi presentai in una scuola media nei sobborghi di New York, prevedendo di fare una chiacchierata informale davanti a una classe di venti o trenta alunni di seconda media su un romanzo poliziesco per ragazzi che avevo scritto, in cui gli indizi erano problemi di pre-algebra. Invece, quando arrivai, fui accompagnato sul palco di un grande auditorium e un tecnico mi domandò se avessi bisogno dell’attrezzatura audiovisiva, della connessione per il computer o di PowerPoint. Ah be’, no, non ne avevo assolutamente bisogno. La verità è che non avevo alcuna presentazione da proporre. Avevo un paio di libri sotto il braccio ed ero preparato a rispondere a qualche domanda sulla scrittura, nient’altro. L’auditorium si stava riempiendo in fretta con gli insegnanti che raggruppavano le classi in file ordinate. A quanto pare, era un evento che coinvolgeva tutta la scuola.
Lottai per soffocare il panico. Mi venne in mente di scusarmi e di sgattaiolare via dal palco, spiegando che non ero pronto, che c’era stato un errore. Ma era troppo tardi. La folla si stava accomodando e all’improvviso la bibliotecaria della scuola era lì accanto a me, con una mano alzata, e chiedeva che si facesse silenzio. Mi presentò e si fece da parte. Lo spettacolo stava per cominciare... e avevo di nuovo undici anni. In testa c’era il vuoto assoluto. Guardai il mare di visi giovani, in attesa, curiosi, impazienti. Nelle file in fondo vedevo che i ragazzi cominciavano già a dimenarsi.
Mi serviva tempo. O un trucco magico.
Non avevo né l’uno né l’altro e così decisi di iniziare da un rompicapo. Me ne venne in mente uno antico, che risale probabilmente ai matematici arabi del VII secolo. Più di recente, gli scienziati lo hanno usato per studiare la capacità di risolvere creativamente i problemi, di trovare risposte che non sono intuitive né ovvie. È facile da spiegare ed è accessibile a chiunque, sicuramente agli alunni delle medie. Notai una lavagna quasi in fondo al palco e la spinsi al centro della scena. Presi un gessetto e disegnai sei matite verticali distanti quindici centimetri l’una dall’altra, come la fila di pali di uno steccato:
«Questo è un rompicapo famosissimo e vi assicuro che ognuno di voi è in grado di risolverlo» dissi. «Voglio che creiate con queste matite quattro triangoli equilateri di cui ogni matita costituisce il lato di ciascun triangolo.» Rammentai loro che il triangolo equilatero ha i tre lati uguali.
«Allora: sei matite. Quattro triangoli. Facile, vero? Forza.»
L’agitazione si fermò. All’improvviso tutti gli occhi erano puntati sulla lavagna. Mi sembrava di sentir ronzare i circuiti mentali.
È quello che gli psicologi chiamano «problema a insight» oppure, con un’espressione più colloquiale, «problema a-ha!». Perché? Perché, di solito, la prima soluzione che ti viene in mente non funziona... allora provi qualche variante... e non approdi a nulla... poi fissi il soffitto per un minuto... allora cambi rotta, provi qualcos’altro... ti senti di nuovo bloccato... cerchi un approccio completamente diverso... e infine... a-ha! Hai capito. Per definizione, il problema a insight richiede che la persona cambi prospettiva e osservi in modo nuovo. I problemi somigliano agli enigmi e si discute da lungo tempo se l’abilità di risolverli sia collegata al QI o alle capacità creative e analitiche. Possedere il talento per risolvere gli enigmi non rende necessariamente di qualcuno un bravo studente di matematica, chimica o inglese. A prescindere dalla discussione in corso, io la vedo così: male non fa. Servono modi di pensare creativi per risolvere qualsiasi problema concreto, che si tratti di scrittura, matematica o gestione aziendale. Se lo sportello del caveau non si apre dopo aver tentato con le consuete combinazioni, bisogna tirarne fuori altre, oppure cercare un diverso sistema per entrare.
Quel mattino illustrai una parte di questo ragionamento mentre i ragazzi dell’auditorium fissavano la lavagna e bisbigliavano tra loro. Dopo cinque minuti circa, alcuni studenti si avventurarono alla lavagna per tracciare uno schizzo delle loro idee. Nessuna funzionò. Avevano disegnato triangoli contenenti altri triangoli più piccoli che s’intersecavano tra loro, ma i lati non erano uguali. I ragazzi ci stavano provando seriamente, ma non uscì nulla che potesse aprire lo sportello del caveau.
A quel punto ricominciarono a dimenarsi, soprattutto nelle ultime file. Continuai a fare il mio discorsetto, spiegando che la matematica somiglia a un romanzo poliziesco. Dissi che bisogna essere sicuri di aver usato tutte le informazioni a disposizione. Che bisogna sempre andare a recuperare le idee apparentemente più stupide che ci sono venute in mente. Che bisogna scomporre il problema in parti più piccole, se possibile. Però, ebbi la sensazione che ai loro occhi cominciassi a somigliare ai maestri dei vecchi fumetti di Charlie Brown e al loro blaterare incomprensibile (WAH-WAH WAH WAAH WAH) e nella stanza il ronzio mentale iniziò a disperdersi. Mi serviva un secondo trucco. Pensai a un altro ben noto problema a insight e lo scrissi sulla lavagna sotto le matite tracciate con il gessetto:
SEQUENC_
«Benissimo, prendiamoci una pausa e proviamo con un altro» dissi loro. «L’unica istruzione che vi do questa volta è: completate la sequenza con qualsiasi lettera che non sia la E
Considero questo enigma più abbordabile di quello dei triangoli perché non sa di matematica. (Qualsiasi cosa alluda ai numeri o alle forme geometriche scoraggia all’istante un intero gruppo di studenti che pensano di «non essere portati per la matematica», o che se lo sono sentito dire.) Tutti hanno la sensazione di saper risolvere l’enigma SEQUENC_. Speravo non solo di tenere gli alunni impegnati ma anche di farli andare un po’ più a fondo, di metterli nella giusta disposizione d’animo per affrontare il Problema delle matite. Inoltre percepii immediatamente che nei ragazzi qualcosa era cambiato. Nell’aria c’era una vibrazione competitiva, come se ciascuno spettatore sentisse che quell’indovinello era alla sua portata e volesse essere il primo a risolverlo. Anche gli insegnanti presero a incoraggiarli.
«Concentratevi» dissero.
«Guardate il problema senza preconcetti.»
«Silenzio, voi delle ultime file.»
«State attenti
Dopo qualche altro minuto, una ragazza delle prime file alzò la mano e pronunciò la risposta con una voce che si udì appena, come se temesse di essersi sbagliata. Aveva indovinato, comunque. La feci venire alla lavagna e completare la parola, generando un coro di Accidenti! e Stai scherzando, è quella lì? «I problemi a insight sono così» dissi. «Dovete abbandonare le prime idee che vi vengono in mente, riesaminare ogni dettaglio che vi è stato dato e cercare di ampliare i confini mentali.»
A quel punto ero quasi arrivato alla fine della presentazione e il Problema delle matite continuava a farsi beffe degli studenti dalla lavagna. Avevo un paio d’indizi di riserva che intendevo utilizzare, ma volevo far passare qualche altro minuto prima di giocarmeli. Fu allora che un ragazzo delle ultime file – il settore «State attenti» – alzò la mano. «Può essere il numero quattro e un triangolo?» disse reggendo un pezzo di carta con un diagramma che non riuscii a distinguere lì dove mi trovavo. Lo invitai a salire sul palco, con la sensazione che avesse in mano qualcosa di concreto. Il ragazzo disegnò una semplice figura sulla lavagna, poi mi guardò stringendosi nelle spalle. Fu uno strano momento. La folla faceva il tifo per lui, c’era da giurarci, ma la sua soluzione non corrispondeva a quella generalmente accettata. Non le somigliava minimamente. Però funzionava.
E funziona così anche l’indagine sulla soluzione creativa dei problemi. La ricerca stessa, in quel settore, è fuori posto nel mondo della psicologia che pone al centro il laboratorio, e le sue conclusioni sembrano prive di fondamento, non in linea con i soliti consigli che ci sentiamo rivolgere: concentrati, elimina le distrazioni e pensa. Tuttavia funzionano.
In ogni caso, che cos’è l’insight? Qual è il momento in cui è più probabile che venga in mente la soluzione di un problema e perché? Che cosa avviene nella mente quando il lampo della visione ai raggi X svela la risposta?
Queste domande sono state il foraggio di poeti, filosofi e religiosi per gran parte della nostra storia. Per Platone il pensiero era un’interazione dinamica tra osservazione e ragionamento che dava vita alle «forme», o idee, più prossime alla realtà di quanto lo siano gli oggetti in perenne mutamento che vediamo, udiamo o percepiamo. A questo, Aristotele aggiunse il linguaggio della logica, un sistema con cui passare da una proposizione a un’altra – la ghiandaia è un uccello, gli uccelli hanno le penne, pertanto la ghiandaia deve avere le penne – al fine di scoprire le definizioni essenziali delle cose e le loro reciproche relazioni. Completò il vocabolario con ciò che oggi chiamiamo «deduzione» (il ragionamento che va dall’alto in basso, a partire dai principi essenziali) e «induzione» (che procede dal basso verso l’alto, formulando generalizzazioni che si basano su osservazioni accurate), ovverosia le fondamenta stesse dell’indagine scientifica. Nel XVII secolo Cartesio sostenne che, per risolvere in modo creativo un problema, occorre ritirarsi all’interno, in un regno intellettuale che va oltre i sensi, dove le verità possono emergere come sirene dagli abissi.
Le idee di questo tipo sono un autentico banchetto per le discussioni a tarda sera che si svolgono nei pensionati studenteschi o nelle competizioni intellettuali tra dottorandi. È filosofia, e si concentra sui principi generali e sulle regole della logica, sulla ricerca della «verità» e delle «proprietà essenziali». Ed è anche del tutto superflua per lo studente che si sforza di fare i calcoli o per l’ingegnere che tenta di risolvere un problema di software.
Queste ultime sono difficoltà mentali più immediate, quotidiane, e fu un intellettuale e educatore inglese a compiere i primi passi verso la soluzione della domanda più importante: che cosa avviene quando la mente è bloccata davanti a un problema, e poi si sblocca? Quali sono le fasi attraverso cui si risolve un problema difficile e come emerge l’insight decisivo?
Graham Wallas era noto principalmente per le sue teorie sulla promozione sociale e per essere stato uno dei fondatori della London School of Economics. Nel 1926, al termine della sua carriera, pubblicò The Art of Thought, una serie di divagazioni sull’apprendimento e l’educazione, che era in parte autobiografia e in parte documento programmatico.1 Nel suo libro Wallas racconta aneddoti personali, accenna a qualche nome, riproduce le sue poesie preferite. Spara a zero sugli intellettuali suoi rivali. Compie anche un’analisi ad ampio raggio su ciò che scienziati, poeti, romanzieri e altri pensatori creativi avevano scritto, nel corso della storia, sulle proprie intuizioni e come si erano prodotte.
Wallas non si accontentò di riprodurre quelle osservazioni personali e riflettere su di esse. Era determinato a ricavare una formula di qualche tipo, una serie precisa di passi compiuti da quei pensatori per giungere alla soluzione, una sorta di «impalcatura» utilizzabile da chiunque. All’epoca gli psicologi non possedevano il linguaggio per descrivere quei passi, né definizioni adatte su cui lavorare e, di conseguenza, nessun metodo per studiare quell’abilità fondamentale degli esseri umani. Per Wallas si trattava di una mancanza spaventosa. Il suo obiettivo era inventare un linguaggio comune.
Il materiale grezzo riportato da Wallas è affascinante da leggere. Cita, per esempio, il matematico francese Henri Poincaré, che aveva scritto estesamente sui propri tentativi di calcolare le funzioni fuchsiane. «Spesso, quando si lavora su un problema difficile, la prima volta che ci si mette all’opera non si combina niente di buono» aveva osservato Poincaré. «A questo punto ci si concede un periodo di riposo più o meno lungo, per poi sedersi di nuovo a tavolino.»2 Wallas cita anche il fisico tedesco Hermann von Helmholtz, che aveva raccontato il modo in cui affioravano le nuove idee dopo che si era impegnato a fondo su un problema senza approdare a nulla: «Le buone idee arrivano inaspettate, senza sforzo, come un’ispirazione» aveva scritto. «Per quanto mi riguarda, non mi si sono mai presentate quando la mente era esausta, o quando mi trovavo alla scrivania... sono giunte con particolare facilità durante la lenta risalita di una collina coperta di boschi in un giorno di sole.»3 Lo psicologo belga Julien Varendonck fece risalire i propri insight alle fantasticherie che seguono un periodo di lavoro, intuendo che «nel subconscio sta accadendo qualcosa che deve essere in rapporto diretto con il mio argomento. Devo smettere di leggere per un po’ e lasciare che affiori».
Nessuna di queste citazioni è di per sé particolarmente istruttiva o illuminante. Leggetene troppe, una dopo l’altra, senza l’esperienza necessaria nei vari settori e senza conoscere precisamente i calcoli in questione, e cominceranno a somigliare un po’ ai commenti da dopo partita degli atleti professionisti: Ragazzi, ero in gran forma; mi sentivo come se stessi vedendo tutto al rallentatore.
Wallas, tuttavia, vide in quelle descrizioni una struttura implicita. I pensatori si erano trovati in stallo davanti a un problema e si erano allontanati. Non vedevano una via d’uscita. Erano a corto d’idee. Le intuizioni decisive erano arrivate dopo che avevano abbandonato il lavoro e, per loro scelta, non ci stavano pensando. Ogni esperienza di insight, per così dire, sembrava abbracciare una serie di fasi che Wallas denominò «stadi di controllo».
Il primo è la preparazione: le ore, o i giorni – o periodi più lunghi – dedicati alla lotta con la difficoltà logica o creativa che ci si trova di fronte. Poincaré, per esempio, trascorse quindici giorni a cercare di dimostrare che le funzioni fuchsiane non potevano esistere, un periodo notevole, considerata la sua competenza e il tempo trascorso a giocherellare con le idee prima di costruire la sua prova. «Ogni giorno rimanevo una o due ore seduto a tavolino, provavo un gran numero di combinazioni e non arrivavo a nessun risultato» scrisse.4 La preparazione non implica soltanto la comprensione del problema specifico da risolvere e gli indizi o le istruzioni a disposizione; comporta un impegno che arrivi fino al punto in cui tutte le idee sono state esaurite. Non un momento di stallo, in altre parole, ma un vero e proprio blocco che pone fine alla preparazione.
Il secondo stadio è l’incubazione, che inizia quando il problema è accantonato. Per Helmholtz, l’incubazione cominciò con l’abbandono del lavoro del mattino e proseguì con la passeggi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’arte di imparare
  4. Introduzione
  5. Parte prima. BASI TEORICHE
  6. Parte seconda. LA RITENZIONE
  7. Parte terza. LA SOLUZIONE DEI PROBLEMI
  8. Parte quarta. SFRUTTARE IL SUBCONSCIO
  9. Conclusioni
  10. Appendice
  11. Note
  12. Ringraziamenti
  13. Copyright