Il termine arabo khalifa designa, nel Corano, Adamo stesso quale «vicario» di Dio sulla terra (2, 30) e l’autorità regale-profetica di Davide (38, 26). La designazione di un sostituto del Profeta – non prevista da alcuna disposizione di quest’ultimo, né dal Testo sacro – mostra come si avvertisse il bisogno di dare continuità all’opera iniziata da Muhammad dandogli un successore: la sua funzione non sarebbe più stata ovviamente quella di trasmettere la rivelazione, quanto piuttosto di custodire l’unità della neonata comunità islamica (umma) e la sua fedeltà agli insegnamenti divini e all’esempio del fondatore.
L’istituzione califfale appena formatasi dovette tuttavia far fronte a tensioni di ogni tipo. Com’è noto, già il primo califfo Abu Bakr si trovò a dover arginare le spinte centrifughe mediante le quali lo spirito beduino cercava di svincolarsi dal potere centrale dopo la scomparsa del Profeta, e le cose non migliorarono coi suoi successori a causa del contrasto tra le differenti fazioni. Con il conflitto tra il quarto califfo Ali (l’ultimo in linea cronologica dei primi califfi) e i suoi avversari, eredi di Uthman (il suo predecessore assassinato), l’unità della umma si spezzò definitivamente, dando origine a differenti e opposte formazioni che non si limitarono a contendersi titoli e ruoli, ma elaborarono argomentazioni che implicavano ciascuna una diversa concezione della natura e dell’esercizio della suprema autorità, sostenute da interpretazioni delle fonti e letture dei paradigmi originari molto diversificate, quando non del tutto antitetiche.
La stessa tradizione islamica, celebrando l’epoca d’oro dei primi quattro califfi «ben diretti» (rashidun), se da un lato manifesta il desiderio di preservare un’immagine idealizzata del periodo delle origini, talvolta poco aderente alla realtà, ma proprio per questo ancora più paradigmatica, dall’altro esprime la consapevolezza della grave frattura prodottasi in seguito come di un fatto in un certo senso irreversibile. Tutte le teorizzazioni e le diatribe intorno alla figura e alle funzioni del capo supremo della Comunità prendono le mosse da questa crisi, dalla sua costante rilettura e dalle interpretazioni che ne sono state date da autori delle epoche successive, spesso più animati dall’intento di giustificare questa o quella tendenza a loro contemporanea che non dall’obiettivo di stabilire con esattezza il dato storico. È inoltre indispensabile richiamare l’attenzione sul fatto che nel corso della storia, come spesso accade, la pratica si è discostata dalla teoria e che il califfato, sebbene ufficialmente abolito soltanto all’inizio del secolo scorso, era nella realtà già stato affiancato o addirittura sostituito da altre forme di autorità: tali forme trovavano la loro legittimazione più nella necessità di conferire ufficialità a ruoli e funzioni di chi in pratica deteneva il potere che nella rispondenza fra qualità e requisiti teoricamente stabiliti per chi doveva reggere le sorti della Comunità e il potere effettivamente esercitato.
Dal punto di vista storico, la distruzione di Baghdad da parte dei Mongoli nel 1258 fu sicuramente percepita nel mondo islamico come una sorta di vera e propria «Apocalisse». In seguito, nonostante formali «passaggi» del titolo califfale prima ai Mamelucchi d’Egitto poi agli Ottomani, non si ricreò un vero califfato universale. Quest’ultima pur gloriosa e plurisecolare manifestazione storica, che almeno nominalmente si è potuta rifare al califfato, non assoggettò mai il Marocco e a Oriente non seppe spingere il proprio controllo oltre l’Iraq, lasciando autonome enormi aree del mondo islamico come quella iranica e centro-asiatica, il subcontinente indiano e l’Insulindia, così come la maggior parte dei Paesi musulmani dell’Africa. Con il crollo dell’Impero ottomano sia il sultanato sia il califfato furono aboliti definitivamente de iure, ponendo fine alla secolare storia dell’istituto califfale e passando immediatamente alla fondazione di Stati nazionali moderni, in cui il recupero di un’autorità sovranazionale non è stato mai riproposto neppure come progetto definito, tantomeno tramite azioni politiche o persino militari.
Come, dunque, e perché si sia giunti solo ora a pretendere la restaurazione del califfato, per quanto a lungo vagheggiato ma mai individuato almeno come obiettivo programmatico realizzabile a breve termine, resta un problema da chiarire.
Anzitutto va tenuto conto che il terrorismo di matrice islamica, benché abbia scelto bersagli simbolici anche in Occidente, non è così ingenuo da pretendere di sconfiggere direttamente la superpotenza americana o Israele; piuttosto ha sempre mirato a una destabilizzazione a danno dei vari regimi arabi e islamici. L’acuirsi delle tensioni fra sunniti e sciiti e la degenerazione della situazione irachena e siriana in una vera e propria guerra civile ne sono la dimostrazione più eloquente. Il caos seguito al periodo delle cosiddette «primavere arabe» ha interessato principalmente questi due Paesi, che da un lato sono stati le sedi storiche del califfato omayyade di Damasco e di quello abbaside di Baghdad, e dall’altro sono emersi come entità statuali proprio un secolo fa con la Prima guerra mondiale, il dissolvimento dell’Impero ottomano e l’iniqua spartizione dei territori arabi tra Francia e Gran Bretagna in virtù degli accordi segreti Sykes-Picot. Questi ultimi furono concordati proprio mentre Lawrence d’Arabia convinceva gli hashemiti custodi dei luoghi santi dell’islam all’alleanza coi futuri vincitori a danno dei turchi e dello schieramento di cui questi ultimi facevano parte. Quella odierna è dunque un’occasione troppo ghiotta per non cercare di ottenere in un solo colpo numerosi vantaggi:
- la liquidazione del nazionalismo arabo, o di quel che ne resta, nonostante i suoi meriti nella lotta per l’indipendenza dalle potenze coloniali, denunciandone l’origine allogena e quindi illegittima, se non addirittura dannosa per aver favorito una frammentazione della grande umma in entità fragili e litigiose;
- la messa in stato d’accusa di tutti i regimi che si sono da allora succeduti, collusi con le potenze straniere e responsabili della svendita della causa araba e dell’orgoglio islamico, cui sarebbe stato impedito scientemente e sistematicamente di ritornare agli antichi splendori;
- lo scavalcamento di tutta la galassia di movimenti islamisti che negli ultimi decenni hanno in vario modo «accettato» di intraprendere una sorta di lunga marcia a livello istituzionale, rinunciando alla lotta armata o comunque riducendola, colpevoli di tradimento anche e forse soprattutto per esser scesi a patti con un «sistema», almeno formalmente e gradualmente, indirizzato verso una «pluralizzazione» delle forze politiche e sociali chiamate a confrontarsi all’interno di una competizione politica ispirata ai modelli dell’odiato Occidente;
- l’intercettazione di un certo numero di militanti delusi e scoraggiati in forza sia di un programma di mobilitazione senza tentennamenti, sia del collegamento con simboli forse arcaici, ma appunto per questo meno usurati dalla globalizzazione e dalla crisi economica, che hanno tolto smalto a tutte le ideologie più recenti, sia infine di un abile e spregiudicata campagna mediatica che unisce l’utilizzo degli strumenti tecnologici più raffinati al recupero di antichissime attese messianiche che parlano degli stendardi neri dei combattenti musulmani provenienti da Est prima della fine dei tempi e dell’avvento dell’atteso Mahdi, la versione musulmana del Messia.
Fine del nazionalismo?
Il concetto stesso di nazionalismo è un prodotto del pensiero occidentale moderno. La sua affermazione presso popoli abituati a concepire i rapporti tra etnia, lingua e Stato in altri termini non è quindi avvenuta senza incontrare problemi e molteplici contraddizioni. Nel mondo musulmano, in particolare, dove l’appartenenza all’unica umma si fondava essenzialmente su basi religiose, per un certo periodo l’ideale panislamico costituì un’alternativa alla penetrazione del nazionalismo. Nonostante ciò, quest’ultimo finì per prevalere a causa di diverse ragioni. Intere aree del grande impero islamico avevano, infatti, conservato nel corso dei secoli una propria specificità nella quale sussistevano molti elementi che potevano essere interpretati come costitutivi di una particolare identità nazionale. Inoltre, con il progressivo indebolimento del potere centrale si era assistito alla rinascita di tradizioni letterarie e culturali locali che, pur non mettendo in discussione l’adesione alla comunità islamica, rappresentavano la manifestazione più recente dell’antica insofferenza nei confronti ora di un’arabizzazione mai definitivamente compiuta (come nel caso dei persiani o dei berberi), ora dell’egemonia di una determinata etnia all’interno della umma stessa (come nel caso degli arabi nei confronti dei turchi). Essendo infine parte integrante della cultura di quei Paesi europei che stavano progressivamente mostrando la loro potenza e imponendo la loro egemonia sul resto del mondo, il nazionalismo sembrava il mezzo più adatto sia per mettersi alla scuola dell’Occidente nella speranza di colmare il divario accumulato negli ultimi secoli, sia per affrontarlo in prospettiva sul suo stesso terreno. Le concezioni e gli ideali propri del nazionalismo hanno così fatto il loro ingresso anche nel mondo arabo e musulmano, e sono stati paradossalmente tanto più assimilati da ciascun Paese quanto maggiormente esso ha dovuto penare per vederli riconosciuti e realizzati grazie a un’aspra lotta per ottenere l’indipendenza proprio da coloro che avevano contribuito a far conoscere e diffondere quegli stessi concetti e ideali. L’ambiguità del rapporto con l’Occidente, ritenuto nello stesso tempo un modello e un ostacolo, ha origine appunto in questo paradosso, pur essendosi arricchita di altri fattori nel corso delle fasi successive. Queste ultime, a loro volta, non sarebbero comprensibili se non si tenesse conto del fatto che, per quanto innovativi, gli elementi provenienti dalla cultura occidentale non furono in grado di scalzare del tutto quelli tradizionali, né seppero amalgamarsi con essi in una sintesi compiuta, sovrapponendovisi piuttosto come un’ulteriore stratificazione tutto sommato abbastanza precaria.
Si deve inoltre tener conto che, per quanto epica ed esaltante, la lotta di liberazione nazionale ha ottenuto risultati soltanto parziali, così come restavano irrisolte altre delicatissime questioni: il nazionalismo che aveva avuto ragione dei colonialisti non aveva paradossalmente allo stesso tempo legittimato proprio quelle entità territoriali che essi avevano creato spartendosi le spoglie dell’Impero ottomano in funzione dei loro interessi? Quali istanze avrebbero dovuto avere la precedenza nella politica dei nuovi Stati indipendenti? Quelle che miravano al superamento di una condizione di frammentazione giudicata comunque innaturale con opzioni in chiave panarabista o addirittura panislamica? Oppure ulteriori autonomie avrebbero dovuto essere concesse a quei raggruppamenti che non avevano ancora goduto dei benefici della battaglia indipendentista (etnie, come berberi e curdi, o comunità religiose come drusi e maroniti)? In tal modo, così come i movimenti islamici non avevano potuto non aderire alle campagne nazionaliste pur rifiutandone l’ideologia, dopo l’indipendenza i governi dei nuovi Stati, nonostante la loro più o meno esplicitamente dichiarata laicità, si trovarono a fare appello all’islam come fattore di legittimazione e di coesione più efficace e sicuro di altri di fronte alla complessità e alla delicatezza della situazione che dovevano affrontare. Troppi insuccessi lungo un ampio arco di tempo hanno fatto sì che il nazionalismo perdesse anche la sua maggiore fonte di legittimazione: il merito di aver conquistato l’indipendenza. Se per le vecchie generazioni, infatti, quest’ultimo resta intatto, quelle nuove, non avendo memoria diretta di quegli eventi, avvertono maggiormente la delusione per le loro speranze disattese.
L’importanza della stagione nazionalista non va però troppo ridimensionata, poiché sembra comunque conservare ancora un certo valore. Non è un caso che gli esponenti dell’attuale radicalismo islamico si affannino molto di più a contestare il valore del nazionalismo che non a criticare le concezioni più caratteristiche della fase successiva, ossia quella rivoluzionaria. Quest’ultima, infatti, non solo non ha riguardato tutti i Paesi arabo-musulmani, ma è stata anche più breve e ha avuto un carattere più intellettuale ed elitario. D’altra parte, come l’ultimo scorcio del XX secolo ha dimostrato con fin troppa evidenza, tra le ideologie che lo hanno caratterizzato, quella nazionalista non sembra la più indebolita, anzi la più capace di trarre alimento dalla crisi delle altre, crisi che appare molto più rovinosa e inarrestabile.
Delegittimazione «religiosa»
Ogni forma di governo che non dipenda direttamente dalle norme islamiche sarebbe priva di qualsiasi legittimità. Non si tratta certo di un argomento nuovo, basti pensare che, oltre ai kharijiti,1 persino il califfato omayyade di Damasco (terminato nel 750 d.C.) fu accusato di essere solo una forma di potere (mulk) e di essersi distaccato dalla prassi corretta improntata alla religione (din) dei primi quattro califfi «ben diretti». Ma è soltanto in epoca più recente che l’anatema (takfir) rivolto all’intera società ritenuta «non più musulmana» o «apostata» ha cercato di giustificare il ricorso al terrorismo che colpisce indiscriminatamente anche innumerevoli civili innocenti. Nessun compromesso sembra pertanto possibile, come del resto ha ribadito il portavoce di IS Abu Muhammad al-Adnani al-Shami nella lettera aperta resa nota all’inizio del mese di Ramadan 2014,2 nella quale ogni autorità, salvo quella califfale, sarebbe «un semplice regno, frutto di conquista e di conseguenza foriero di distruzione, corruzione, ingiustizia, terrore e riduzione dell’essere umano al livello animale». Nella stessa missiva si annunciava tra l’altro la modifica dell’acronimo ISIS semplicemente in IS, unica forma di Stato ammissibile per i credenti non fuorviati da «democrazia, laicità o nazionalismo», perciò invitati a riconoscersi in esso e a schierarsi dalla sua parte. La risposta delle istituzioni islamiche ufficiali conferma la natura assai problematica di una questione irrisolta e tutta interna: la barbara esecuzione del pilota giordano arso vivo da ISIS ha scatenato, come si sa, la reazione militare del suo Paese, ma anche l’università di al-Azhar non ha mancato di far udire la sua condanna in termini perentori: «Devono essere uccisi, crocifissi e bisogna tagliare loro le mani e i piedi». Tale durissima affermazione è coranica, ma ripeterla senza contestualizzarla rischia di far apparire il linguaggio del Testo sacro simile a quello dei fanatici che si vorrebbero in tal modo intimorire. La sanzione stabilita dal Corano si riferisce, infatti, al brigantaggio e oggi sarebbe da interpretare soprattutto come somma minaccia per la criminalità organizzata, tenendo conto però che all’epoca del Profeta non esistevano prigioni e vigeva la legge del taglione in una società che non poteva certo definirsi uno stato di diritto.
Quand’anche si consideri il Corano parola di Dio «alla lettera», non si dovrebbe dimenticare che nessun testo può esser letto senza la testa (a meno che non lo si ripeta come i pappagalli) e occorrerebbe riflettere sul motivo che ha spinto il creatore a mettere la testa in cima a tutto il resto del corpo. Altrimenti si corre il serio rischio di pensare con altre parti del corpo assai meno nobili, finendo per sragionare e dare implicitamente ragione ai nostri avversari semplicemente perché ci mettiamo al loro livello, legittimandone il linguaggio e la logica che esso sottende: logica perversa e distruttiva per entrambi i presunti contendenti, due facce della medesima moneta fasulla.
«Primavere» ambigue
Con le recenti sollevazioni che in molti Paesi arabi hanno condotto alla fine di regimi autoritari e corrotti, abbiamo visto grandi masse mobilitarsi in nome di princìpi e valori che ritenevamo estranei o comunque lontani dalla sensibilità di popolazioni in gran parte musulmane. Anche l’assenza di slogan anti-occidentali o comunque ostili all’imperialismo, al neo-colonialismo e al sionismo ha sorpreso non pochi osservatori, e chi ha potuto seguire in lingua originale il dibattito che si è aperto in quei giorni ha avuto occasione di constatare che esso riguardava anche neologismi altamente significativi. Il concetto di laicità, infatti, comunemente espresso in arabo col termine ‘ilmaniyya (da ‘ilm, «scienza», o da ‘alam, «mondo»), fortemente dipendente da concezioni appunto razionaliste o secolariste tipicamente europee e un po’ «datate», è stato sostituito dal termine madaniyya (in unione a dawla, cioè «stato») che significa «civile», non soltanto in contrapposizione a «militare», ma anche a «clericale» o «religioso» in senso confessionale. Ciò spiega, tra l’altro, anche la decisa partecipazione alle proteste sia di cristiani arabi sia di musulmani non radicali.
Il fatto che, specialmente in Tunisia e in Egitto, si sia passati alla vittoria di movimenti islamisti alla prima tornata elettorale sembrerebbe contraddittorio, ma era in parte inevitabile che inizialmente ne approfittassero quei movimenti già esistenti e radicati nel territorio e che per lungo tempo hanno rappresentato l’unica forza di opposizione organizzata in quei Paesi. Il processo di trasformazione iniziato con le «primavere arabe» ha dunque soprattutto contribuito a far emergere molti nodi irrisolti piuttosto che alla loro risoluzione. Si sono manifestate così dinamiche finora represse o sottovalutate, che potrebbero ancora rivelarsi importanti nel medio periodo.
Ne sono una prova alcune manifestazioni provocatorie di certi esponenti di gruppi più tradizionalisti, che, pur nella loro paradossalità e forse proprio grazie a essa, pongono in questione alcuni punti cruciali e risolutivi rispetto alla posizione dei singoli e dei gruppi circa uno Stato moderno e rispettoso dei diritti umani dei suoi stessi cittadini. Il presunto ritorno all’applicazione integrale e intransigente della cosiddetta «legge islamica», che non è mai stata codificata e si è...