Il contrario della paura
eBook - ePub

Il contrario della paura

Perché terrorismo islamico e mafia possono essere sconfitti

  1. 180 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il contrario della paura

Perché terrorismo islamico e mafia possono essere sconfitti

Informazioni su questo libro

«Erano passati pochi giorni dagli attentati terroristici di Parigi del 13 novembre 2015, quando ricevetti la telefonata di un vecchio amico: "Franco, dovrei partire con la mia famiglia per una vacanza. Che dici? Annullo tutto? Dobbiamo avere paura?". È stato dopo quella conversazione che ho deciso di scrivere questo libro. La preoccupazione del mio amico era la stessa, come dimostrano tutti i sondaggi, della maggioranza degli italiani che, di fronte alla barbarie terrorista o alla forza di intimidazione della criminalità organizzata, sempre più spesso rispondono con la paura. Che tende a trasformarsi in razzismo, xenofobia, se non addirittura in collaborazione, magari involontaria, con i mafiosi.

Proprio per questo diventa una priorità spiegare perché è necessario non avere paura: continuare a uscire, viaggiare, frequentare cinema e concerti significa lottare contro i terroristi, il cui unico obiettivo è privarci delle nostre libertà. Così come denunciare chi chiede il pizzo, le imprese che alterano la libera concorrenza, i mafiosi che truccano gare d'appalto e concorsi pubblici, fidandosi dello Stato che è in grado di garantire sicurezza e protezione, significa liberarsi dalle catene con cui la criminalità organizzata tenta di imprigionare, ogni giorno, le nostre vite.

Ma perché i cittadini possano fidarsi delle istituzioni, è necessario che ognuno si assuma le proprie responsabilità e che tutti dicano la verità. La politica, che deve adottare parole e leggi chiare. La giustizia, che ha il dovere di assicurare provvedimenti seri in tempi certi. La società civile, che deve marcare chiaramente, senza ambiguità, la linea d'ombra tra legalità e illegalità.

Per affrontare efficacemente la sfida epocale alle mafie e al terrorismo non basta il pur necessario contrasto investigativo-giudiziario, come se si trattasse di una semplice questione di ordine pubblico, bensì occorre rimuovere le cause politiche, economiche e sociali che ne hanno favorito lo sviluppo: mafia e terrorismo fungono da agenzia di servizi delle povertà, svolgendo una funzione sostitutiva rispetto alle lacune dello Stato. E hanno in comune il piano criminale di privarci delle nostre libertà e usare il terrore come strumento per moltiplicare le loro ricchezze. Ma la consapevolezza del pericolo mortale che corriamo non deve spaventarci. Perché la verità è il contrario della paura.»

Domande frequenti

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La Piovra

La sindrome di Grimilde non colpisce, dunque, soltanto le amministrazioni del Mezzogiorno, dove la criminalità organizzata è diventata da tempo elemento costitutivo della società stessa. L’incapacità di guardarsi allo specchio è, al contrario, qualcosa che appartiene anche alle istituzioni delle regioni settentrionali. Per anni nessuno ha voluto ammettere che la mafia si era infiltrata anche al Nord, nella politica, nei palazzi, nelle istituzioni.
La storia ci dice che Cosa Nostra è al Nord già dagli anni Sessanta. E che camorra e ’ndrangheta vi sono giunte subito dopo. Esistono gruppi, quindi, che hanno radici sul territorio da quasi mezzo secolo. Come è potuto accadere? Con l’emigrazione, sicuramente. Ma la geografia e le motivazioni economiche non bastano a spiegare il fenomeno. La mafia, al Nord, è arrivata grazie alla corruzione. E, soprattutto, grazie alla sottovalutazione e la complicità di chi, troppo a lungo, ha fatto finta di non vedere. E, tuttora, colpevolmente sottovaluta. Lo abbiamo visto tutti il video, registrato dalle microspie delle forze di polizia, che mostrava una riunione di boss nel corso della quale si stava votando, per alzata di mano, il capo di tutte le ’ndrine tra Milano e la Brianza. Era il 2009. Doveva essere l’inizio di una nuova cultura. E invece è cambiato poco o niente. Certi fenomeni continuano a essere letti soltanto come emergenziali, sporadici, quasi marginali, da affrontare con un solo strumento: la repressione.
È il solito errore: rinunciare a porsi domande politiche e sociali sulle cause di una massiccia presenza criminale, rifiutare di chiedersi se sia in corso o no una trasformazione della società, significa rinunciare alla possibile soluzione del problema. E, soprattutto, consegnarsi al problema stesso. Non a caso, anche grazie alla disattenzione delle istituzioni, della società civile, la criminalità organizzata in questi anni è riuscita a organizzarsi anche al Nord con linee strategiche molto chiare: coinvolgere nella struttura associativa nuovi soggetti, nella maggior parte dei casi non compromessi da precedenti indagini e quindi spendibili. Uno sviluppo dell’associazione in attività e settori meno rischiosi ed eclatanti: gli appalti o la gestione di esercizi commerciali possono rendere assai di più del traffico di stupefacenti. Infine, ma non certo per ultimo, hanno contribuito ad allacciare in maniera importante i contatti con la Pubblica amministrazione e dunque con la politica: obiettivo è il condizionamento di voto nelle elezioni amministrative dove, come è emerso da alcune indagini, in più occasioni la criminalità organizzata è riuscita a far eleggere esponenti della famiglia.
Gli ultimi report investigativi sono in grado di raccontare, con minuzia di particolari, gli insediamenti criminali in tutte le regioni del Nord, nessuna esclusa. La Lombardia, come detto, è quella che ha storicamente la presenza più cospicua, non foss’altro perché offre maggiori possibilità d’investimento in attività legali. Anni di sottovalutazione del problema hanno permesso la radicalizzazione di insediamenti diversi in tutte le province della regione.
Oggi la ’ndrangheta, dopo anni di dominio incontrastato di Cosa Nostra, fa da padrona in tutto il territorio, anche se indagini recenti hanno testimoniato la presenza di gruppi di camorra, dai Di Lauro ai Nuvoletta, interessati chiaramente alla droga, all’edilizia e al settore del gioco. Un anno fa, addirittura, è stato persino sciolto un comune per infiltrazioni della criminalità calabrese, primo caso nella storia della Lombardia.
La ’ndrangheta è l’organizzazione criminale prevalente anche in Piemonte, come ha rivelato l’operazione Minotauro, che ha fatto condannare esponenti del gruppo a circa 500 anni di carcere. Si è scoperta l’esistenza di strutture tradizionali dell’onorata società calabrese, divise in locali e impostate, in genere, su base familiare. Nuove generazioni di criminali sono succedute a quelle vecchie nell’ambito delle famiglie di sangue di più radicata tradizione mafiosa, mantenendo un inalterato grado di pericolosità. Rispetto a quanto accade nella regione d’origine, sembra manifestarsi una maggiore tendenza all’osmosi tra famiglie e provenienze territoriali diverse, tant’è che alcuni criminali siciliani sono stati affiliati regolarmente all’interno dei «locali», creando un meticciato che soltanto all’apparenza può sembrare strano.
In realtà, come sempre fa la criminalità organizzata, piega alcune delle tradizioni all’unico vero dogma: il business, il denaro. In Veneto sempre più frequentemente camorristi e ’ndranghetisti, sfruttando le difficoltà che gli imprenditori hanno ad accedere per via lecita al credito – succede soprattutto nei periodi di recessione o di crisi –, offrono la loro liquidità. Una strategia che assicura poi il controllo diretto di aziende ed esercizi commerciali. In Trentino sono addirittura arrivati i narcotrafficanti a gestire un commercio internazionale di sostanze stupefacenti. In Liguria la ’ndrangheta ha da tempo, e continua ad avere, un controllo capillare del territorio. Ma quello che ha davvero dell’incredibile è quanto è stato documentato dalla Procura distrettuale antimafia di Bologna con l’inchiesta Aemilia: le indagini hanno accertato l’esistenza di un vasto potere criminale di matrice ’ndranghetista, allargatosi a macchia d’olio e in maniera pervasiva, che ha coinvolto, oltre ogni pessimistica previsione, apparati politici, economici e industriali. Cito un’intercettazione ambientale, registrata a Roma nello studio di un importante avvocato d’affari, nella quale due persone vicine all’organizzazione criminale, conversando tra di loro, sostengono che «su Reggio Emilia il clan può contare su 7000 persone, mentre a Parma, almeno su 3-4000». In un’altra conversazione intercettata, un soggetto si lascia andare a un amaro sfogo: «Comandano loro [i mafiosi], non si muove una foglia se Dio non voglia… Per andare a prendere una bottiglia di vino devi andare a chiedere là… sono stato chiaro?».
Per dire: si è dovuto affittare un padiglione della Fiera di Bologna per poter celebrare il processo a tutti gli arrestati. Un padiglione della Fiera, nella «civile» Bologna, per un processo alla ’ndrangheta? C’è bisogno di aggiungere altro per dimostrare che la criminalità organizzata non è una questione territoriale? Che non appartiene ad alcuni ma, al contrario, è una questione che impone una seria riflessione da parte di istituzioni e società?
Negli ultimi due anni, in coincidenza con i lavori per Expo 2015, il prefetto di Milano ha adottato circa 60 provvedimenti interdittivi antimafia nei confronti di imprese risultate controllate, infiltrate o comunque condizionate dalla criminalità organizzata, in particolare da quella calabrese. Bene, la maggior parte di queste imprese si occupava della realizzazione o dell’ampliamento di infrastrutture stradali. Significa che chiunque, tra noi, in questi anni, abbia viaggiato su una strada della Lombardia, magari una di quelle tirate a lucido in vista dell’Esposizione internazionale, ha viaggiato con la ’ndrangheta. Quest’ultima in tutto il Nord Italia non solo ha surclassato la capacità di penetrazione di tutte le altre mafie messe insieme ma, di fatto, è divenuta una dei principali operatori del settore edilizio. Come hanno dimostrato sentenze passate in giudicato, gli affiliati si occupano di movimento terra, gestione di impianti sportivi comunali, trasporti, elezioni amministrative, forniture a imprese. Questo, in altri termini, che cosa significa? Che in nessun modo è possibile parlare, come talvolta si cerca di fare, di una sporadica infiltrazione della ’ndrangheta in un tessuto socioeconomico altrimenti sano, in grado di resistere grazie alla presenza di antichi anticorpi. Lo scenario che abbiamo di fronte è diverso e assai meno rincuorante: di fatto, l’imprenditoria non è più «oppressa» dalla ’ndrangheta. Non la subisce. Ma, in alcuni casi, la cerca, spesso prendendo l’iniziativa. L’obiettivo è fare affari. Guadagnare denaro. Siamo all’evoluzione dell’agenzia di servizio: nel Mezzogiorno la criminalità organizzata è servita quasi da ammortizzatore sociale per servizi socio-essenziali, perché lo Stato latita. Al Nord si chiede invece l’intervento della criminalità organizzata per ottenere in tempi rapidi sostegno all’impresa, con azioni imprenditoriali e finanziarie.
Anche in questi casi, gli esempi sono decine: una famiglia di ’ndrangheta, in Lombardia, è riuscita a mettere le mani su un’impresa importante, un call center da circa mille dipendenti, con un fatturato di rilievo e clienti molto importanti. Un business di questo tipo per la criminalità organizzata ha un significato determinante per tutta una serie di motivi. Per prima cosa è una fonte di guadagno immediato, visto che nel caso appena citato si trattava di una società con un portafoglio spendibile. In secondo luogo, grazie a quest’ultimo fattore la ’ndrangheta ha potuto immettere nel circuito legale denaro che proveniva da attività illecite. In sostanza, comprare un’azienda sana ti permette di riciclare con serenità soldi sporchi. Infine, un’operazione di questo tipo consente di poter disporre di posti di lavoro, e dunque di consenso sociale, con numeri elevatissimi. Non a caso, immediatamente il gruppo fece in modo di aprire una succursale del call center direttamente in Calabria.
Sempre in Lombardia, è stato scoperto – e una sentenza ha già inflitto pesanti condanne – che un capobastone della ’ndrangheta aveva organizzato una banca clandestina. Un vero istituto di credito, con sede negli scantinati di un palazzo di Seveso, che incassava e prestava denaro. In pochi giorni era stata in grado di recuperare cinque milioni di euro in contanti e di girarne a centinaia nel giro di alcune settimane. Mi ha fatto molta impressione – e continua a farmela – quello che dicevano alcuni degli aderenti all’associazione, in una delle telefonate intercettate dalle forze dell’ordine: «Il picciotto urla, il sovrano risolve e fa business nel momento di difficoltà». Significa che quando gli imprenditori sono in difficoltà, il sovrano, cioè il boss, è pronto a intervenire in modo da ottenere lui stesso un beneficio.
Meccanismi di questo tipo fanno nascere e crescere una rete collusiva di rapporti tra delinquenti e vittime del reato che non sono più quelli di stampo tradizionale. Si tratta, invece, di rapporti nei quali sembra che gli uni si confondano con gli altri.
La rottura di questo confine tra «l’aggressore» e «la vittima» avviene e si alimenta proprio grazie alla collusione e alla corruzione. E in questa maniera ne risultano irrimediabilmente compromessi il comportamento civico, la fiducia, le reti di relazione, cioè il capitale sociale di un territorio. Si instaura un intreccio perverso tra società civile e società «illegale» che si autoalimenta e di cui è difficile valutare l’effettiva portata. È sempre lo stesso reticolo clientelare tra imprese, esponenti politici e amministratori pubblici, studi professionali e organizzazione criminale – ossia, i cosiddetti comitati d’affari – che, interamente fondato su scambi e favori reciproci, è stato collaudato dopo il terremoto dell’Irpinia.
A partire da allora l’impresa criminale ha cercato di evolversi attraverso il tentativo continuo di diversificare i propri investimenti. È uscita dall’area ristretta del settore edile e degli appalti pubblici ed è entrata, di prepotenza, in molti altri mercati.
Oggi si investono i profitti ricavati nell’impresa madre in altre attività lecite, con l’espediente di una schermatura tra l’impresa e l’origine criminale dei capitali. In più, c’è il tentativo di occultare ulteriormente il rapporto che esiste tra il proprietario effettivo dell’impresa – cioè colui che ha accumulato il capitale – e la sua origine criminale.
Questa operazione parte da una linea di confine più trasparente, cioè la linea dell’economia legale. Dopodiché si spinge verso i limiti estremi dell’area della legalità, fino a superarli, fino a diventare una frontiera confusa e indefinita dell’economia illegale. Insomma, l’originaria impresa criminale, che una volta agiva con l’uso diretto del nome del camorrista attraverso varie puliture societarie, è stata poi trasformata in diverse attività formalmente lecite.
La spinta a rigenerarsi nasce dalla necessità di tutelarsi rispetto alla normativa antimafia. Abbiamo visto che le organizzazioni criminali acquistano la proprietà o il controllo di un’azienda per finalità di riciclaggio. Come si può intuire, l’efficacia di tale operazione dipende dalla forza della sua copertura. Il tentativo è quello di ridurre al minimo le probabilità che dal reinvestimento nelle attività lecite si risalga alla provenienza illecita del capitale investito, e ciò è possibile soltanto con il paravento di una proprietà apparente, che formalmente sembri di qualcun altro. Di sicuro, l’espediente tecnico della figura del prestanome agevola l’intera operazione, dal momento che sono gli stessi affiliati a essere utilizzati sia per la gestione delle attività economiche pulite sia per mantenere relazioni con vari settori legali della società. Dunque, l’obiettivo principale del riassetto è quello di darsi una veste che sia all’apparenza sempre più legittima, con l’artificio di continui mutamenti e di tanti intrecci delle strutture societarie e amministrative. In più, l’organizzazione si muove sul mercato con le più svariate denominazioni e ragioni sociali delle aziende, proprio allo scopo di impedire l’identificazione dei soggetti che si celano alle spalle dell’impresa. Si tratta di un’evoluzione societaria che si accompagna spesso a processi di aggregazione più ampia, processi che sono necessari anche a ridurre le tensioni tra clan e ad accrescere il potere contrattuale, oltre a ridurre i costi.
Torno nella mia Campania per fare un esempio. Per prime, nella zona di Caserta, le imprese si erano organizzate in vari consorzi, a seconda del tipo di attività: esistono imprese fornitrici di calcestruzzo, quelle che operano nel campo dell’estrazione e della fornitura degli inerti, quelle impegnate in azioni di bonifica. Se l’attività criminale si presenta come impresa legale e agisce secondo criteri di mercato, ciò è dovuto al fatto che il mercato attuale non è in grado di stabilire alcuna distinzione tra l’azienda legale e il suo titolare effettivo, tra colui che possiede il denaro e l’origine del capitale.
In definitiva, la mancanza di una linea netta di demarcazione tra l’ambito legale e quello criminale rende difficile individuare la trasparenza dei soggetti che agiscono nel circuito economico. Una cosa è certa, la tradizionale impresa criminale che una volta si identificava con il mafioso imprenditore è stata da tempo, e definitivamente, sostituita da queste nuove imprese «legalizzate». Che spesso non hanno neppure bisogno di esercitare la forza di intimidazione dell’organizzazione criminale di appartenenza. È sufficiente la forza del denaro, di cui, a differenza dei concorrenti onesti, possono disporre in misura pressoché illimitata. Se l’obiettivo principale dell’organizzazione è riciclare, sono in grado di imporre una politica del prezzo non concorrenziale.
Un sistema di questo tipo ha consentito all’impresa criminale di accaparrarsi fette sempre più larghe e significative di mercato legale. Avviene sempre più spesso che i clan impongano ai gestori merce che l’organizzazione commercializza, in veste di fornitore: vi siete mai chiesti perché, in certi periodi, nei bar comincia ad apparire all’improvviso una marca di caffè fino a poco tempo prima pressoché sconosciuta? Ci sono decine di inchieste che testimoniano come la mafia sia riuscita a imporre persino la farina da utilizzare per fare le pizze. E chi se ne importa se si trattava di una qualità scadente.
Per poter spostare i piani, e invadere dunque l’economia legale, la criminalità organizzata al Nord, ma non solo quella, utilizza una specifica tipologia criminale: quelli che un tempo venivano chiamati intermediari e che oggi, con una definizione che ritengo particolarmente felice, si chiamano «facilitatori». Sono il tratto d’unione tra i due mondi, coloro che – rigorosamente in giacca e cravatta – sono in grado di mettere allo stesso tavolo il politico, l’imprenditore e il camorrista. Il loro compito è quello di agevolare i rapporti e, di conseguenza, la distribuzione del denaro pubblico tra i vari soggetti in danno della comunità.
C’è una parola che designa perfettamente questo tipo di sistema: il «dispositivo».
Il dispositivo, scrive Michel Foucault,
è, in primo luogo, un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del non-detto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo esso stesso è la rete che si stabilisce fra questi elementi… In breve, fra questi elementi, discorsivi o meno, c’è una specie di gioco, di cambi di posizione, di modificazione di funzioni che possono, anche loro, essere molto differenti. … per dispositivo intendo una specie, diciamo, di formazione che, in un dato momento storico, ha avuto… una funzione strategica dominante… si tratta di una certa manipolazione di rapporti di forze, di un intervento razionale e concertato in questi rapporti di forze, sia per svilupparle in una tal certa direzione, sia per bloccarle, oppure per stabilizzarle, utilizzarle.
In sostanza, il dispositivo è quel sistema, anche solo figurato, che consente a più forze potenzialmente conflittuali di funzionare in modo sintonico e armonioso. L’ammortizzatore dell’auto è il classico dispositivo perché consente, a due rapporti di forza che si dovrebbero scontrare, di funzionare in modo sintonico. La camorra è un dispositivo perché consente a una società connotata da diseguaglianze, mancanza di lavoro, illegalità diffusa, prepotenze, illeciti da parte dei pubblici poteri, di funzionare perché si pone tra il pubblico potere e le masse con finalità di calmierazione, di pace sociale. E un dispositivo sono i facilitatori: prendono tre forze all’apparenza contrapposte, e purtroppo soltanto apparentemente, e le mettono in condizione di fare affari insieme. Sulle spalle dei cittadini.
Le organizzazioni mafiose possono avvantaggiarsi di una zona grigia di collusione con altri soggetti e si possono alleare, per lo svolgimento di alcune attività, con i «colletti bianchi» (imprenditori, funzionari pubblici a tutti i livelli decisionali, esponenti politici, istituti bancari, professionisti ecc.) i quali, pur essendo di per sé estranei alla struttura delle organizzazioni criminali, intrecciano con queste ultime rapporti d’affari reciprocamente lucrosi.
I facilitatori, al pari dei prestanome, sono gli strumenti di cui le organizzazioni criminali si servono per entrare in rapporto con quella che definiamo la «zona grigia» della società civile, un territorio nel quale ritroviamo pezzi di istituzioni e frange del mondo economico-finanziario. Sono uno dei principali strumenti delle mafie per realizzare le proprie strategie. Sono quei soggetti, apparentemente estranei alla realizzazione delle condotte di possibile rilevanza penale o di prevenzione, cui le organizzazioni criminali ricorrono per lasciare liberi da sanzioni i reali gestori delle attività illecite.
Attorno alla capacità repressiva che abbiamo nei confronti di queste persone si gioca gran parte della nostra reale capacità di aggressione alle mafie. Soprattutto in quei territori dove il denaro, dunque la corruzione, è la vera arma. Non si tratta, evidentemente, di un problema soltanto italiano. Non a caso, la risoluzione approvata dal Parlamento europeo il 23 ottobre 2013 chiede ai paesi della Ue di attribuire rilevanza penale al comportamento dei prestanome. Raccomanda agli Stati membri di introdurre...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il contrario della paura
  4. Un nuovo attacco all’Occidente
  5. Avere paura è arrendersi
  6. La lunga stagione del terrorismo politico in Italia
  7. Paura e libertà
  8. La lezione americana
  9. Immigrazione e criminalità
  10. Terroristi in casa nostra
  11. Mafie e terrorismo islamico
  12. Una convergenza di interessi
  13. Quando il terremoto diventa business
  14. La cappa
  15. La pista dei soldi
  16. La sindrome di Grimilde
  17. Di che cosa parliamo quando parliamo di mafia
  18. La Piovra
  19. Mafia Capitale
  20. In Sicilia la mafia non esiste più…
  21. Italia, provincia del narcotraffico
  22. La sfida dello sport
  23. Il tempo della giustizia
  24. L’antimafia e l’antimafia del malaffare
  25. Copyright