
- 312 pagine
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I grandi misteri della Storia
Informazioni su questo libro
Chi tracciò le linee di Nazca e con quale scopo? Il tesoro dimenticato di Akhenaton è sepolto a Tell el-Amarna? I Vichinghi furono i primi a scoprire l'America? Perché fu creata l'Inquisizione? Come morì la ragazza biondo platino più sensuale della storia del cinema?
La storia è piena di domande senza risposta, di misteri irrisolti che hanno lasciato perplessi studiosi di tutto il mondo e di fatti inspiegabili che ancora oggi suscitano controversie. Dopo l'entusiastica accoglienza riservata dai lettori al volume I grandi enigmi della storia, con oltre centomila copie vendute, il canale tematico più famoso del mondo presenta venticinque nuovi misteri che avvinceranno tutti gli appassionati.
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Informazioni
1
Le linee di Nazca: una sfida dal passato
Il deserto di Nazca è un’immensa distesa arida stretta tra l’oceano Pacifico e i contrafforti occidentali delle Ande a sud del Perù. Fino a cento anni fa nessuno pensava che potesse nascondere qualcosa di interessante. Invece, con grande sorpresa, questa piana desertica è stata lo scenario di uno dei ritrovamenti archeologici più sensazionali del XX secolo. Alla fine degli anni Venti vi furono scoperte alcune gigantesche incisioni, simili all’opera di un pittore sconosciuto che avesse utilizzato il terreno come un’immensa tela per rappresentare con precisione sorprendente forme geometriche, complessi diagrammi lineari, figure animali e umane. Tutti disegni colossali, di dimensioni sovrumane. Studiosi di ogni parte del mondo si misero subito al lavoro per esplorare la zona e tentare di svelare il misterioso significato di quei disegni, nonché l’identità degli autori, dei quali non si sapeva nulla. Ancora oggi, dopo decenni, le linee di Nazca si prestano alle più disparate interpretazioni degli esperti di ogni disciplina: archeologi, matematici, astronomi, storici e altri ancora. Questo deserto peruviano è diventato anche il laboratorio prediletto da specialisti non accademici, come parapsicologi e ufologi, che nel tempo hanno elaborato teorie di ogni tipo. Tutti hanno cercato di far luce, almeno in parte, sui misteriosi disegni, ma Nazca rappresenta tuttora uno dei più importanti interrogativi dell’archeologia del XX secolo, che continua a mettere a dura prova chi è alla ricerca di una spiegazione.
Nel sud del Perù, a meno di cinquecento chilometri da Lima, sorge la cittadina di Nazca (o Nasca, come la chiamano gli abitanti). Al giorno d’oggi questa località è una delle mete turistiche più animate del paese, in cui ogni giorno confluiscono centinaia di persone provenienti da ogni parte del mondo, per ammirare una delle espressioni artistiche più sconcertanti di tutti i tempi. Fra i viaggiatori che raggiungono questo remoto angolo del pianeta ci sono esperti in discipline che vanno dalla fisica all’archeologia, ma anche seguaci della spiritualità new age e dell’esoterismo, desiderosi di vivere un’esperienza mistica che li metta in contatto con la sapienza ancestrale di un popolo precolombiano ancora poco conosciuto. I turisti non arrivano fin qui per visitare la cittadina, bensì per ammirare le famose linee di Nazca, nell’area desertica che si estende pochi chilometri più a ovest: giganteschi diagrammi tracciati sul terreno secoli fa e rimasti a lungo nascosti allo sguardo dell’uomo comune. In un batter d’occhio questo luogo è passato dal totale oblio alla fama internazionale, grazie a una scoperta fortuita e resa possibile solo dalle tecnologie più moderne.
Il passato a vista d’uccello
Nel 1927 l’archeologo peruviano Toribio Mejía Xesspe, che lavorava con l’illustre Julio César Tello (oggi considerato il padre dell’archeologia peruviana), percorreva le valli alluvionali delle Ande nel sud del Perù in cerca di possibili siti per future missioni archeologiche. Mejía e Tello erano impegnati in una vasta campagna di scoperta di resti archeologici per ampliare le conoscenze dell’epoca sulle culture preispaniche precedenti all’impero inca, delle quali si sapeva pochissimo. Gli studiosi pensavano che fosse indispensabile saperne di più per far luce sui misteri della civiltà inca. Mejía giunse a Nazca durante una missione esplorativa sui contrafforti della grande catena montuosa e in quell’occasione notò un’anomalia che non riguardava le montagne, bensì il vasto deserto che le separava dall’oceano: da una certa altitudine si scorgevano, tracciate sulla superficie terrestre, alcune linee che occupavano ampie distese di terreno e dovevano per forza essere opera dell’uomo.
Prima dell’arrivo di Mejía, solo gli esploratori spagnoli si erano accorti di quei disegni. Il conquistatore spagnolo Pedro Cieza de León, nella sua opera Crónica del Perú, del 1553, parlava di segni sul terreno nella regione di Nazca, linee probabilmente tracciate dagli antichi abitanti dell’area e visibili dalle alture circostanti. Poco dopo, nel 1568, Luis de Monzón (governatore delle province di Rucanas e Soras) ipotizzò che quei solchi fossero stati utilizzati come strade. Dovettero però passare altri quattro secoli prima che fosse possibile ammirare le reali proporzioni delle incisioni nel deserto: quando Mejía fece la stessa scoperta di Cieza de León, a quattrocento anni di distanza, poté infatti compiere esplorazioni aeree che mostrarono al mondo intero la grandezza del fenomeno. Dal cielo si poteva ammirare tutta l’area di 150 chilometri quadrati solcata dalle linee (anche se la maggior parte dei disegni si concentra in 20 chilometri quadrati). Fu però solo nel 1939, con l’arrivo del ricercatore americano Paul Kosok, dell’Università di Long Island (New York), che si cominciò a utilizzare in modo sistematico la fotografia aerea per dare un ordine all’enorme quantità di informazioni raccolte. Kosok si trovava in Perù per studiare l’idrologia e i sistemi di irrigazione dei villaggi precolombiani nell’area andina, soprattutto nelle valli di Ica, Palpa e Nazca, ma, com’era già accaduto a Mejía, ben presto la sua attenzione fu catturata dai disegni nel deserto.
Sul suolo arido c’erano migliaia di linee rette che formavano disegni intricati e diagrammi con proporzioni bizzarre, ma molto precise. Alcune figure erano colossali e la linea retta più lunga misurava 14 chilometri. C’erano poi spirali e linee a zig-zag, di complessità variabile: alcune molto semplici, altre veri e propri labirinti. Un secondo gruppo di linee era costituito da tracciati che rappresentavano figure geometriche (triangoli, rettangoli o trapezi) di un rigore matematico sorprendente, che erano state ripulite con cura dai sassi e formavano una sorta di piste dalle dimensioni impressionanti: il cosiddetto Grande Rettangolo è alto 850 metri e largo 110. Per ultime furono scoperte le rappresentazioni più enigmatiche e affascinanti, quelle figurative: immagini di animali ed esseri umani visibili nella loro interezza solo dal cielo. Davanti agli occhi increduli dei ricercatori apparvero uno dopo l’altro una scimmia, un cane, un condor, un pellicano, un airone, un colibrì, un capodoglio, una balena, un’orca, un alligatore, un ragno e anche una figura umanoide sul pendio di una collina e un disegno simile a mani protese, per un totale di quasi settanta figure. La maggior parte di queste forme era associata a una delle piste menzionate prima e anche le loro dimensioni erano sorprendenti: il Grande Colibrì misura 97 metri di lunghezza, mentre il Pellicano raggiunge addirittura i 285 metri. Questi giganteschi disegni ricevettero il nome di «geoglifi» (letteralmente, dal greco, «inciso o cesellato sulla terra») e con le successive esplorazioni aeree ne sono stati scoperti di nuovi, l’ultimo all’inizio del 2011.
Nel 1946 Kosok si unì a chi sarebbe diventata una delle figure di spicco nell’investigazione delle linee di Nazca: la matematica tedesca Maria Reiche, che dedicò cinquant’anni della propria vita allo studio e alla conservazione del sito archeologico del deserto di Nazca. Kosok e Reiche collaborarono per tre anni, al termine dei quali Kosok tornò negli Stati Uniti, mentre la ricercatrice tedesca continuò a lavorare al mistero delle linee. Uno dei primi obiettivi degli archeologi fu determinare l’età esatta dei geoglifi, un compito già di per sé arduo al quale si aggiungeva un altro quesito non meno rilevante: come avevano fatto quelle linee a sopravvivere per secoli, immuni agli effetti del clima e all’erosione?
Leggere il suolo desertico
Il segreto della persistenza dei geoglifi risiede semplicemente nella natura dell’ambiente desertico: le condizioni climatiche estreme del deserto di Nazca fanno del terreno una tela perfetta su cui l’azione dell’uomo risulta quasi perenne, se non è cancellata da un altro essere umano. Il terreno è composto da un primo strato di sabbia e ciottoli ricchi di ferro, che si ossida a contatto con l’aria assumendo un colore rossiccio. Subito sotto, a pochi centimetri dalla superficie, si trova uno strato calcareo composto quasi interamente da gesso, più resistente. I disegni sono stati creati togliendo lo strato rosso e lasciando scoperto quello bianco, che si è indurito a contatto con l’aria e ha acquisito una tonalità giallognola. La sostanziale assenza di precipitazioni e venti forti ha consentito ai disegni di rimanere inalterati nel corso dei secoli: un bel colpo di fortuna per il patrimonio archeologico mondiale.
Datare i disegni risultò più complicato: da una prospettiva aerea si poteva ammirare il maestoso spettacolo dei geoglifi, ma mettersi all’opera nel deserto era un’altra faccenda. Il duro lavoro quotidiano diede però qualche frutto ai ricercatori che sopportavano condizioni estreme. Oltre ai magnifici disegni, c’erano altre tracce della presenza dell’uomo nel deserto: furono ritrovati numerosi (e piccoli) frammenti di ceramica, nonché ciò che probabilmente era stato utilizzato per scavare i disegni nel terreno, come bastoni e collinette artificiali. Gli archeologi collegarono questi ritrovamenti a quelli fatti nelle valli vicine ai contrafforti delle Ande, dove erano state scoperte le tracce di un’antica civiltà battezzata «civiltà nazca», dato che i principali insediamenti sorgevano nell’omonima valle. Questa cultura era fiorita tra il II e il VI secolo d.C. e, insieme a quella di Moche e di Tiwanaku, aveva dato luogo a quello che gli archeologi chiamano il «periodo classico» delle civiltà andine precolombiane. Durante i lavori erano comparsi resti di ceramica simili a quelli trovati nel deserto, e nelle tombe erano stati rinvenuti tessuti riccamente decorati con motivi che spesso ricordavano i geoglifi. A poco a poco emersero le tessere del puzzle che consentirono di formulare le prime ipotesi sul significato dei disegni.
Le informazioni recuperate confermarono che le linee risalivano all’epoca di massimo splendore della civiltà nazca. La maggior parte degli archeologi sostiene che furono tracciate in un arco di tempo piuttosto lungo, e furono quindi scavate e conservate da diverse generazioni. Si spiegherebbe così il fatto che alcuni disegni (soprattutto i motivi geometrici) si sovrappongano gli uni agli altri: con il passare del tempo potevano sorgere nuove esigenze che richiedevano la realizzazione di altre figure nella stessa area. Restava da capire come avessero fatto gli antichi abitanti del luogo a tracciare quei complessi disegni. Maria Reiche studiò minuziosamente il metodo di realizzazione delle incisioni e, dal momento che non erano stati ritrovati resti di strumenti in legno o di ossa animali che indicassero l’impiego di bestiame, carri o altri macchinari, ne dedusse che tutto il lavoro di pulizia del terreno era stato fatto a mano, probabilmente da gruppi di uomini che si dedicavano a eliminare le pietre dall’area interessata. Reiche notò inoltre alcuni monticelli equidistanti fatti con le pietre rimosse, che dall’alto appaiono come punti scuri sulla superficie terrestre. Osservò poi che i bordi delle piste (che alcuni archeologi chiamano anche «piazze») erano delimitati da cumuli di sassi allineati, simili a recinzioni o muretti di pochi centimetri. Questi accumuli di materiale, così come il tracciato stesso dei bordi, conservavano la prospettiva e rivelavano una precisione geometrica impeccabile.
Reiche realizzò varie simulazioni per ricreare il lavoro degli antichi indigeni e arrivò a ipotizzare che per le piste (o piazze) più ampie fossero stati impiegati circa trecento operai, in un arco di tempo di due mesi. Ciò dava un’idea del notevole sviluppo economico della civiltà nazca, se era in grado di organizzare il lavoro di tanti uomini per un periodo di tempo così prolungato. Reiche intuì che i muretti e le linee erano stati tracciati utilizzando corde legate a paletti di legno, di cui furono ritrovati i resti, ma, nonostante tutte queste scoperte, ancora oggi per i ricercatori è una sfida riuscire a spiegare la precisione matematica e geometrica dei disegni. Si è calcolato che il margine di errore nella proiezione delle linee sia inferiore al due per mille: sono perfettamente rette. Reiche osservò che su entrambi i lati delle linee rette ce n’erano altre, più sottili e fatte di sassi, e notò anche i monticelli di pietre che si susseguivano a una certa distanza l’uno dall’altro. Ne dedusse che il materiale pietroso rimosso per incidere le linee era accumulato con precisione al loro fianco e che i monticelli servivano a evitare che la corda deviasse dal proprio percorso, a mano a mano che si allontanava dal punto di origine.
Le conclusioni della ricercatrice tedesca non furono accettate dall’intera comunità scientifica, ma la solidità del lavoro svolto sul campo depose sempre a favore delle sue teorie. C’era però un interrogativo al quale nemmeno Reiche era riuscita a dare una risposta: com’era stato possibile, in epoca precolombiana, realizzare disegni di quella grandezza con una maestria simile e senza i mezzi per verificare dall’alto l’andamento dei lavori? La complessità dei disegni e la sicurezza con cui erano stati tracciati continuavano a sconcertare gli esperti. La teoria di Reiche al riguardo si basava su un metodo che consisteva nel riprodurre in grande una figura già disegnata in scala inferiore, mediante la riduzione al quadrato. L’impiego di questa tecnica nella creazione di imponenti opere era già stato documentato, per esempio nell’Egitto faraonico. Per riprodurre poi i disegni sul suolo desertico e in scala maggiore si utilizzavano paletti e corde che, come antichi compassi, consentivano di tracciare linee rette e curve.
Qualcuno si spinse ancora più in là, sostenendo che gli antichi abitanti di Nazca fossero in grado di volare. Nel 1975 gli americani Jim Woodman e Julian Nott ipotizzarono che gli indigeni della civiltà nazca avessero le conoscenze tecniche necessarie per costruire dispositivi aerostatici con cui potevano volare e osservare dall’alto le figure nel deserto, per supervisionarne la realizzazione. Nel 1976 fabbricarono una mongolfiera, il Condor, con tessuti e materiali simili a quelli trovati durante gli scavi, ed effettuarono un breve volo sopra i geoglifi. Nonostante la risonanza mediatica, l’iniziativa non riscosse grande successo fra gli esperti del settore.
Rimanevano senza risposta alcune domande fondamentali. Oltre al metodo di realizzazione delle linee, era ancora ignoto il loro significato. Si sapeva quando erano state tracciate, e forse anche da chi, ma perché? A quale scopo? Quale messaggio nascondono queste meraviglie scavate nel terreno centinaia di anni fa?
Decifrare i segni di un’antica sapienza
Gli interrogativi sullo scopo e il significato delle linee di Nazca hanno spinto centinaia di specialisti di tutte le discipline a interessarsi a questa stupefacente manifestazione artistica precolombiana dell’area andina. Il loro scopritore, Mejía Xesspe, azzardò una prima interpretazione basata sulle sue impressioni e su una profonda conoscenza di queste culture. Secondo l’illustre archeologo peruviano, le linee avevano un chiaro significato religioso; Mejía riteneva che quei complessi tracciati avessero uno scopo rituale e che fossero percorsi da seguire durante le cerimonie di venerazione degli dèi. Anche se non sviluppò questa teoria, dal momento che in seguito si dedicò allo studio di civiltà andine differenti, le sue conclusioni ispirarono gli altri studiosi.
La prima interpretazione globale delle linee emerse dal lavoro congiunto di Kosok e Reiche, alla fine degli anni Quaranta. Come ricorda lo storico dell’arte Henri Stierlin, i due esperti si basarono «sull’impressione che quei segni fossero in qualche modo legati al calendario. Le figure animali distribuite sul terreno evocano l’immagine di un gigantesco zodiaco […] le linee, i triangoli e i trapezi rappresentano strumenti per le osservazioni astronomiche». Entrambi i ricercatori studiarono la relazione tra le linee e i punti in cui sorgevano e tramontavano le stelle, i pianeti e le costellazioni più importanti, per verificare se i geoglifi fossero strumenti per le osservazioni astronomiche, e lo fecero tenendo conto non solo dell’importanza di date come solstizi ed equinozi, ma anche di alcune ricorrenze legate al calendario agricolo andino, come per esempio il 6 maggio, il giorno di inizio del raccolto. Kosok e Reiche pubblicarono le loro conclusioni anni dopo e, come ricorda Stierlin, affermarono che «le linee sono “il più grande libro di astronomia del mondo” e rappresentano “il più bel calendario dell’antichità”». Le linee di Nazca sarebbero quindi un calendario astronomico creato per prevedere con esattezza l’inizio delle stagioni e dei raccolti, e alcuni disegni sono rappresentazioni terrestri molto elaborate delle costellazioni. La scimmia sarebbe connessa all’Orsa Maggiore e il ragno a Orione e alla stella Sirio. Secondo i due ricercatori, inoltre, le incisioni risalivano a un tempo molto remoto: tenendo conto dei cambiamenti di posizione delle principali costellazioni nel cielo notturno nel corso dei secoli (causati dal fenomeno conosciuto come «precessione degli equinozi»), perché le linee di Nazca coincidano con le stelle corrispondenti bisogna tornare indietro fino al I millennio a.C., ben prima della nascita della civiltà nazca.
Questa teoria ebbe un forte impatto sulla comunità scientifica e fu ampiamente accettata, ma vi furono anche importanti detrattori che ne attaccarono le basi. Nel 1967 la Smithsonian Institution e la National Geographic Society avviarono un ambizioso progetto per verificare la validità scientifica della teoria astronomica. Fu incaricato di dirigere le operazioni l’astronomo americano Gerald S. Hawkins, che anni prima aveva condotto importanti ricerche sulle connotazioni astronomiche del monumento megalitico più famoso del mondo, Stonehenge (Gran Bretagna). Hawkins si trasferì nel deserto peruviano insieme alla sua équipe per misurare 72 linee e 21 figure geometriche in 186 diverse direzioni. I dati furono analizzati al computer, con un software che conteneva informazioni relative a 45 corpi celesti visibili dalla latitudine di Nazca tra il V millennio a.C. e il 1900 d.C. Il risultato fu scoraggiante: l’80 per cento delle direzioni indicate dai disegni non coincideva con le costellazioni nel cielo. Hawkins ne dedusse che «non si può attribuire alle linee una funzione astronomica, ed esse non hanno alcun ruolo nella creazione di un calendario». Bisognava dunque lasciare spazio ad altre interpretazioni, anche se l’interpretazione astronomica delle linee di Nazca è ancora oggi molto popolare.
Alcuni ricercatori proposero soluzioni più fantasiose: il tedesco Georg A. von Breunig, per esempio, ipotizzò che le figure geometriche di Nazca fossero piste per la corsa dove si allenavano le persone con incarichi di rilievo nella società precolombiana; Breunig si basava sull’importanza che avevano avuto i corrieri al servizio del monarca inca, fondamentali nell’organizzazione politica dell’impero, con la sua imponente rete stradale. Le manifestazioni sportive, inoltre, avevano connotazioni significative nelle civiltà preispaniche (come il famoso gioco della palla dei maya) e questa funzione quindi non era in contrasto con il carattere sacro del deserto e delle sue linee, riconosciuto dalla maggior parte degli studiosi. Questa interpretazione non ebbe però grande seguito e quasi tutti tornarono ad abbracciare la teoria religiosa di Mejía. Secondo l’esploratore britannico Tony Morrison, le linee e le piste erano state luoghi di ritrovo dove le comunità indigene praticavano il culto degli antenati, e le figure animali rappresentavano gli stemmi di famiglia dei diversi clan che si riunivano per adorare un antenato comune. L’americano Johan Reinhard pensò invece a rituali per la fertilità. La civiltà nazca era basata sull’agricoltura e aveva messo a punto un avanzato sistema di canalizzazione, per trasportare l’acqua dalle montagne alle valli circostanti. Secondo Reinhard, i disegni non indicherebbero le stelle, bensì la cordigliera. Le piste o piazze create nel deserto erano utilizzate per il culto della fertilità e dell’acqua delle montagne orientali, mentre le linee rappresenterebbero i canali costruiti nella valle. L’antropologo Anthony Aveni fu un sostenitore di questa teoria, ma enfatizzò l’aspetto rituale delle linee e aggiunse che le figure animali avevano probabilmente un carattere totemico. Al giorno d’oggi continuano a sorgere nuove interpretazioni sul significato delle linee e, dal momento che spesso i dibattiti fra scienziati non raggiungono il grande pubblico, la gente cerca risposte altrove, incappando a volte in teorie azzardate che rispecchiano le inquietudini della loro epoca.
Significati oltre le stelle
Le linee di Nazca hanno incuriosito anche esperti in discipline molto lontane dalla scienza, soprattutto a partire dagli anni Sessanta. Con il rifiorire di correnti spiritualiste ed esoteriche in Occidente, furono molti gli autori di fama internazionale che si interessarono a uno dei misteri più sconcertanti dell’epoca. Nel 1986 uscì Ricordi dal futuro, uno dei libri più venduti del XX secolo, in cui lo svizzero Erich von Däniken proponeva la sua affascinante teoria: secondo Däniken l’evoluzione dell’essere umano era il frutto di una mutazione programmata da visitatori extraterrestri appartenenti a un passato remoto, che tornarono...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- I grandi misteri della storia
- Premessa
- 1. Le linee di Nazca: una sfida dal passato
- 2. Esiste uno Stonehenge in Nord America?
- 3. Akhenaton, il faraone eretico
- 4. Sulle tracce di Achille
- 5. Tartesso: un regno tra storia e mito
- 6. Il Tempio di Salomone
- 7. I misteri del Gòlgota: la tomba di Cristo
- 8. I quaranta giorni sconosciuti di Gesù
- 9. Ai piedi del vulcano: Pompei e le città del Vesuvio
- 10. Vinland: quando i vichinghi scoprirono l’America
- 11. Le città perdute dei maya
- 12. La Santa Inquisizione
- 13. Puritanesimo, isteria e morte:i processi alle streghe di Salem
- 14. La massoneria: tra Salomone e Lucifero
- 15. Il caso Booth: dubbi sull’assassinio di Lincoln
- 16. Harry Houdini: omicidio?
- 17. Rasputin, lo stregone degli zar
- 18. La fine dei Romanov
- 19. Destinazione sconosciuta: il mistero del saccheggio nazista
- 20. Il segreto sotto le tuniche: il Ku Klux Klan
- 21. La morte di Marilyn Monroe
- 22. Il caso JFK
- 23. Extraterrestri: un mistero che arriva dal passato
- 24. La morte di Giovanni Paolo I
- 25. Area 51
- Bibliografia
- Copyright